Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo e/o ignorare Cristo significa ignorare le Scritture? Esegesi storico-critica ed esegesi tipologica nella famosa espressione di San Girolamo. Breve nota di Andrea Lonardo
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Presentiamo sul nostro sito una breve nota scritta da Andrea Lonardo a commento di un’espressione di San Girolamo. Per approfondimenti, vedi la sezione Sacra Scrittura. Su Girolamo, vedi anche L'immagine di San Girolamo nel Rinascimento. Per approfondimenti, vedi anche al tag tipologia.
Il Centro culturale Gli scritti (4/10/2011)
«Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo». Il Concilio Vaticano II rilegge in chiave allegorica e morale questo testo di Girolamo, quasi che esso volesse stimolare i cristiani alla lettura personale della Bibbia (il riferimento è ovviamente a Dei Verbum 25).
Se, però, si legge con attenzione storico-critica il Prologo al Commento di Isaia del quale la famosa espressione fa parte, ci si accorge immediatamente che il senso del testo nel suo contesto originario è tutt’altro: Girolamo vuole dire che solo cogliendo la presenza di Cristo nell’Antico Testamento lo si è compreso veramente.
Per Girolamo, colui che “ignora le Scritture”, non è colui che non le conosce materialmente, bensì colui che, pur leggendole, le interpreta da pagano o da ebreo e, quindi, non si accorge che Cristo si rivela già nell’Antico Testamento.
Girolamo afferma in proposito, indicando la finalità del suo commento:
«Intendo perciò esporre il profeta Isaia in modo da presentarlo non solo come profeta, ma anche come evangelista e apostolo».
Ed ancora:
«Effettivamente nel libro di Isaia troviamo che il Signore viene predetto come l'Emmanuele nato dalla Vergine, come autore di miracoli e di segni grandiosi, come morto e sepolto, risorto dagli inferi e salvatore di tutte le genti».
Se, invece, non si coglie Cristo presente nelle profezie veterotestamentarie, secondo la prospettiva di Girolamo,
«sarà come le parole di un libro sigillato: si dà a uno che sappia leggere, dicendogli: Leggilo. Ma quegli risponde: “Non posso, perché è sigillato”. Oppure si dà il libro a chi non sa leggere, dicendogli: Leggilo, ma quegli risponde: “Non so leggere” (Is 29, 11-12). (Si tratta dunque di misteri che, come tali, restano chiusi e incomprensibili ai profani, ma aperti e chiari ai profeti. Se perciò dai il libro di Isaia ai pagani, ignari dei libri ispirati, ti diranno: “Non so leggerlo, perché non ho imparato a leggere i testi delle Scritture”».
Ecco il paradosso di una corretta ermeneutica dei padri della Chiesa. Ogni approccio storico al loro pensiero implica che si entri nel mondo dell’allegoria tipologica.
Lo stesso vale, ovviamente, per le Sacre Scritture. Una seria esegesi storico-critica neotestamentaria deve accettare l’interpretazione spirituale dell’Antico Testamento, perché il Nuovo Testamento legge l’Antico esattamente in questa prospettiva. Ad esempio, Paolo nella Lettera ai Romani non legge i brani di Genesi su Adamo con il metodo storico-critico, bensì secondo il “sensus plenior” che vi coglie a partire da Cristo e, quindi, l’esegeta, deve continuamente passare da un senso all’altro proprio per essere storicamente fedele a Paolo.
Per leggere in maniera storico-critica il Nuovo Testamento bisogna accogliere la sua lettura “spirituale” dell’Antico – ma anche già per comprendere le ri-letture veterotestamentarie degli eventi biblici.
Essere coerenti con il metodo storico-critico implica assumere il “senso spirituale”.
Questo il brano di Girolamo:
(dal "Prologo al commento del Profeta Isaia" di san Girolamo, sacerdote, nn. 1. 2; CCL 73, 1-3)
Adempio al mio dovere, ubbidendo al comando di Cristo: "Scrutate le Scritture" (Gv 5, 39), e: "Cercate e troverete" (Mt 7, 7), per non sentirmi dire come ai Giudei: "Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture, né la potenza di Dio" (Mt 22, 29). Se, infatti, al dire dell'apostolo Paolo, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio, colui che non conosce le Scritture, non conosce la potenza di Dio, né la sua sapienza. Ignorare le Scritture significa ignorare Cristo. Perciò voglio imitare il padre di famiglia, che dal suo tesoro sa trarre cose nuove e vecchie, e così anche la Sposa, che nel Cantico dei Cantici dice: O mio diletto, ho serbato per te il nuovo e il vecchio (cfr. Ct 7, 14 volg.). Intendo perciò esporre il profeta Isaia in modo da presentarlo non solo come profeta, ma anche come evangelista e apostolo. Egli infatti ha detto anche di sé quello che dice degli altri evangelisti: "Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi, che annunzia la pace" (Is 52, 7). E Dio rivolge a lui, come a un apostolo, la domanda: Chi manderò, e chi andrà da questo popolo? Ed egli risponde: Eccomi, manda me (cfr. Is 6, 8). Ma nessuno creda che io voglia esaurire in poche parole l'argomento di questo libro della Scrittura che contiene tutti i misteri del Signore. Effettivamente nel libro di Isaia troviamo che il Signore viene predetto come l'Emmanuele nato dalla Vergine, come autore di miracoli e di segni grandiosi, come morto e sepolto, risorto dagli inferi e salvatore di tutte le genti. Che dirò della sua dottrina sulla fisica, sull'etica e sulla logica? Tutto ciò che riguarda le Sacre Scritture, tutto ciò che la lingua può esprimere e l'intelligenza dei mortali può comprendere, si trova racchiuso in questo volume. Della profondità di tali ministeri dà testimonianza lo stesso autore quando scrive: "Per voi ogni visione sarà come le parole di un libro sigillato: si dà a uno che sappia leggere, dicendogli: Leggilo. Ma quegli risponde: Non posso, perché è sigillato. Oppure si dà il libro a chi non sa leggere, dicendogli: Leggilo, ma quegli risponde: Non so leggere" (Is 29, 11-12). (Si tratta dunque di misteri che, come tali, restano chiusi e incomprensibili ai profani, ma aperti e chiari ai profeti. Se perciò dai il libro di Isaia ai pagani, ignari dei libri ispirati, ti diranno: Non so leggerlo, perché non ho imparato a leggere i testi delle Scritture. I profeti però sapevano quello che dicevano e lo comprendevano). Leggiamo infatti in san Paolo: "Le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti" (1 Cor 14, 32), perché sia in loro facoltà di tacere o di parlare secondo l'occorrenza. I profeti, dunque, comprendevano quello che dicevano, per questo tutte le loro parole sono piene di sapienza e di ragionevolezza. Alle loro orecchie non arrivavano soltanto le vibrazioni della voce, ma la stessa parola di Dio che parlava nel loro animo. Lo afferma qualcuno di loro con espressioni come queste: L'angelo parlava in me (cfr. Zc 1, 9), e: (lo Spirito) "grida nei nostri cuori: Abbà, Padre" (Gal 4, 6), e ancora: "Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore" (Salmo 84, 9).