La sfida del secolarismo all’universalità cristiana, di Francesco Botturi
Riprendiamo dal web la relazione tenuta dal prof. Francesco Botturi, Ordinario di Filosofia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in occasione della 63a Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana (Roma, 23 - 27 maggio 2011). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi sul moderno e il post-moderno vedi su questo stesso sito la sezione Storia e filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (1/11/2011)
L’intervento su una materia tanto trattata, e sulla quale ciascuno dei presenti per studio e per esperienza può essere in qualche misura maestro, richiede consapevolezza dei propri limiti e una saggia definizione dell’obiettivo. Vorrei rispondere a una questione: se e come sia possibile una visione unitaria, che inquadri i molti fenomeni, anche contrastanti, con cui la cosiddetta “secolarizzazione” segnala la sua persistente efficacia nel vissuto contemporaneo.
La persistenza di fenomeni, quali il calo delle pratiche religiose, la lontananza di religione e vita sociale, il depauperamento del capitale simbolico della tradizione religiosa; ma anche l’emergenza di fenomeni di de-secolarizzazione, caratterizzati, al contrario, dalla tendenza a ricongiungere dimensione religiosa e identità soggettiva e a rivendicare un nuovo protagonismo pubblico e storico da parte del religioso e delle sue grandi tradizioni; e ancora, la persistenza di un laicismo aggressivo, che a livello di iniziativa politica, di messaggio massmediale, di editoria punta a una delegittimazione teorica del religioso e alla contestazione della presenza pubblica del cristianesimo (cfr. dibattito su “laico” e “laicità” nell’ultimo decennio) appartengono al medesimo processo storico di secolarizzazione, quale sfondo unitario e polimorfo oppure sono fenomeni scomposti, espressivi solo di istanze e tradizioni disparate?
La natura della secolarizzazione
Porsi il problema della natura della secolarizzazione è sicuramente un proposito ambizioso. Sono note le illustri e non composte diatribe a riguardo di tale questione, che implicano anche prese di posizioni importanti sull’identità della stessa intera vicenda moderna. Tuttavia conviene rischiare, senza presunzione ma anche senza timidezza, perché sono in gioco quadri interpretativi del nostro presente e del suo contesto culturale, che ci sono indispensabili e di cui, perciò, è meglio tentare di formarsi un’esplicita coscienza critica.
Donde nasce – dobbiamo chiederci – quel processo storico che chiamiamo “secolarizzazione”, cioè, secondo la metafora sottesa, quel processo di riduzione al secolo di qualcosa che appartiene all’ordine del religioso e/o del sacro? Interrogativo che significa: è possibile individuare un’ essenza teorica unitaria, non empirica (evidentemente molteplice), della secolarizzazione?
È tesi comune a più storici della cultura, come P. Hazard e P. Chaunu, che la fine del XVII secolo sia caratterizzata da una globale “crisi della coscienza europea”, tanto profonda e articolata da costituire un irreversibile passaggio a una seconda fase della modernità, in cui gli elementi di discontinuità rispetto alla tradizione dell’umanesimo cristiano prevalgono rispetto a quelli di continuità.
Tre possono essere considerati gli ambiti più sinteticamente significativi per l’emergenza della crisi.
A. Innanzitutto quello religioso, ove la frattura aperta dal protestantesimo, con il tragico corollario e le cosiddette guerre di religione veniva a lacerare l’unità vitale della civiltà europea: la stessa identica energia che aveva costituito per un millennio la genesi e il principio dell’unità e dell’identità culturale dell’Europa, la fede cristiana, era divenuta l’origine e la causa di un conflitto globale e disgregatore.
B. A livello etico-antropologico la scoperta del pluralismo culturale poneva inediti problemi alla tradizionale immagine unitaria dell’uomo. L’erudizione umanistica portava alla luce aspetti della cultura classica antica che non rientravano nelle grandi tradizioni del platonismo, dell’aristotelismo e dello stoicismo, da sempre termini di dialogo e luoghi di convergenza con l’antropologia cristiana; mentre le risultanze etnologiche del Nuovo Mondo americano o degli antichissimi mondi dell’Egitto, dell’India, della Cina, testimoniavano di un pluralismo culturale a livello della storia mondiale che veniva a sconvolgere il quadro acquisito e cristianizzato dell’antropologia: costumi barbari in contraddizione con l’universale legge naturale oppure civiltà raffinate, comunque sorti al di fuori dell’influsso ebraico-cristiano e sconvolgenti con la loro antichità le cronologie bibliche, letteralisticamente interpretate.
C. Infine, in ambito strettamente intellettuale, la crisi dell’unità del sapere, cioè delle sue forme fondamentali, nessuna delle quali capace di offrire un principio di sintesi: tradizione scolastica, polimazia umanistica, nuova scienza, quando non si escludevano reciprocamente, convivevano o anche interagivano, ma impotenti di fronte al compito di una nuova armonia epistemologica.
Nessuno di questi elementi di crisi sarebbe stato in grado di determinare da solo la crisi della coscienza europea come tale; ma insieme ebbero il potere di dare un colpo decisivo alla credibilità dell’umanesimo cristiano. Lo scandalo della divisione e della differenza induceva una sfiducia a riguardo delle ragioni di credibilità e delle risorse culturali della fede tradizionale.
In gioco era l’oscuramento, spirituale e culturale, del paradossale valore universale della singolarità cristiana, chiave di volta dell’umanesimo cristiano di sempre: qualcosa di “singolare”, come direbbe Kierkegaard contro Lessing, qualcosa di storicamente particolare e di ontologicamente eccezionale è principio rinnovatore e generatore dell’umano universale. Per la prima volta veniva meno, nel pensiero e nell’ethos europei, la concordia sulla premessa dell’umanesimo cristiano, la circolarità tra la natura umana, concepita come originariamente aperta all’evento singolare di Cristo, e la fede in esso, come salvaguardia e garanzia delle doti della comune natura umana, dell’universalità della verità e del valore e, quindi, anche della comunicazione e dell’unità storiche tra gli uomini.
Se la fede, però, non costituisce più il riferimento comune e l’orizzonte entro cui i valori universali emergono con maggior chiarezza e purezza, si impone il compito di reperire altre vie e altre garanzie di universalità. La crisi dell’umanesimo cristiano esige la ricerca e l’invenzione di nuove sintesi culturali e operative, in cui gli uomini possano convergere, comunicare e progettare la loro storia al di qua, se non contro o al di là, della fede cristiana. Se la fede non può esser più l’elemento di coesione universale, sia a livello speculativo, sia a quello pratico, è urgente reperire un nuovo denominatore comune.
Ben si comprende allora che, in queste condizioni culturali, si creano le condizioni per una preventiva estraneità alla fede dell’opera della ragione, una spontanea tendenza secolarizzante della cultura, su cui non tarda a innestarsi la giustificazione teorica di una fondamentale autosufficienza naturalista, per la quale spesso la fede è valutata non solo come estranea all’opera della ragione, ma anche alternativa.
Storia paradigmatica della secolarizzazione
Con questo presupposto è possibile tracciare una storia paradigmatica degli atteggiamenti moderni nei confronti del cristianesimo, che fanno corpo con la vicenda secolare della secolarizzazione e le danno fisonomia concreta e plurale.
1. Il primo atteggiamento è quello di riduzione privatistica della religione, incentrata sulla duplice idea della soggettività privata della fede e della confessionalità pubblica della religione. Nasce qui il paradigma di una fede rilevante nel contesto dell’esistenza, ma senza relazione significativa con la verità del mondo, e di una religione quale momento pratico del conformismo sociale, subordinato al potere pubblico: la religione ha il compito di inculcare lo spirito di obbedienza e di garantire l’ordine pubblico. Le riflessioni cartesiane sulla religione come modo del conformismo sociale o le dottrine hobbesiane e spinoziane sulla funzione politica del cristianesimo costituiscono esempi assai eloquenti in proposito.
2. L’atteggiamento privatistico ha necessariamente il valore di un transitorio compromesso, incapace di rispondere alla pretesa totalizzante e universalistica del cristianesimo. Tre possono essere considerati gli atteggiamenti successivi, per così dire sistematici, nei confronti dell’umanesimo cristiano e della sua universalità.
2.1. A un estremo si possono collocare l’opposizione frontale all’umanesimo cristiano rappresentata dall’ateismo libertino e dal materialismo illuminista.
2.2. All’altro estremo, la tradizione empiristica e pragmatista della modernità (a partire dalla matrice hobbesiana-lockiana-humaniana) – decisiva per l’area anglofona –, in cui alla crisi dell’universale umanistico cristiano non si è risposto con l’opposizione, né con la sostituzione, bensì con una revisione radicale dell’idea stessa di universalità. Conseguentemente, la mentalità empiristica rappresenta nel moderno l’ipotesi della possibilità del convenire e del convivere umani a prescindere dal riconoscimento di una comunanza universalistica originaria, che si è espressa e si esprime, a livello socio-politico, nell’idea liberale della procedura democratica. Patrimonio prezioso della modernità, decisivo per il sorgere dell’idea positiva di laicità; ma anche drammatica in nuce, perché indirizza l’idea democratica verso l’agnosticismo sull’universale antropologico.
2.3. Il terzo atteggiamento costituisce – in antitesi ai precedenti – il tentativo speculativamente più elevato e teoricamente più potente: quello di una ricomprensione della religione e del cristianesimo come parti della più vasta totalità razionale. Tale atteggiamento ha, a sua volta, due forme principali, legate tra loro da una certa logica consecutività.
La prima forma consiste nell’identificazione del contenuto essenziale del cristianesimo con un insegnamento etico, anzi con l’espressione compiuta e insuperabile dell’eticità, dal momento che la morale fornisce principi universali, mentre i dogmi e le credenze appartengono al campo delle particolarità.
La seconda forma di ricomprensione del cristianesimo ne tenta una più ampia e profonda ripresa, che coglie della fede cristiana anche le dimensioni metafisica e storica, emarginate dal pensiero illuminista. È la posizione idealista e in particolare hegeliana, che parte dal riconoscimento che l’essenza del cristianesimo non si riduce a un codice etico o all’eccelso esemplare storico dell’idea morale universale, ma è «religione assoluta», compiuta rivelazione dell’uomo nella sua relazione metafisica e storica al divino. Il cristianesimo sarà allora la forma mitico-religiosa per eccellenza della coscienza metafisica dell’umanità, cioè espressione mitologica dell’identità metafisica dell’umano e del divino e allegoria della piena autorivelazione dell’Uomo-Dio. Hegel mette in luce la densità speculativa del cristianesimo come momento terminale della storia dell’Assoluto nella sua manifestazione mondana e quindi come religione della “riconciliazione” (Versöhnung) del finito e dell’infinito.
Così, se da una parte nell’Incarnazione il cristianesimo ha annunciato l’abolizione della distanza di Dio dall’uomo, e quindi la celebrazione di un inedito senso dell’universalità spirituale, della dignità umana e della sua libertà; dall’altra, il cristianesimo, che ha dato al mondo il senso dello Spirito, in quanto religione ne è solo la coscienza mitologica, in cui ciò che è proprio della vita del Soggetto spirituale è ancora attribuito a fatti empirici oggettivi, come avviene nelle forme rituali, istituzionali, ecclesiastiche della fede cristiana, in particolare cattolica. Per questo l’essenza del cristianesimo va ripresa e superata, cioè demitizzata, in una forma superiore, in cui il suo contenuto metafisico, autenticamente spirituale, venga liberato dalla scorza mitico-sacrale premoderna. Sappiamo – vale la pena osservare – quanto questo pensiero abbia contato nella ripresa teologica novecentesca del tema della secolarizzazione.
La secolarizzazione idealista è dunque una secolarizzazione ancora religiosa, nei contenuti e negli intendimenti; ma, quanto alla sua logica intrinseca, essa costituisce il perfetto contrario dell’umanesimo cristiano. In quanto sottopone il significato della fede a una misura esterna e superiore, rovescia il senso della signoria di Cristo: tutto ciò che è di Cristo e della sua Chiesa viene attribuito alla Ragione e al suo divenire storico come Spirito. Siamo al punto della parabola, in cui secondo K. Barth «l’uomo è rimasto solo nel gioco, in quanto egli solo è divenuto soggetto, mentre Cristo è divenuto suo predicato».
In sintesi, il mainstream della seconda modernità è leggibile, dal punto di vista che ci interessa, come grande fenomeno di reinterpretazione secolarizzata dell’universale cristiano, in funzione di un nuovo e più alto progetto universalistico, cioè di un progetto che, pur conservando contenuti dell’etica o della metafisica cristiane, abbia però una fondazione esclusivamente razionale, di principio universalmente condivisibile.
Se questo è il contenuto speculativo della secolarizzazione cristiana, la sua crisi (speculativa) coincide necessariamente con la crisi della modernità stessa.
Dall’ateismo al nichilismo
Culmine della parabola, la secolarizzazione idealista è anche un momento intrinsecamente instabile. La ricomprensione metafisica del cristianesimo apre con logica facilità all’ateismo. Se il cristianesimo, e in generale la religione, non sono che un momento della coscienza di sé da parte dell’umanità, al culmine della sua autocoscienza critica, nella sua piena auto-manifestazione, l’uomo si scopre solo con se stesso: se la religione non è che il momento mitico della sua identità, quando questa è scopertamente raggiunta, la trascendenza religiosa appare per ciò che essenzialmente è, “alienazione” dello Spirito da se stesso. Se l’immanenza metafisica è perfetta, allora è anche priva di un Dio che sia alterità fondante, ed è, perciò, in questo senso a-tea. Questo per lo meno è il passaggio compiuto dalla Sinistra hegeliana.
La via è così aperta all’ateismo costruttivo, che nelle sue varie forme vedrà ormai nella religione un momento, forse inevitabile (Feuerbach), ma comunque patologico (Marx), della vita umana: sintomo certo di problemi irrisolti da parte della soggettività individuale e sociale.
Ma se non vi è Assoluto, anche il potente soggetto (individuale o collettivo) della sua prassi mondana è finito e fallibile: l’ateismo giunto a piena consapevolezza di sé non è prometeico. L’anima più profonda dell’ateismo moderno sta nel depotenziare il senso della trasformazione umana della realtà; essa non persegue una totalità di senso o di valore, ma solamente si esercita come un potere che non invoca più alcuna giustificazione, che non dipende più da alcuna finalità, che non è più interno ad alcun ordine regolatore.
È l’intuizione profonda di Nietzsche sull’essenza del nichilismo compiuto, come dionisismo, che non è sostituzione di un assoluto umano o umanitario all’assoluto divino (il «nichilismo reattivo»), ma negazione di ogni assolutezza (di Dio, dell’uomo, del mondo); non più, dunque, occupazione da parte dell’uomo del posto di Dio, ma la negazione del «posto» stesso (come afferma G. Deleuze) e liberazione di una energia d’affermazione senza altro fondamento che se stessa («nichilismo attivo»).
Opportunamente F. Lyotard ha scritto che caratteristica del post-moderno, in quanto nichilista, è la caduta dei «grandi racconti»: abolite le categorie di unità e totalità, fine e perfezione, ogni spiegazione ultima perde senso. Forse l’unica cifra dell’esistenza possibile per il nichilismo è la cifra del gioco: senza verità e valore, l’agire diventa fine a se stesso; come il gioco, che non vuole però realizzare nulla oltre se stesso. In questo senso il nichilismo contemporaneo è appunto post-moderno, coincide cioè con la crisi delle grandi categorie universaliste e unificanti, con cui le culture moderne pensavano di poter interpretare e governare il mondo.
Dal nichilismo all’universalità della crisi
Da quanto detto è facile comprendere che il nichilismo non è solo un orientamento filosofico con cui fare i conti, ma costituisce oggi – come dice Heidegger – lo stesso “ambiente del pensare”. Il raggio del nichilismo contemporaneo è più esteso delle filosofie nichiliste, in quanto costituisce il contesto storicamente e culturalmente “oggettivo” del pensare e dell’agire dell’uomo occidentale (cioè ormai, globale). È la realtà dei fatti, d’altra parte – si pensi al potere pervasivo, senza centro e senza norma, della rete informatica, delle strutture mondiali finanziarie, di quelle massmediatiche, ecc. – che impone una visione postmoderna, entro cui l’uomo occidentale non trova, con fondamento e convinzione, forme di universalità vincolanti.
Di conseguenza la condizione postmoderna si caratterizza per una sua sempre più esigua continuità con la tradizione umanista occidentale, sino al limite della sua estraneazione dalle sue fonti universaliste. In questo contesto prende rilievo quanto ha osservato J. Ratzinger, quando ha registrato quasi «un odio di sé dell’Occidente […]; l’Occidente […] non ama più se stesso; della sua propria storia vede ormai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo […]»; nel frattempo si consuma il «sincronismo paradossale» tra «la vittoria del mondo tecnico-secolare post-europeo, […] l’universalizzazione del suo modello di vita e della sua maniera di pensare» e «l’impressione che il mondo di valori dell’Europa, la sua cultura, la sua fede, ciò su cui si basa la sua identità, sia giunto alla fine e sia propriamente uscito di scena».
Si comprende, dunque, che l’esito nichilista della secolarizzazione pone drammaticamente l’uomo contemporaneo di fronte al problema analogo a quello che causò lo stesso processo epocale di secolarizzazione: se all’inizio il cristiano sembrò divenuto impotente a fondare e promuovere l’universale umano e quindi parve necessario reperire sue nuove figure, oggi la crisi nichilista della modernità pone l’uomo di fronte a un vertiginoso vuoto di universalità. La parabola secolarizzante ha posto e deposto, istituito e delegittimato l’intero ordine degli universali scientifici, giuridici, etici, politici, così che, al termine della parabola moderna, l’uomo europeo (e con lui l’occidentale) si trova in un’indigenza di universalità, più grave di quella del suo inizio.
Valutazione della secolarizzazione/secolarismo
Nella coscienza ecclesiale diffusa la questione della secolarizzazione ha dei confini incerti. Il magistero del concilio Vaticano II, nella sua considerazione del mondo contemporaneo non ne parla in modo rilevante; mentre la sua attenzione sembra polarizzata dal fenomeno dell’ateismo, cioè da una fase del grande processo della secolarizzazione, senza apparente consapevolezza di tale appartenenza.
Il dibattito teologico ha avuto diverse stagioni, dall’esaltazione del fenomeno alla sua denigrazione; ma nel complesso con poche trattazioni sistematiche. Molta influenza ha avuto e ha la ricerca sociologica, indispensabile a descrivere e ad analizzare le prassi, ma abbastanza approssimativa nel definire le categorie con cui comprendere il fenomeno nella sua complessità.
In genere, la ricerca sociologica sottolinea della secolarizzazione la sua dimensione negativa di “privatizzazioone” del religioso e quella positiva di “differenziazione” degli ambiti temporali dal religioso (cfr. “autonomia delle realtà temporali”; “laicità” delle istituzioni pubbliche). Ma non sembra considerate adeguatamente l’unità e la complessità interne del processo: unità data dal problema originario da cui nasce – in modo traumatico e polemico – la questione della secolarità moderna; e complessità, conseguente alla dialettica tra le risposte elaborate lungo il suo travagliato percorso. E quindi – a mio avviso – non è generalmente in grado di cogliere la logica storico-culturale che connette fasi e fenomeni differenti e contrastanti.
È questa logica, invece, che ha sedimentato le figure storico-culturali che abbiamo considerato – privatista e soggettivista, esperienzialista (esperienzialismo religioso empirista), universalista moralista (cristianesimo religione dei valori e dei doveri); umanista idealista (cristianesimo metafora dell’umano autentico), sino alla negazione ateista e al suo svuotamento nichilista – che, in diverso modo e misura sono tutte ancora forme attive nella coscienza contemporanea e influenti sulla società.
La stessa reviviscenza post-secolare del religioso – sociologicamente rubricata come de-secolarizzazione e quindi conclusione dell’epoca della secolarizzazione e inizio dell’età post-secolare – presenta ambivalenze altamente significative. La desecolarizzazione smentisce i pronostici della sociologia religiosa che, a partire dagli anni ‘60, prevedevano un’irreversibile (auto)marginalizzazione della religione a seguito del processo di modernizzazione sociale.
Le motivazioni della crescente deprivatizzazione del religioso esprimono, significativamente, l’esigenza di superare i parametri più riduttivi della modernità e della postmodernità; esprimono cioè, la percezione dell’esaurimento della spinta propulsiva di quello che Ch. Taylor chiama l’exsclusive humanisme, una visione del mondo come di un ordine immanente chiuso, presuntuosamente autosufficiente; e insieme il bisogno di ricomposizione dell’identità antropologica, che ridia senso unitario all’esistenza minacciata dalla dispersione nichilista del senso; e la preoccupazione delle grandi problematiche antropologiche in gioco nel tempo presente, che non trovano risposta nella scienza e nella politica; e, infine, una diffusa domanda, rivolta alla Chiesa e/o alle grandi tradizioni religiose, di memoria storica, di valori universalisti, di ethos collettivo condiviso.
Eppure le rilevazioni sociali sono unanimi nel constare che questo rivolgimento del processo della secolarizzazione contro se stesso avviene a prezzo di una fondamentale tendenza soggettivista, che vuol dire riduzione dell’esperienza a esperienzialità, del valore al sentire, del vero a opinione, dell’appartenenza a opzione; in particolare, a prezzo di un depotenziamento del valore veritativo del credere e del valore dell’appartenenza ecclesiale. Così che il risultato complessivo di questo tipo di sensibilità religiosa non è una vivace pluralità cattolica, ma una pluralizzazione soggettiva e dispersiva della fede.
Conclusione prospettica
Se guardiamo al di là delle frastagliate contingenze di questi fenomeni è facile accorgersi che ciò che è in gioco è ancora una volta la mancata riconciliazione tra l’esperienza e il suo significato universale… È su questo nesso – che riprende circolarmente l’inizio del nostro discorso – che vorrei concludere, affermando che dall’orizzonte della secolarizzazione, nelle sue diverse forme e conseguenze, non si esce mentalmente, finché quel nesso non sia esistenzialmente riattivato.
L’influsso ormai “ambientale” della secolarizzazione (nei suoi vari gradi e modi) esige un’iniziativa esistenziale e culturale consapevole e sistematica, affinché diventi possibile sottrarsi alla forza gravitazionale della sua “logica”, che inevitabilmente porta verso una lettura della fede in chiave di universalità astratta (principi, valori, forme di umanesimo, ecc.) oppure in chiave di particolarismo analogamente astratto (sentimenti, pratiche, esperienze, singole tradizioni, ecc.).
Consapevoli del condizionamento storico-culturale da cui siamo gravati, sappiamo, però, non solo di dover fare un’opera educativa della fede che la sottragga alla sua intima scissione, ma anche di poter dare un contributo antropologico di grandissima importanza. Siamo consapevoli, cioè, dell’appello contenuto in questo tempo riassuntivo della vicenda secolarista a ritrovare la chiave di volta dell’umanesimo cristiano, la singolarità cristiana, sintesi infrangibile di particolarità e di universalità. Consapevoli, inoltre, che il ritrovamento di tale unità non riguarda solo l’autenticità cristiana, ma è paradigma anche per un umanesimo fondamentale di cui ha acuto bisogno il nostro tempo, sempre più in difficoltà a fare, a ogni livello, esperienze sensate.
Il processo della secolarizzazione, infatti, ha elaborato figure universalistiche, prima concorrenti, poi sostitutive dell’universale cristiano, in cui non veniva proposta una sintesi superiore dell’esperienza (vissuta e storica), bensì venivano privilegiate ipostasi di astrazioni a cui l’esperienza avrebbe dovuto conformarsi: Natura, Ragione, Scienza, Legge, Stato, Mercato, ecc. (procedimento tipico dell’illuminismo, di cui l’idealismo avvertì fortemente il limite, cercando di rimediarvi con le idee di Spirito, Storia, Cultura, ecc.).
Le crisi interne del processo, poi, quella ateista e quella nichilista, hanno rovesciato la prospettiva, denunciandone l’astrattezza, ma innescando un ulteriore processo che, dopo le enfasi delle grandi e micidiali ideologie otto-novecentesche, si è isterilito sino al suo stesso annichilimento, che consegna l’esperienza al frammentario, all’occasionale, all’eventuale, cioè a un particolarismo esasperato; a cui non si rimedia giustapponendo vecchi universali (ad esempio, secondo un tipico patchwork etico: libertarismo morale più culto dei diritti umani e della legalità).
Solo – oso dire – la riscoperta delle straordinarie potenzialità antropologiche e culturali della “logica” sacramentale è in grado di far fronte, attivamente e costruttivamente, agli esiti riduzionisti del processo della secolarizzazione. È la logica dell’universale concreto, secondo cui l’unicità storica della persona di Cristo implica l’universalità della sua azione di salvezza. Logica che ha la sua analogia propria nella perfezione estetica, in cui la portata universale dell’opera è direttamente e paradossalmente proporzionale alla sua irriducibile singolarità; ma è – simpliciter – anche la logica di tutto ciò che è più propriamente umano (capisco che cosa è l’amore umano come tale, amando veramente e intensamente quella precisa persona, ecc.). A un colpo si dà corpo all’esperienza cristiana e si dà fiato alla civiltà occidentale.
Tutto ciò significa un consapevole e sistematico impegno educativo a superare la divergenza (operante nei due sensi) di pratica religiosa, appartenenza ecclesiale, stili di vita e criteri di giudizio, di valutazione, di progettazione; cioè educando a leggere nel particolare della Parola della fede e dei suoi Segni i significati che riguardano l’uomo intero e tutti gli uomini, nelle forme della cultura e della cura dell’umano.