Una rilettura della "Trasfigurazione", l'ultima opera dell'artista urbinate. Quel Raffaello pare proprio Caravaggio, di Antonio Paolucci
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 23/10/2011 un testo di Antonio Paolucci. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Su Raffaello, vedi su questo stesso sito le sezioni Roma e le sue basiliche e Arte e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (23/10/2011)
Pubblichiamo ampi stralci della lezione che il direttore dei Musei Vaticani ha pronunciato sabato 22 ottobre nell'ambito del XV congresso internazionale "Testimoni del Volto di Cristo e del Volto di Maria Sua Madre" presso la Pontificia Università Urbaniana.
Roma, aprile dell'anno 1520. Nella chiesa del Pantheon si officiano le esequie di Raffaello da Urbino morto il 6 di quel mese, venerdì di Passione, a 37 anni. Deve essere stato un funerale partecipato, commosso e commovente come pochi altri nella storia di Roma. Raffaello era celebre, tutti, in Italia e in Europa lo conoscevano come vero e proprio stupore del secolo, quasi un Apelle reincarnato, in ogni caso il vertice supremo nella storia antica e moderna della pittura.
Per Papa Giulio II aveva dipinto il suo appartamento privato; quegli ambienti che tutto il mondo da allora in poi chiamerà le Stanze. Pochi mesi prima (era il dicembre dell'anno 1519 festa di Santo Stefano), aveva consegnato a Papa Leone X Medici gli Arazzi, i dieci arazzi con le storie di Pietro e Paolo destinati a ornare le pareti della Cappella Sistina e che erano costati la cifra vertiginosa di 70.000 ducati. Non c'è niente di più bello al mondo, nihil pulchrius avevano pensato e scritto, stupiti e ammirati, i prelati e gli intellettuali presenti alla inaugurazione.
Così come non c'era nulla al mondo che potesse essere paragonato per venustà, originalità e splendore - la sentenza è di Baldassar Castiglione, in una nota lettera a Isabella Gonzaga - alla grande Loggia dei Palazzi Apostolici, conclusa dalla équipe di Raffaello nel giugno di quello stesso 1519, annus mirabilis nella biografia del pittore e nella storia delle arti.
Raffaello era immensamente, meravigliosamente bravo. Lo sapevano i suoi grandi committenti:
Giulio II della Rovere, Leone X Medici che lo nomina nel 1516 Soprintendente alle antichità di Roma - affermando con ciò per la prima volta nella storia d'occidente con un atto politico-amministrativo, il moderno concetto della necessità della competenza tecnica per giustificare la potestà normativa e prescrittiva nell'esercizio della tutela - il banchiere Agostini Chigi, Baldassar Castiglione, l'intellettuale più squisito, più raffinato del secolo. A quest'ultimo Raffaello, per gratitudine e per amicizia, dedicò il capolavoro della sua ritrattistica. È il quadro celebre che si conserva al Louvre.
Ma Raffaello piaceva anche per ragioni che potremmo definire popolari e sentimentali. Era molto bello prima di tutto, di una bellezza amabile e gentile che incantava. Lo dicono le fonti, lo testimoniano i contemporanei; possiamo capirlo dagli autoritratti che di lui si conservano: quello degli Uffizi, l'altro che sta nella Scuola di Atene, all'interno della Stanza detta della Segnatura.
Bello e gentile e cordiale e piacevole con tutti, con il Papa come con ciascuno dei suoi numerosi allievi era Raffaello. Così lo descrivono - è opportuno ripeterlo - con totale unanimità di ammirazione e di consenso i cronisti, gli storici, i testimoni contemporanei.
Raffaello amava riamato le donne e anche questo era un aspetto del suo carattere che lo rendeva simpatico a tutti. Un vero e proprio romantico leggendario è nato sugli amori di Raffaello. Non esiste certezza documentaria che il ritratto femminile che sta nella Galleria Palatina di Firenze, noto come la Velata, sia l'immagine della celebre Fornarina, la bellissima amante del pittore. Una cosa è certa, tuttavia. Quello della Galleria Palatina è un ritratto d'amore, è una immagine di donna che l'arte sublime di Raffaello accarezza con tenerezza, con dedizione, con una specie di affettuosa complicità.
Torniamo all'aprile del 1520. Questo giovane uomo che dalla vita ha avuto tutto, fortuna, successo, amore, l'ammirazione dei grandi della terra e il cui futuro appare gremito di meravigliosi progetti, muore improvvisamente. Per eccessi sessuali compiuti con la sua Fornarina - dice il Vasari - aumentando di eroica dismisura l'aspetto romantico della biografia raffaellesca. Ma l'olocausto per offerta di amore è evento, come ognuno può capire, tecnicamente impossibile e dunque altamente improbabile. È ragionevole credere invece che Raffaello sia morto di febbri malariche, endemiche e letali nella Roma di allora.
Le esequie, come si è detto, si tennero al Pantheon dove il pittore è ancora oggi sepolto in un sarcofago marmoreo al quale l'amico poeta Francesco Bembo dedicò in latino due versi memorabili: magna parens frugum timuit quo sospite vinci et morienti mori (la Natura ha creduto di essere vinta quando lui era vivo e di morire ora che è morto). Versi bellissimi che stringono in eleganza e splendore il destino di un pittore che - credevano i contemporanei e noi continuiamo a credere - è stato il più grande di tutti i tempi.
Quel giorno al Pantheon tutta Roma piangeva anche perché, dice il Vasari, dietro il corpo esanime di Raffaello giacente sul catafalco era stata collocata la Trasfigurazione così che nel vedere "il corpo morto e quella viva" era impossibile trattenere le lacrime.
Ed ora fermiamoci di fronte alla Trasfigurazione l'opera zenitale, il capolavoro dei capolavori, il dipinto che sta al vertice di tutta la produzione di Raffaello concludendola ed esaltandola dal punto di vista cronologico e stilistico.
Teniamo a mente quello che scrive il Vasari, a proposito del volto di Cristo. È stato quello l'ultimo intervento autografo di Raffaello. Egli si ammala e nel giro di breve tempo muore non appena ha finito di dipingere il volto del Trasfigurato.
Sono coincidenze naturalmente, sarebbe sciocco caricarle di significati mistici ed esoterici, e tuttavia fa un certo effetto pensare al destino di un uomo - Raffaello Sanzio da Urbino - che nasce e muore di Venerdì Santo e fa in tempo a dipingere il volto del Trasfigurato prima di entrare nel tunnel della malattia e della morte.
Ma ecco la Trasfigurazione oggi custodita nella Pinacoteca Vaticana. Esaminiamola nella immagine d'insieme e nei dettagli. Prima però lasciamo parlare Giorgio Vasari. La sua lingua ha una prodigiosa capacità mimetica nella descrizione dell'opera d'arte. È come un occhio che guarda, come una mano che accarezza. Vasari è preciso, essenziale, tecnicamente impeccabile e allo stesso tempo interpretativo ed evocativo; intende benissimo il messaggio teologico e catechetico che la Trasfigurazione trasmette, lo interpreta e lo significa da par suo: la parte inferiore del dipinto è occupata dal dramma di tutti e di ognuno, dalla paura, dalla contrastata speranza. Il ragazzo posseduto dal male, come ogni vivente sotto il cielo, chiede di essere liberato dalla sventura che lo opprime e lo devasta. Chi gli sta accanto, la madre, gli altri personaggi, vogliono aiutarlo, sanno che la sua salvezza è anche la loro. Ma solo Cristo, trasfigurato sul Tabor, può salvare.
I toni scuri, drammaticamente realistici, quasi caravaggeschi, gli effetti di una concitata pittura "in nero", caratterizzano la parte inferiore della composizione. Mentre in alto trionfa la luce e Vasari insiste con parole bellissime nel descrivere, nell'esaltare, il trionfo della luce. La luce è vocabolo di Cristo Salvatore, per questo il suo volto splende come il sole meridiano.
Noi ci poniamo di fronte a questo dipinto e comprendiamo l'essenziale. Capiamo essere Raffaello come uno specchio che riflette imperturbabile, olimpico, il mondo di Dio e quello degli uomini. C'è tutto nell'opera di Raffaello e in questo dipinto sublime più che in ogni altro. Ci sono le umane passioni, le paure, i contrastanti sentimenti (il gruppo di uomini e di donne che si agitano ai piedi della Trasfigurazione) c'è lo splendore infinito del mondo visibile (il tramonto romano dietro il monte Tabor) c'è la consolazione della bellezza che scalda il cuore e ci fa sentire, almeno per un momento, felici e grati di esistere. C'è la grande storia, calata nei ritmi solenni e "facili" destinati ad affascinare dopo di lui generazioni di artisti da Annibale Carracci a Guido Reni a Pietro da Cortona a Poussin a David fino (non sembri stravagante il riferimento) a Pablo Picasso.
Nella Trasfigurazione e in particolare nella figura e nel volto del Trasfigurato, Raffaello ha voluto dare immagine alla idea del Divino che si incarna nella Bellezza. Il concetto è semplice ed è grande merito storico della Chiesa di Roma averlo affidato ai suoi artisti perché lo mettessero in figura. La struggente infinita bellezza del mondo visibile non è inganno diabolico, non è enigma e finzione come lo stesso san Paolo (I Corinzi, 13, 12) aveva in qualche momento pensato (Nunc videmus per speculum et in enigmate); al contrario la bellezza del mondo è epifania dell'Altissimo, è ombra di Dio sulla terra. Se il Verbo si è incarnato, si è incarnato nella Bellezza che ci sta intorno, che splende nei volti e nei corpi degli uomini e delle donne, che consola e riscalda le nostre vite.
(©L'Osservatore Romano 23 ottobre 2011)