Santa Cecilia: San Benedetto e il monachesimo, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 19 /09 /2011 - 20:04 pm | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione la trascrizione dell'incontro su San Benedetto del corso sulla storia della chiesa di Roma proposto dall’Ufficio catechistico di Roma, tenutosi il sabato 12/12/2009, presso la basilica di Santa Cecilia in Roma. Il calendario dei successivi incontri del corso è on-line sul sito dell’Ufficio catechistico della diocesi di Roma www.ucroma.it. Il testo è stato sbobinato dalla viva voce dell’autore ed è stato poi radicalmente risistemato, pur conservando lo stile informale della relazione stessa.
Le trascrizioni dei precedenti incontri sono on-line nella sezione Roma e le sue basiliche. Le foto che illustrano l’itinerario descritto in questo testo sono on-line nella Gallery Santa Cecilia.

Il Centro culturale Gli scritti 19/9/2011

Indice

1/ San Benedetto e Roma: introduzione all'incontro

In questa basilica di Santa Cecilia vogliamo conoscere un po' più da vicino la figura di San Benedetto da Norcia. Siamo qui innanzitutto perché Santa Cecilia è la chiesa di un monastero di monache benedettine e la loro presenza ci fa incontrare la tradizione viva di San Benedetto. Ma siamo qui anche perché probabilmente San Benedetto è stato qui più volte a pregare, perché quando egli venne a Roma abitò secondo la tradizione proprio a Trastevere, non lontano da questo luogo.

In età romana Trastevere era una periferia dell'urbe perché, come dice la parola, era trans Tiberim, al di là del Tevere: l’urbe si sviluppava nell’ansa del Tevere a partire dal Palatino, dal Campidoglio e dai Fori. Abbiamo già visto come in età neotestamentaria è accertato che a Trastevere abitassero molti immigrati provenienti dall’Oriente (Giudea, Siria, Persia) ed è sicura a partire dai testi letterari l'esistenza in zona di antiche sinagoghe, così come è attestata dagli scavi archeologici la presenza di sepolture ebraiche nella zona di Monteverde, a monte di Trastevere. Dal centro città si raggiungeva Trastevere attraverso diversi ponti: in particolare erano utilizzati in età imperiale sia i ponti che collegavano - e collegano ancora - l'isola Tiberina con la città sia il ponte ora noto come Ponte Rotto, l’antico Ponte Emilio del quale sono rimasti solo alcuni ruderi. Sicuramente anche San Paolo e San Pietro hanno frequentato le vie della Trastevere di allora ed avranno attraversato spesso i ponti fra le due rive.

Man mano che la città si sviluppava Trastevere fu sempre più popolato e venne infine incluso nel recinto murario con le Mura di Aureliano (270-273). Anche San Benedetto abitò a Trastevere. Dovette perciò anche lui attraversare più volte i ponti che vi conducevano, quando venne a Roma da Norcia, dove era nato intorno al 480/490 ca., per compiere non meglio precisati studi letterari.

La tradizione vuole che abbia abitato proprio qui vicino, dove oggi sorge la chiesa di San Benedetto in Piscinula. In quel luogo esisteva una residenza degli Anici – probabilmente la chiesa sorge sulle terme della casa - e la tradizione afferma che San Benedetto apparteneva ad un ramo di questa famiglia (un altro grande personaggio della stessa famiglia, che abbiamo già citato, è il famoso Simmaco, il grande avversario di Ambrogio, vissuto nella II metà del IV secolo[1]).

Benedetto avrebbe maturato la sua vocazione pregando davanti ad un affresco della Madonna che è ora conservato in quella chiesetta e quindi proprio qui vicino a Santa Cecilia crebbe nel discernimento della volontà del Signore.

È Gregorio Magno l'autore che ha scritto il racconto della vita di Benedetto e dobbiamo rifarci a lui per conoscerlo meglio. Egli ci racconta di lui, nel secondo libro dei Dialoghi (scritto intorno al 593/594). Nel riferirci di San Benedetto, Gregorio dichiara innanzitutto le sue fonti: «Certamente io non posso conoscere tutti i fatti della sua vita. Quel poco che sto per narrare, l'ho saputo dalla relazione di quattro suoi discepoli: il reverendissimo Costantino, suo successore nel governo del monastero; Valentiniano, che fu per molti anni superiore del monastero presso il Laterano; Simplicio, che per terzo governò la sua comunità; e infine Onorato, che ancora dirige il monastero in cui egli abitò nel primo periodo di vita religiosa» (Gregorio Magno, Dialoghi, II, Introduzione, 1-2). Da questo breve passaggio sappiamo così che esistette un monastero legato a Benedetto vicino al Laterano, guidato da un diretto discepolo del santo.

Gregorio racconta, in apertura, della venuta di Benedetto a Roma: «era nato da nobile famiglia nella regione di Norcia. Pensarono di farlo studiare e lo mandarono a Roma dove era più facile attendere agli studi letterari. Lo attendeva però una grande delusione: non vi trovò altro, purtroppo, che giovani sbandati, rovinati per le strade del vizio. Era ancora in tempo. Aveva appena posto un piede sulla soglia del mondo: lo ritrasse immediatamente indietro. Aveva capito che anche una parte di quella scienza mondana sarebbe stata sufficiente a precipitarlo intero negli abissi» (Gregorio Magno, Dialoghi, II, Introduzione, 1-2).

La delusione per l'ambiente accademico di Roma ha il suo parallelo nell'analoga sensazione che provò Agostino, giunto a Roma pieno di aspettative alla ricerca di una vita culturale brillante. Anch'egli, come abbiamo visto, quando toccò con mano la decadenza della vita dell'urbe, scelse di allontanarsene per recarsi a Milano[2]. Benedetto, invece, abbandonò completamente l'idea di vivere negli studi.

2/ Il riconoscimento della santità nella chiesa

Tutto il racconto di Gregorio Magno non si limita alla narrazione, ma vuole additare la santità della vita di Benedetto – abbiamo visto la scorsa volta come egli volesse dimostrare che i santi non appartenevano solo al passato e solo all'oriente, ma anche al tempo presente ed all'occidente latino e così fossero in fondo contemporanei con i suoi ascoltatori. Fu Gregorio, dunque, a riconoscerlo come vir Dei, come “uomo di Dio”, come vivente testimonianza di Dio nel mondo. Uno dei grandi maestri spirituali del secolo scorso, A. Louf, che è stato abate del monastero di Mont des Cats in Francia, ha scritto in proposito:

«Nel volto di un santo la chiesa riconosce se stessa, o piuttosto, riconosce Gesù Cristo che continua a camminare in mezzo a lei. La chiesa si alimenta e viene edificata ogni giorno da questo reciproco riconoscimento del popolo di Dio e dei suoi santi. Essa discerne così sempre meglio la strada che oggi le è propria e lungo la quale Dio la attende. Come un faro nella notte, il santo segnala il cammino. O piuttosto, dato che la sua luce non è che un riflesso di quella divina, nel santo è Dio stesso che indica la strada alla sua chiesa. Beata quella chiesa che, in ogni momento della propria storia, sa discernere la santità che Dio le dispensa con tanta generosità» (A. Louf, Benedetto, uomo di Dio per tutti i tempi, Comunità di Bose, Magnano, 1994).

La santità – potremmo dire – appartiene all'esegesi della Parola di Dio, è essa stessa Parola che Dio rivolge agli uomini, perché possano comprendere che Dio è sempre presente nella vita degli uomini ed avere luce per discernere il cammino buono da seguire[3].

Pensiamo anche al nostro tempo. Ci accorgiamo che Dio ci ha amato dandoci Giovanni Paolo II – ma anche dandoci Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e Benedetto XVI. Dio è presente e agente in questo nostro tempo proprio in questi suoi testimoni, così come in tanti altri santi che incontriamo. Uno dei dramma di chi separa la chiesa da Cristo è il fatto che si priva di quei segni che nella chiesa Dio ci dona perché possiamo essere certi della sua presenza e del suo amore provvidente. Chi non riconosce il valore della santità non sa più dove trovare una testimonianza che lo assicuri della bontà di Dio.

Ecco Benedetto è stato un segno di Dio, un uomo di Dio, per il suo tempo. Questo ci fa anche capire come mai, se leggiamo per intero la vita scritta da San Gregorio, essa abbondi di fatti che hanno un tono un po' troppo miracolistico, per i gusti moderni. Con grande acutezza Benedetto XVI ha commentato questo fatto, ricollegandolo proprio alla certezza che nei santi di tutti i tempi è il Dio vivente che continua ad operare:

«San Gregorio Magno racconta, in questo libro dei Dialoghi, di molti miracoli compiuti dal Santo, ed anche qui non vuole semplicemente raccontare qualche cosa di strano, ma dimostrare come Dio, ammonendo, aiutando e anche punendo, intervenga nelle concrete situazioni della vita dell'uomo. Vuole mostrare che Dio non è un'ipotesi lontana posta all'origine del mondo, ma è presente nella vita dell'uomo, di ogni uomo» (Benedetto XVI, Catechesi su San Benedetto, nell'udienza del 9 aprile 2008).

3/ Le tappe successive della vita di San Benedetto

Dunque Gregorio racconta che Benedetto, allontanandosi da Roma, risalì la valle dell'Aniene, fermandosi in un primo tempo ad Effide (oggi Affile) con la sua nutrice. Ma, deciso a vivere una vita eremitica di penitenza, si inoltrò più avanti fino a Subiaco, dopo che un prete di nome Romano, che era anche monaco, gli ebbe imposto la veste monastica. A Subiaco iniziò a dimorare in una grotta cercando di vivere in grande povertà e semplicità ed in uno spirito di preghiera – la grotta diverrà poi nota come il Sacro Speco di Subiaco. Per un certo tempo, fu Romano a calare nella grotta di Benedetto del cibo, perché egli potesse avere di che vivere.

Ma evidentemente, già in questi suoi primi passi di vita monastica, il Signore voleva mostrargli che non voleva da lui una vita eremitica, bensì che egli divenisse anche una luce per illuminare gli uomini del suo tempo. Gregorio racconta, infatti, un episodio molto interessante riguardante questo primo periodo di vita eremitica. Benedetto viveva talmente appartato da non avere più una precisa nozione del tempo liturgico: giunse così la Pasqua ed egli, non sapendolo, continuava a digiunare. Allora Dio apparve ad un sacerdote di Subiaco e lo invitò ad andare ad annunciare a Benedetto che era giunto il tempo della festa e che, quindi, bisognava rallegrarsi ed esprimere la gioia della resurrezione anche mangiando dei buoni cibi ed, in particolare, della carne. Così racconta Gregorio:

«Un certo sacerdote, che abitava parecchio distante, si era preparata la mensa nel giorno di Pasqua. All'improvviso ecco una visione: è il Signore che parla: "Tu ti sei preparato cibi deliziosi, e va bene: ma guarda là; vedi quei luoghi? Lì c'è un mio servo che soffre la fame". Il buon sacerdote balzò in piedi e nello stesso giorno solenne di Pasqua, raccolti gli alimenti che aveva preparato per sé, volò nella direzione indicatagli. Cercò l'uomo di Dio tra i dirupi dei monti, tra le insenature delle valli e tra gli antri delle grotte: lo trovò finalmente, nascosto nella spelonca. Tutti e due volarono prima di tutto al Signore, innalzando a Lui benedizioni e preghiere. Sedettero poi, insieme, scambiandosi dolci pensieri sulle cose del cielo. "Ora - disse poi il sacerdote - prendiamo anche un po' di cibo, perché oggi è Pasqua". "Oh, sì, - rispose Benedetto - oggi è proprio Pasqua per me, perché ho avuto la grazia di vedere te". Così lontano dagli uomini il servo di Dio ignorava persino che quel giorno fosse la solennità di Pasqua. "Ma oggi è veramente il giorno della Risurrezione del Signore - riprese il sacerdote - e dunque non è bene che tu faccia digiuno. Io sono stato inviato qui proprio per questo, per cibarci insieme, da buoni fratelli, di questi doni che l'Onnipotenza di Dio ci ha messo davanti". E così, con la lode di Dio sulle labbra, desinarono. Finita poi la refezione e scambiata qualche altra buona parola, il sacerdote fece ritorno alla sua chiesa» (Gregorio Magno, Dialoghi, II, I, 6-8).

Si noti in questo testo straordinario l'umanità di Benedetto che all'inizio esclama: «Oggi è proprio Pasqua per me, perché ho avuto la grazia di vedere te» - dove l'incontro con un fratello, la comunione di vita fraterna, è vera espressione della gioia pasquale. E poi, quando Benedetto comprende che è giunta veramente la festa di Pasqua, la disponibilità a lasciare il digiuno per gioire anche prendendo cibo.

Si vede qui come nella fede cristiana l'astenersi dal cibo ed il saperne godere sono momenti correlati e che il centro della spiritualità non sta tanto nel rapporto con il cibo, bensì nel rapporto con il Signore risorto. Per prepararsi alla festa si deve digiunare, per celebrare la festa si deve gustare il vino e la carne.

Incontriamo ancora una volta lo straordinario rapporto che ha con il cibo la fede cristiana. Il cristianesimo è l'unica religione per la quale nessun cibo è vietato, poiché non esistono cibi o bevande impuri, essendo stato tutto creato buono da Dio, a servizio dell'uomo. Bisogna sapersene, però astenere ed, allo stesso modo, saperne godere vivendo nella lode di Dio che tutto ci ha donato, con l'aiuto del tempo liturgico.

Gregorio racconta che a Subiaco Benedetto non solo venne aiutato dal prete Romano e dal secondo prete anonimo che si recò da lui nel giorno di Pasqua, ma, pian piano, divenne un punto di riferimento anche per tanti che abitavano nella zona:

«Poco tempo dopo anche alcuni pastori scoprirono Benedetto nascosto dentro lo speco. Avendolo intravisto in mezzo alla boscaglia, coperto com'era di pelli, credettero sulle prime che si trattasse di una bestia selvatica. Ma riconosciutolo poi come un vero servo di Dio, molti di essi, che veramente erano pari alle bestie, mutati dalla grazia, si diedero a santa vita. In seguito a questi fatti la fama di lui si diffuse in tutti i paesi vicini. E le visite sempre più diventarono frequenti: gli portavano cibi per sostenere il suo corpo e ripartivano col cuore ripieno di sante parole, alimento di vita per l'anima loro» (Gregorio Magno, Dialoghi, II, I, 6-8).

Torneremo su questo, ma è già evidente come il monaco si allontana dal mondo per cercare Dio, ma che, proprio per questo, egli è poi cercato dal mondo che ha bisogno di incontrare uomini di Dio: il monaco diviene così una testimonianza di amore per il mondo stesso da cui si è allontanato.

4/ Il monaco: il celibato e la verginità

In questo “cercare Dio”, la scelta del celibato è centrale ed è un punto fermo dell’esistenza monastica. In effetti, la parola “monaco” vuol dire esattamente “celibe”, letteralmente “solo”, dal greco “monos”. Il monaco è una persona che giunge, chiamato da Dio, alla decisione definitiva di non sposarsi per vivere nell'amore di Dio e testimoniarlo al mondo.

Gregorio racconta che questa era l’intenzione profonda di Benedetto, quella di “piacere a Dio”: era la sua ansia, il suo desiderio. Quel “piacere a Dio” è un'espressione carica di amore. Nella I lettera ai Corinzi, al capitolo 7, San Paolo presenta proprio così la possibilità del matrimonio e della verginità, come decisione sulla persona a cui si desidera “piacere”.

Così scrive Gregorio:

«[Benedetto] abbandonò con disprezzo gli studi, abbandonò la casa e i beni paterni e partì, alla ricerca di un abito che lo designasse consacrato al Signore. Gli ardeva nel cuore un'unica ansia: quella di piacere soltanto a Lui. Si allontanò quindi così: aveva scelto consapevolmente di essere incolto, ma aveva imparato sapientemente la scienza di Dio» (Gregorio Magno, Dialoghi, II, Introduzione, 1).

Gregorio racconta anche che, come in ogni vocazione cristiana, Benedetto dovette affrontare diverse tentazioni con cui il maligno cercava di farlo recedere dalla sua scelta ed anche la tentazione di abbandonare il celibato:

«Un giorno [...] lo invase una tentazione impura così forte, come il santo uomo non aveva provato mai. Un tempo egli aveva veduta una donna ed ora lo spirito maligno turbava con triste ricordo la sua fantasia. E fiamma sì calda il diavolo suscitò nell'animo del servo di Dio con quella appariscente bellezza, che egli non riusciva più a contenere il fuoco dell'amore impuro e già quasi vinto stava per decidersi ad abbandonare lo speco. Fu un istante: illuminato dalla grazia del cielo, ritornò improvvisamente in se stesso. Visti lì presso rigogliosi e densi cespugli di rovi e di ortiche, si spogliò delle vesti e si gettò, nudo, tra le spine dei rovi e le foglie brucianti delle ortiche. Si rotolò a lungo là in mezzo e quando ne uscì era lacerato per tutto il corpo; ma con gli strappi della pelle aveva scacciato dal cuore la ferita dell'anima, al piacere aveva sostituito il dolore; quel bruciore esterno imposto volutamente per pena, aveva estinto la fiamma che ardeva all'interno, e così, mutando l'incendio, aveva vinto l'insidia del peccato. Da quel giorno in poi, come egli stesso in seguito confidava ai discepoli, fu talmente domato l'incentivo della sensualità, da non sentirlo affatto mai più» (Gregorio Magno, Dialoghi, II, II,1-3).

È interessante come la tradizione spirituale ricordi sempre che non si vincono le tentazioni solamente con la forza di volontà. Qui Benedetto esce dalla tentazione di “abbandonare lo Speco”, la grotta dove si era ritirato, “mutando l'incendio”. La ragione umana non è in grado di controllare le passioni – e non è bene che le controlli! Piuttosto l'anima ha bisogno di provare passioni più grandi che la tengano sveglia e la indirizzino al bene. Solo un “incendio più grande”, allontana dalle passioni cattive. Nell’episodio raccontato è una sofferenza che Benedetto si impone, ma la perseveranza nella vocazione implica soprattutto l'essere appassionati, il desiderare con tutta la passione il bene. Ogni educatore deve sempre ricordare che non si aiuta qualcuno ad uscire dal male se non indicandogli il bene in maniera che egli ne provi attrazione: certo ad una tentazione bisogna opporsi, ma non la si vince solo contrastandola, bensì scoprendo un fuoco più forte di essa.

Merita soffermarsi qui anche su di una questione importantissima per la vita umana che il monachesimo pone in risalto. La tradizione cristiana, a partire dal vangelo di Gesù e illuminata da come i santi lo hanno vissuto, ha capito che certamente la fede è la scelta determinante: i teologi moderni hanno dato alla “scelta di credere” il nome di “opzione fondamentale”, “scelta fondamentale”. Credere orienta tutta la vita e le conferisce indirizzo e spessore. Ma fra questa “opzione fondamentale” e le “scelte particolari” - ad esempio, decidere cosa fare un certo giorno o il giorno dopo – si colloca un altro tipo di scelta che potremmo chiamare “opzione vitale” o “scelta di uno stato di vita”. Appartengono a questo tipo di scelte la decisione di sposarsi con una promessa indissolubile, la decisione di divenire prete o monaco o consacrarsi.

La tradizione cristiana ha compreso che è bene – in qualche modo ci appartiene intimamente come persone – non solo scegliere di credere e, quindi, di donare la nostra vita a Dio, ma anche il concretizzare questo dono in quel dono particolare di sé che è l'“opzione vitale”. Noi avvertiamo misteriosamente che anche questa scelta conferisce unità, orientamento, capacità di dono alla nostra vita. Può essere, talvolta, anche una scelta subìta, perché vorremmo qualcosa che non si realizza: ma ad un certo punto accettiamo che ci sia un “per sempre” anche in quella condizione. In questo senso è diverso un celibe da uno scapolo, una vergine da una zitella e ciò che differenzia le due condizioni è appunto una promessa, un pensarsi come un dono definitivo in un dato modo di vivere. La mancanza di una scelta di questo tipo lascia invece nell'incertezza, perché è diverso essere conviventi o essere sposati, è diverso essere celibi o essere soli ma in cerca di compagnia.

Pochi hanno coscienza che è stato Gesù in persona a fondare sia il matrimonio indissolubile, sia la verginità scelta per amore. Prima di Gesù – ed al di fuori del cristianesimo – il divorzio è sempre stato previsto ed anche la verginità o il celibato non hanno assolutamente lo stesso valore di una pienezza di dono d’amore come è nel vangelo. Il monachesimo esplicita il valore di questo dono d'amore che si compie quando una persona si consacra definitivamente al Signore.

Vediamo così chiaramente nella vita di Benedetto dispiegarsi questo modo di vivere: egli desidera “piacere al Signore” e non vuole recedere dal dono di sé che ha compiuto.

5/ La vita comune ed il cammino di San Benedetto fino a Montecassino

Proprio il monaco è chiamato, però, anche ad un amore verso i fratelli ed, in particolare, a quella vita comune che costituisce il luogo del suo cammino di fede. Benedetto ci arrivò pian piano, decidendo di lasciare la vita eremitica ed accettando di vivere con i fratelli che il Signore gli affidava.

Subito dopo l'episodio della vittoria sulla tentazione di lasciare il celibato, infatti, Gregorio ci racconta del crescere della fama di Benedetto, cosa che indusse alcune persone a chiedergli di essere loro maestro nella vita monastica:

«Dopo ciò, molti abbandonando la vanità del mondo, accorrevano gioiosi sotto la sua disciplina e giustamente, libero ormai dall'insidia della tentazione, egli poteva farsi per gli altri maestro di sante virtù. Del resto anche Mosè aveva avuto da Dio questo comando: che i leviti dai venticinque anni in su prestino i servizi nel tempio e dopo i cinquanta diventino custodi dei vasi sacri dell'altare» (Gregorio Magno, Dialoghi, II, II,1-3).

Si noti come Benedetto viene sempre paragonato agli uomini della Scrittura, qui a Mosè. Se leggete i Dialoghi, vi accorgerete che ad ogni episodio della vita di Benedetto Gregorio collega un evento dell'Antico o del Nuovo Testamento che si “ripete” in lui, che si rinnova nella sua esistenza.

Da Subiaco, Benedetto si spostò a Vicovaro, perché, alla morte del loro abate, alcuni monaci lo vollero come loro nuovo superiore e padre – “abate” vuol dire esattamente “padre”. Ma, racconta Gregorio, poiché Benedetto li guidava per una vita monastica seria, senza cedimenti, alcuni di loro cominciarono a volergli male.

Per questo alcuni fratelli «la cui stortura di coscienza si scontrava con la sua grande rettitudine» (Gregorio Magno, Dialoghi, III, I,3) decisero di farlo morire. Tentarono di offrirgli così del vino avvelenato, perché non accettavano più il suo stile di vita troppo severo, ma Benedetto scampò miracolosamente all'attentato poiché, non appena ebbe benedetto la mensa, il calice con il vino mortale si ruppe.

Decise allora di tornare a condurre vita monastica da solo, nuovamente a Subiaco. Ma, di nuovo, altri fratelli bussarono alla sua porta. Gregorio racconta che ben presto Benedetto costruì ben dodici monasteri nelle vicinanze di Subiaco, tante erano le persone che chiedevano di vivere vita monastica con lui. Anche alcuni nobili romani lasciarono le comodità della città per cercare Dio nel silenzio e nella povertà: Gregorio ricorda, fra questi, due giovani che saranno fra i discepoli più amati dal santo, Eutichio e Placido.

Fra gli episodi che riguardano il suo secondo soggiorno a Subiaco figura un fatto che richiama alla centralità del lavoro nella Regola, come vedremo poi. È l'episodio del falcetto caduto di mano nel lago ad un goto che Benedetto miracolosamente recupera: indirettamente si manifesta l'importanza del lavoro materiale nei monasteri fondati dal santo.

Compare anche un secondo tentativo di far morire Benedetto con un pane avvelenato che un corvo, che sempre veniva a ricevere il pane da Benedetto, porta via. Qui Gregorio richiama esplicitamente il corvo del profeta Elia che gli portava il pane, segno della provvidenza divina che sostiene i monaci anche nella loro povertà – ed Elia è ritenuto dalla tradizione il precursore del monachesimo.

Infine, per ragioni che non sono note, Benedetto decise intorno al 529 di trasferirsi a Montecassino. Anche la scelta di quel luogo dovette rivelarsi provvidenziale, proprio perché il monastero che lì sorgerà diverrà una vera e propria luce posta sul lucernario, una città collocata sul monte – secondo le immagini del vangelo di Matteo - per essere visibile a tutti, come ha sottolineato Benedetto XVI:

«Il periodo in Subiaco, un periodo di solitudine con Dio, fu per Benedetto un tempo di maturazione. Qui doveva sopportare e superare le tre tentazioni fondamentali di ogni essere umano: la tentazione dell'autoaffermazione e del desiderio di porre se stesso al centro, la tentazione della sensualità e, infine, la tentazione dell'ira e della vendetta. [...] Secondo Gregorio Magno, l'esodo dalla remota valle dell'Anio verso il Monte Cassio - un'altura che, dominando la vasta pianura circostante, è visibile da lontano - riveste un carattere simbolico: la vita monastica nel nascondimento ha una sua ragion d'essere, ma un monastero ha anche una sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società, deve dare visibilità alla fede come forza di vita» (Benedetto XVI, Catechesi su San Benedetto, nell'udienza del 9 aprile 2008).

Gregorio racconta che sul monte sorgeva un Tempio pagano dedicato ad Apollo che Benedetto fece abbattere come infestato da demoni – è noto che il paganesimo che era ormai scomparso nelle città sopravvisse per un certo tempo ancora nelle zone rurali come dimostra la stessa etimologia della parola “campagna” che viene da “cum paganis”.

In questa fondazione di nuovi monasteri, che non finisce di stupire, possiamo già vedere l'enorme fioritura che continuerà successivamente. Evidentemente la provvidenza divina suggeriva ai giovani del tempo di prendere la via monastica - come avverrà nel basso medioevo con gli ordini mendicanti, francescani, domenicani, ecc. - ed essi dovevano sentire già tutto il fascino di questo abbandonare le preoccupazioni della ricchezza e del facile piacere per dedicarsi alla ricerca di Dio ed alla vita di comunione fraterna e di carità. Pensiamo solamente alle circa 1100 abbazie benedettine che erano legate a Cluny al tempo del suo splendore nell’XI secolo o alle oltre 500 abbazie cistercensi alla fine del XII secolo, segno che un numero impressionante di persone si riconoscevano in quella forma di vita.

La vita di Gregorio ricorda vari episodi di miracoli avvenuti durante la costruzione della prima abbazia di Montecassino (il sollevamento di un grande masso utile per la costruzione, la resurrezione di un monaco schiacciato da un crollo durante i lavori, ecc.), episodi che indirettamente ci dicono l'importanza che si annetteva agli edifici in cui la comunità doveva vivere. In un episodio è Benedetto stesso che appare ai monaci di una nuova fondazione a Terracina ad indicare dove costruire l'oratorio, dove il refettorio, dove l'ambiente per gli ospiti ed i pellegrini, dove gli altri ambienti necessari.

In questa attenzione alle cose si deve vedere proprio la consapevolezza della loro importanza: Dio non vuole la ricchezza dei cristiani, ma se le spese vengono fatte per il bene comune, perché tutti se ne servano per poter aiutare ogni uomo, allora sono benedette e fanno fatte con cura e insieme generosità. Si pensi, solo per dare un esempio, del ruolo anche civile che ebbero le abbazie che sorsero lungo le vie di pellegrinaggio o addirittura ai valichi delle Alpi, per poter condurre vita monastica ed insieme per poter aiutare i viandanti ed i pellegrini: al Gran San Bernardo, al Piccolo San Bernardo, alla Novalesa, ecc.

Quando uno vede oggi alcuni monasteri o conventi, sente spesso ripetere scioccamente e con un tono di malevola critica che i monaci ed i preti “si scelgono sempre i posti migliori”, dimenticando che un tempo quelli erano i posti più isolati e pericolosi, e che quelle abbazie sono state edificate lì proprio perché nessun laico vi voleva abitare, ma pure era necessario che vi fosse posta una presenza umana a beneficio di tutti e solo i monaci erano disponibili a farlo.

Negli episodi dei Dialoghi è già evidente la strutturazione di un complesso che ha luoghi adibiti specificamente alle diverse necessità: un oratorio perché tutti possano pregare insieme la liturgia, un refettorio per i pasti comuni, uno spazio per l'accoglienza dei pellegrini e così via. Non è superfluo ricordare come queste cose sono importanti. Provate ad andare in un nuovo quartiere di una città dove non c'è ancora una chiesa, un oratorio per i bambini, le stanze delle riunioni, una grande sala per potersi incontrare tutti e così via: i nuovi abitanti di quel quartiere sanno bene che quei luoghi serviranno a loro ed ai loro figli per generazioni e che è atto di carità realizzarli con l'aiuto di tutti. Non è assolutamente contro la povertà il realizzarli, proprio perché essi sono necessari: nessuno se ne arricchisce, anzi sono a servizio di tutti. Allo stesso modo la vita monastica comunitaria scopre immediatamente l'importanza della costruzione di abbazie per il bene di tutti: non ville private, ma case preparate a beneficio di tutti delle quali, ancora a distanza di secoli, ci serviamo per celebrazioni, incontri, preghiera e così via.

6/ Il mondo in cui Benedetto visse

Sempre indirettamente si intravedono nella vita scritta da San Gregorio alcuni elementi che ci rimandano al contesto che abbiamo già descritto la scorsa volta parlando del VI e del VII secolo. Si dice che uno dei monaci – proprio quello che fu resuscitato durante i lavori per la costruzione di Montecassino – era un “figlio di un funzionario della curia imperiale”: appare qui con evidenza il fatto che l'amministrazione imperiale romana era in piena efficienza, alle dipendenze dell'imperatore di Costantinopoli, e che Roma, il Lazio e la Campania erano pienamente territori imperiali.

Si parla inoltre del re Totila che, dovendosi presentare a Benedetto, utilizzò uno stratagemma per saggiare le sue capacità profetiche. Quello che è interessante per noi è che in territorio imperiali, il re dei Goti scorrazza liberamente, saccheggiando e depredando. E Benedetto lo rimprovera: «Tu hai fatto molto male - gli disse - e molto ne vai facendo ancora; sarebbe ora che una buona volta mettessi fine alle tue malvagità» (Gregorio Magno, Dialoghi, II, XV,1).

Il ruolo dei monaci appare qui simile a quello dei pontefici. Come Leone Magno, come Gregorio Magno, così anche Benedetto difende la popolazione civile dalle angherie dei barbari[4]. Non solo. Benedetto, infatti, afferma che il potere dei barbari non è in grado di far scomparire Roma, piuttosto i romani debbono temere altri pericoli: «Roma non verrà distrutta dai barbari; ma colpita dalle tempeste, uragani, fulmini e terremoti, cadrà da se stessa in rovina» (Gregorio Magno, Dialoghi, II, XV,3).

Il testo è misterioso ed, infatti, subito Gregorio si affretta a dire: «Il mistero di questa profezia lo vediamo chiaramente manifesto sotto i nostri occhi, perché vediamo abbattute le mura, diroccate le case, distrutte le chiese dal turbine e gli edifici già fatiscenti per lunga vecchiaia cadere a terra in sempre crescenti rovine. Questa profezia me l'ha riferita il suo discepolo Onorato: egli però attestava di non averla mai udita dalla sua bocca ma era stata riferita a lui dai fratelli che l'avevano ascoltato parlare così» (Gregorio Magno, Dialoghi, II, XV,3).

È come se si fosse coscienti di una situazione difficilissima, ma insieme si è certi che quella situazione non è la fine. Se ne parla non per spaventare, bensì per invitare a ritrovare coraggio per affrontare le avversità. Se la popolazione è già spaventata per gli eventi del tempo, per le invasione barbariche, il richiamo ad un orizzonte cosmico è piuttosto un invito a confidare nell'opera di Dio.

In una profezia Benedetto giunge a prevedere anche la distruzione di Montecassino da parte dei longobardi – il fatto si verificò nel 577, quando il santo era già morto (cfr. Gregorio Magno, Dialoghi, II, XVII,1-2). Questo mostra, ancora una volta indirettamente, lo sgomento che dovette verificarsi quando, terminato il pericolo gotico, improvvisamente si affacciò quello longobardo. Ma anche qui è Benedetto – e con lui San Gregorio – a rassicurare: «i Longobardi [così come aveva detto Benedetto] vi entrarono, saccheggiarono tutto, ma non poterono prendere nemmeno un uomo» (Gregorio Magno, Dialoghi, II, XVII,2) – ovviamente perché alto era il rispetto che anche i longobardi avevano per questi uomini votati a Dio e fedeli al pontefice.

I Dialoghi raccontano che anche la sorella di Benedetto, Scolastica, si fece monaca e che fu lui a vedere profeticamente la sua morte gradita a Dio (Gregorio Magno, Dialoghi, II, XXXIV).

Ci raccontano, infine, della sua santa morte avvenuta intorno al 560 e di come egli ricevette il corpo ed il sangue del Signore prima di raggiungere Dio. I suoi discepoli lo videro in visione camminare su di «una strada ricoperta di tappeti tutta risplendente di innumerevoli lampade che partiva dalla sua cella e, in linea retta verso l'oriente, si innalzava fino al cielo» (Gregorio Magno, Dialoghi, II, XXXVII, 3) – è evidente qui il riferimento a Cristo come vero “oriente”, come luce del mondo, come Paradiso dei viventi. Le sue reliquie continuarono ad operare guarigioni a Montecassino come a Subiaco.

Gregorio conclude affermando che alla sua morte Benedetto fu amato ancora di più, come aveva detto: «Se io non allontano il corpo non potrò mostrare chi sia lo Spirito che è Amore; e se non cessate di guardarmi con l'occhio del corpo, non imparerete mai ad amarmi in modo spirituale» (Gregorio Magno, Dialoghi, II, XXXVIII, 4).

7/ Il monaco, solo con Dio per ritrovare il mondo

Giungiamo alla domanda centrale: cosa ha cercato Benedetto con la sua vita? Dove si è diretto, passando di luogo in luogo? Per rispondere possiamo leggere uno straordinario passaggio dei Dialoghi che così raccontano:

«E se ne tornò alla grotta solitaria che tanto amava, ed abitava lì, solo solo con se stesso, sotto gli occhi di Colui che dall'alto vede ogni cosa» (Gregorio Magno, Dialoghi, II, III, 4).

Benedetto vuole trovare se stesso, vuole stare solo con se stesso, ma non è una solitudine autoreferenziale, solipsistica. Ed, in effetti, la questione è importante, perché subito Gregorio nel suo immaginario dialogo fa dire a colui cui si rivolge, Pietro:

«Pietro: non capisco bene l'espressione che hai detto: "abitava solo solo con se stesso"» (Gregorio Magno, Dialoghi, II, III, 4).

Gregorio allora spiega quanto ha detto rifacendosi alla parabola cosiddetta del figliol prodigo, dove si dice che dopo il peccato, il figlio minore “tornò in se stesso”. E spiega che si può essere lontani da se stessi, si può abitare “lontano dalla propria vita”, poiché ci si è “persi” nel peccato!

Benedetto è veramente con se stesso solo quando è sotto lo sguardo “di Colui che dall'alto vede ogni cosa”. Benedetto vuole trovare Dio, perché capisce che solo avendo trovato Dio potrà essere pienamente con se stesso. Altrimenti la sua esistenza sarebbe come alienata, come fuori di sé, come lontana da se stesso. Scrive Gregorio:

«Mi è piaciuto parlando di questo venerabile uomo, usare l'espressione "abitò con se stesso", perché sempre vigilando sul proprio cuore, sempre vedendosi davanti agli occhi del Creatore, sempre esaminandosi circa la propria condotta, non lasciò mai divagare all’esterno il suo occhio interiore» (Gregorio Magno, Dialoghi, II, III, 7).

Questa ricerca di Dio ognuno la deve compiere anche da solo e non semplicemente insieme ai fratelli: la riscoperta di questa evidenza dimenticata è un punto capitale della vita cristiana e della vita tout court. Mi appare sempre più evidente come uno dei più grandi problemi che abbiamo oggi in ambito educativo è proprio il fatto che i genitori, ma talvolta anche i catechisti ed i docenti, non insegnano più ai bambini il silenzio, il raccoglimento, la lettura, la preghiera. I bambini di oggi non sanno stare in ascolto, non sanno riflettere prima di decidere e di agire, mancano della capacità di stare in silenzio e di ascoltare, perché il mondo degli adulti non riesce più a mostrare la grandezza di questo “stare con se stessi”. E questo stare con se stessi – lo ripeto – non è semplicemente un riflettere, ma addirittura un cominciare a vedersi con gli occhi di Dio, un tacere perché si comincia ad ascoltare Dio che ci parla.

Da ragazzi, il nostro vice-parroco ci fece leggere un libro straordinario del grande teologo luterano D. Bonhoeffer, un teologo che meriterebbe una conoscenza attenta, ben al di là dei clichés nei quali spesso lo si racchiude. Bonhoeffer è stato un cristiano estremamente serio e proponeva ai suoi di fare i cristiani sul serio. In questo libro, la Vita comune, Bonhoeffer mostra che la chiesa è una realtà ben diversa dalla comunità ideale che ognuno vorrebbe a suo gusto, perché essa è costituita da coloro che Dio ha scelto e chiamato così come essi sono e non come noi li vorremmo.

E riflette a lungo su come si possa preservare l'identità cristiana e non solo umana – psichica, la chiama lui – della comunità dei fratelli in Cristo. Uno degli elementi che sottolinea è proprio la preghiera. Senza la preghiera ed il silenzio, senza l'ascolto della Parola di Dio, non si darà mai comunità cristiana.

Così egli scrive: «Chi non sa stare da solo, si guardi dal cercare la comunione. Non farà altro che male a se stesso e alla comunione. Eri solo davanti a Dio, quando ti ha chiamato, eri solo quando hai dovuto seguire il suo appello [...] Ma viceversa è vero anche che chi non si trova in comunione si guardi dallo stare solo. Nella comunità sei uno dei chiamati, non il solo; tu porti la tua croce, combatti e preghi nella comunità dei chiamati»[5]. Bonhoeffer evidenzia così un doppio rischio. E spiega poi a lungo: chi non riesce a mettersi realmente da solo dinanzi a Dio ed alla sua chiamata, cercherà negli altri una fuga dal suo malessere, un diversivo alla sua incapacità di rispondere alla chiamata di Dio, ma, allo stesso tempo, chi non ha il gusto del rapporto con gli altri, chi non ama la fraternità, nella solitudine si rovinerà, perché lo stare da solo sarà una fuga dal disagio di dover imparare ad amare. L’amore per l'altro e la vita nel silenzio e nella solitudine sono i due pilastri della vita cristiana che si sposano a vicenda.

Aprendo la Regola vedremo subito come Benedetto mostri proprio il valore della preghiera personale ed, insieme, la grandezza della vita comune. Ma già dal racconto della sua vita abbiamo visto come la sua ricerca di Dio nel silenzio ha fatto sì che il “mondo” lo andasse a cercare!

8/ La prospettiva fondamentale nella Regola: vivere il vangelo

Nella Regola Benedetto ha concretizzato l'esperienza della sua vita e l'ha oggettivata per poterla proporre anche ad altri – come sempre avviene quando si scrive qualcosa. Essa fu scritta probabilmente dopo il 529 – l'anno del suo arrivo a Montecassino – e prima del 550. Gli studi moderni hanno appurato che Benedetto si servì per comporre la propria regola anche di una precedente regola, detta la Regula magistri (forse degli anni 500/530), di cui non si conosce precisamente l'autore.

La Regola si apre con una frase che è diventata proverbiale nel mondo benedettino e che troverete esposta in ogni monastero: «Ascolta, figlio mio» (Regola, Prologo, 1). Se sei figlio – la Regola di Benedetto è la parola di un padre ai suoi figli – accogli nell'ascolto la parola di tuo padre, sappi lasciar penetrare nel tuo cuore la voce amorevole di un padre che ti guida.

Ma il padre umano, il padre del monastero, cioè l'abate, così come il padre spirituale non si rivolge al figlio riempiendolo delle sue chiacchiere, bensì è quel padre che schiude al figlio i tesori del Padre che sta nei cieli, annunciandogli la Parola che viene da Dio solo e che illumina il mondo.

Tutta la Regola di Benedetto è un continuo riferimento alla Parola di Dio. E, a sua volta, questa Parola non vale tanto in quanto testo scritto, bensì rimanda all'amore del Dio vivo che ci parla: amarlo e vivere in comunione con Lui è il fine, per Benedetto e per noi, di ogni vita e della vita monastica in particolare.

Così scrive la Regola:

«4,1/ In primo luogo amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la forza, 2/ poi il prossimo come se stessi [...] 21/ non anteporre nulla all’amore di Cristo [...] 62/ Non voler essere detto santo prima di esserlo, ma prima esserlo, perché lo si dica con verità. 63/ Mettere ogni giorno in pratica nei fatti gli insegnamenti di Dio, 64/ amare la castità, 65/ non odiare nessuno, 66/ non aver gelosia, 67/ non tener viva l’invidia, 68/ non amar la contesa, 69/ fuggire l’orgoglio. 70/ E venerare gli anziani, 71/ amare i giovani, 72/ nell’amore di Cristo pregare per i nemici, 73/ con chi è in discordia con noi tornare in pace prima del tramonto del sole. 74/ E non disperare mai della misericordia di Dio. 75/ Ecco, questi sono gli strumenti dell’arte spirituale [...] 78/ L’officina, poi, in cui possiamo praticare con diligenza tutte queste cose, sono i recinti del monastero e la stabilità in comunità» (Regola 4,1-78).

Vedete subito come la Regola non si propone come una serie di osservanze particolari, bensì ha una precisa finalità che è quella stessa del vangelo: il monaco è semplicemente un cristiano che vuole amare Dio con tutto il cuore, l'anima e le forze e che vuole amare il prossimo come se stesso, anzi – questo testo di Benedetto è altrettanto famoso – non vuole “anteporre nulla all'amore di Cristo”.

L'amore di Cristo deve essere amato! Abbiamo già visto, in Sant'Agostino, come egli inviti ad amare Dio in ogni cosa e insieme al di sopra di tutte le cose[6]. Così Benedetto: mentre invita a non anteporre nulla all'amore di Cristo, incoraggia ad amare i giovani, a venerare gli anziani, a pregare per i nemici, ad amare anche se stessi “non disperando mai della misericordia di Dio” - straordinaria espressione che farà scuola!

Ma poiché tutto questo non viene da sé, poiché serve un'educazione che accompagni a vivere questo amore, ecco che il monastero si presenta proprio come un' “officina” in cui è possibile realmente che questo divenga vita vissuta. Questa “officina” si caratterizza per essere un “recinto”, cioè un luogo definito, non aperto all'infinito, così come una famiglia si organizza in un luogo, in una casa, e non permette ad ognuno di accedervi incondizionatamente. E d'altro canto si presenta come un luogo “stabile” - è la stabilitas loci, la fedeltà nel permanere in un luogo, tipica della Regola benedettina, che sola permette questo maturare pian piano senza scappare di qua e di là che impedirebbe di crescere.

Per raggiungere questo fine, la Regola - come abbiamo detto e come vogliamo vedere più da vicino - si presenta come l'insegnamento di un padre che, esperto della Parola di Dio, esperto di Dio stesso, chiede obbedienza ai suoi figli per condurli dalla disobbedienza del peccato a scoprire la possibilità di vivere con Dio. Così dice il Prologo della Regola:

«Ascolta, figlio mio, gli insegnamenti del maestro e apri docilmente il tuo cuore; accogli volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno e mettili in pratica con impegno, in modo che tu possa tornare attraverso la solerzia dell'obbedienza a Colui dal quale ti sei allontanato per l'ignavia della disobbedienza. Io mi rivolgo personalmente a te, chiunque tu sia, che, avendo deciso di rinunciare alla volontà propria, impugni le fortissime e valorose armi dell'obbedienza per militare sotto il vero re, Cristo Signore».

E poiché Benedetto sa che l'uomo non può nulla da solo, perché solo l'amore di Dio lo può amare e l'uomo non può darsi questo amore da solo, invita i suoi “figli” a chiedere innanzitutto nella preghiera a Dio la grazia di poterlo seguire e poi la grazia di essergli fedeli, ricordando che la sequela può solo essere libera - «se a queste parole tu risponderai: "Io!", Dio replicherà... ».

Ma sempre ricorda loro che vale la pena seguire la chiamata che Dio rivolge:

«Fratelli carissimi, che può esserci di più dolce per noi di questa voce del Signore che ci chiama? Guardate come nella sua misericordiosa bontà ci indica la via della vita!» (Regola, Prologo, 19-20), perché «nella fede, si corre per la via dei precetti divini col cuore dilatato dall'indicibile sovranità dell'amore» (Regola, Prologo, 49).

Anche quest'ultima espressione è straordinaria: Benedetto aveva sperimentato che si può avere un cuore dilatato, un cuore che si fa grande a motivo dell'indicibile sovranità dell'amore!

Non si finisce mai di sottolineare la modernità di questa impostazione. Innanzitutto l'educazione è educazione del cuore e non supina accettazione esterna. Ma il cuore non conduce spontaneamente al bene, poiché esiste una “lotta” spirituale e c’è una “inerzia” della disobbedienza. Il cuore può non dilatarsi ed anzi rattrappirsi e chiudersi, non aprendosi all'amore di Dio e del prossimo. Per questo serve un'autorità – secondo il significato etimologico della parola, dal verbo augeo, “accresco” – serve un padre, un abate – da abbà, padre – che generi nel figlio questa dilatazione del cuore.

Se pensiamo alla moderna questione educativa ritroviamo tutto questo: solo una vera paternità dei genitori, dei docenti, dei catechisti aiuta i figli a raggiungere la vera libertà. Autorità e libertà così non si oppongono, ma anzi si richiamano a vicenda.

Infine, educare il cuore vuol dire non preoccuparsi solo dei singoli atti che la persona compie, bensì attraverso di essi aiutarla piuttosto a maturare la virtù, cioè quell'atteggiamento abituale, quell'habitus, per cui la persona diventa buona, carica di speranza, capace di una fede matura. La Regola ha di mira non il “fare” dell'uomo, bensì il suo “essere” che viene trasformato.

Lascio alla vostra lettura un testo che si riferisce alla teologia del basso medioevo, ma che vale già per Benedetto e per tutta l'etica cristiana. È una riflessione sul pensiero di San Tommaso d'Aquino – siamo nel XIII secolo – che mostra come nelle azioni dell'uomo non sia tanto questione dei singoli atti, bensì piuttosto dell'uomo stesso che si realizza in essi. Così ha scritto uno studioso di Tommaso, J. Pieper:

«La seconda parte della Summa theologiae di san Tommaso, quella dedicata alla teologia morale, comincia con queste parole: “l’uomo è creato a immagine di Dio; pertanto, dopo aver parlato di Dio, dell’esemplare, ci rimane da parlare della sua immagine, cioè dell’uomo”. Questa frase è simile a quella di tante altre proposizioni di san Tommaso d’Aquino: l’ovvietà, per così dire la naturalezza con cui essa viene pronunciata, nasconde facilmente il fatto che il suo contenuto non è minimamente ovvio. Questa prima frase della teologia morale esprime una realtà, che noi cristiani odierni abbiamo un po’ perso di vista, e cioè la realtà che la teologia morale è in primo luogo e anzitutto una dottrina concernente l’uomo, che la dottrina morale deve evidenziare l’immagine dell’uomo e quindi la dottrina morale cristiana deve occuparsi della giusta immagine cristiana dell’uomo. Per la cristianità del basso Medioevo era una realtà molto ovvia. Due generazioni dopo Tommaso d’Aquino tale concezione basilare comincia a incrinarsi, come dimostra la formulazione polemica delle parole di Eckhart: gli uomini non dovrebbero riflettere tanto su quel che devono fare, bensì riflettere su quel che devono essere. Successivamente invece – per ragioni e cause molto difficili da valutare in modo giusto ed equilibrato – la dottrina morale e soprattutto la predicazione morale hanno in larga misura abbandonato questa visuale, al punto che anche quei manuali di teologia morale, che pretendevano espressamente di essere scritti «nello spirito di san Tommaso», finirono per distinguersi da lui proprio su questo punto centrale. Proprio qui affondano alcune delle radici per cui ben difficilmente il comune cristiano contemporaneo pensa che, nella dottrina morale o etica, possiamo conoscere qualcosa circa il vero essere dell’uomo e circa la sua immagine. Al contrario, noi associamo al concetto di dottrina morale l’idea di una dottrina del fare e prima ancora quella del non fare, del lecito e prima ancora del non lecito, del comandato e prima ancora del proibito. Questo è quindi il primo insegnamento teologico-morale del Dottor angelico: la dottrina morale cerca di dare la giusta idea dell’uomo. Naturalmente essa parla anche del fare, di doveri, di comandamenti e di peccati. Ma il suo oggetto specifico primario e fondante tutto il resto è il giusto essere dell’uomo, l’immagine dell’uomo buono»[7].

È per aiutare l'uomo a maturare, perché il suo cuore si dilati in Dio, perché l’uomo trovi la vera “immagine” di se stesso, che Benedetto istituisce l'“officina”, cioè il monastero: esso è così «una scuola del servizio del Signore nella quale ci auguriamo di non prescrivere nulla di duro o di gravoso; ma se, per la correzione dei difetti o per il mantenimento della carità, dovrà introdursi una certa austerità, suggerita da motivi di giustizia, non ti far prendere dallo scoraggiamento al punto di abbandonare la via della salvezza, che in principio è necessariamente stretta e ripida».

9/ L'opus Dei: la preghiera è ascolto del Dio che parla ed è risposta nella lode alla sua voce

Dunque il monastero è l’“officina”, è la “scuola” dove si cerca insieme ai fratelli Dio. Benedetto chiama nella sua Regola il mettersi alla ricerca di Dio, l'ascoltarLo, lo stare con Lui, con un'espressione semplicissima: opus Dei. Afferma esplicitamente «Nihil operi Dei praeponatur», «Nulla si anteponga all'opera di Dio» (Regola 43,3). Se è vero, come dicevamo, che “non si deve anteporre nulla all’amore di Cristo”, questa affermazione non è puramente teorica, ma si incarna nel conferire alla preghiera il suo posto inalienabile. È nel modo in cui il tempo viene strutturato che diviene evidente che si cerca Dio, è innanzitutto nelle ore liturgiche che il monastero diviene scuola della ricerca di Dio.

La preghiera che Benedetto proporne ai suoi monaci è una continua meditazione della Parola di Dio. Innanzitutto dei Salmi. Ma facendo questo Benedetto diviene la pietra miliare nella costituzione della nostra liturgia delle ore. Egli stabilisce che in monastero ogni settimana si dicano tutti i 150 salmi del salterio. E li suddivide a seconda delle ore del giorno e dei giorni della settimana, comprendendo, ad esempio, quali sono più adatti alla domenica o al venerdì, al sorgere del sole o al tramonto, o al momento in cui ci si addormenta.

La nostra liturgia delle ore conserva esattamente la divisione già fatta da San Benedetto con l'unica variante che i 150 salmi vengono letti in quattro settimane e non in una sola. Ma i salmi del mattino o della sera, quelli della domenica o del venerdì sono ancora lì dove Benedetto li ha posti.

Basta leggere anche solo qualche riga della Regola in proposito per toccare con mano tutto questo:

«(12,1) Nei mattutini della Domenica si dica anzitutto il salmo 66 […] (12,2) dopo di questo si dicano i salmi 117 e 62 [...] (12,4) poi il cantico delle benedizioni e le lodi (=Sal 148-150), un’unica lettura dall’Apocalisse a memoria, e il responsorio, l’inno, il versetto, il cantico dai Vangeli, le litanie; e così si è concluso. […] (18,1) All’inizio si dica il versetto “Dio vieni in mio aiuto, affrettati a soccorrermi o Signore”, il Gloria e poi l’inno della rispettiva ora. (18,2) In seguito, all’ora di prima della Domenica si dicano quattro strofe del salmo 118 (18,3) e nelle rimanenti ore, cioè a terza, sesta e nona si dicano le terne di strofe del suddetto salmo 118. […] (18,22) Sopratutto questo raccomandiamo: che cioè, se a qualcuno questa distribuzione dei salmi non piacesse, la ordini in un modo diverso, se l’avrà giudicato migliore, (18,23) purché in ogni caso stia ben attento a che ogni settimana si salmeggi tutto il salterio nel suo numero completo di centocinquanta salmi» (dalla Regola; i riferimenti sono fra parentesi tonde).

Perché questa importanza dei Salmi? Perché Benedetto vuole che si cerchi Dio leggendo il salterio? Possiamo farci aiutare per rispondere a questa domanda da un testo moderno di un grande esegeta spagnolo che ha insegnato al Biblico, Luis Alonso Schökel. Ve lo lascio per leggerlo con calma. Alonso paragona la Parola di Dio alle parole che le mamme ed i papà dicono per insegnare al figlio ad esprimersi. Se i genitori non parlassero al loro bambino, egli non imparerebbe a parlare ed a spiegarsi. Essi dicono le parole che poi il bambino farà sue, con le quali spiegherà la sua gioia ed il suo dolore, il suo amore e la sua richiesta. Così fa Dio con l'uomo. In particolare, attraverso i Salmi, lo educa a saper comprendere cosa è la lode e cosa è la richiesta di aiuto, cosa è la confessione di fede e cosa è un canto d'amore:

«Avviene come quando un bambino incomincia a pronunciare coscientemente le prime parole; papà, mamma. Le ha pronunciate prima sua madre, sono scese nel suo intimo, fino a incontrarsi con un istinto che le stava aspettando, che quasi le riconosce, e le fa rimbalzare di nuovo fuori. In bocca alla madre erano un abbassarsi per insegnare, in bocca al figlio sono una invocazione, che distingue e unisce. Si ripete il movimento con parole nuove e con le loro coniugazioni; e con frasi che si smontano e vengono ricomposte. Ora non basta più l'istinto segreto: il bimbo deve rendersi conto della situazione, ascoltare in essa le parole del padre, dei conoscenti; così impara progressivamente la loro lingua. Quanto è difficile capire il bambino! (infante = senza parola). Di che cosa si lamenta, dove gli fa male, che cosa chiede? Che senso ha il suo sorriso, il suo pianto? Stare bene e stare male sono dati troppo generici e vaghi, anche per la madre. Ma quando il bambino impara il linguaggio materno può farsi capire. Può già chiedere e narrare, può domandare molto e rispondere un po’, può comunicare e comunicarsi. E quando resta solo, impara a parlare con se stesso e la sua fantasia si inoltra nel linguaggio percettibile. “Come un uomo corregge il figlio, così il Signore Dio corregge te...” (Dt 8, 5). Parte essenziale di questa correzione ed educazione del popolo consiste nell'insegnargli a parlare per capirsi con Dio. Non manca all'uomo un certo istinto che risponde confusamente a Dio; con esso arriva ad emettere lamenti inarticolati da infante. Dio stesso gli insegna il linguaggio perché possa spiegarsi con Dio: perché sappia lamentarsi in modo articolato, dire dove gli fa male e di che cosa ha bisogno, perché sappia dar ragione del suo sorriso e della sua gioia, perché possa unirsi ai suoi fratelli in un canto all'unisono, perché sappia, a tu per tu con Dio, effondere in parole lo sfogo del suo cuore. Un giorno il figlio maggiore aiuterà gli altri figli ad imparare la lingua. “Israele è il mio figlio primogenito...” (Es 4,22) Israele come popolo ascoltò la parola di Dio, che parlava per bocca dei profeti, e dovette imparare a rispondere. Fu un apprendistato lento, durato tutta la sua vita: dovette passare attraverso diverse situazioni per imparare in esse, dalla mano di Dio, le parole giuste con le quali lamentarsi, chiedere o ringraziare. Dio insegnò a Israele il suo linguaggio nella concretezza della vita, non in astratto: quando Israele prega, le parole gli escono dall'intimo, non ripete a memoria una lezione. Per questo la sua risposta suona con tanta vitalità. […] “Tutte queste cose... sono state scritte per ammonimento nostro, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi” (l Cor 10,11). Benché non lo sapessero, secondo il piano di Dio, essi stavano vivendo e scrivendo per noi. Vivendo per darci un esempio ed una lezione, scrivendo per prepararci un linguaggio. Come se tutta la loro vita e storia fosse stata una sacra rappresentazione: per essi vita, dolore e gioia nella carne viva; per noi rappresentazione, presenza e rivelazione. Come se scrivessero il repertorio di preghiere per la posterità, provandolo in se stessi perché non fosse né suonasse come una cosa falsa» (L. Alonso Schökel, I salmi, Marietti, pp. 1-2).

Ma non solo i Salmi furono posti da Benedetto al centro della vita monastica: piuttosto è tutta la Parola di Dio che egli invita a meditare e a porre a fondamento della vita. Anche se il termine non ricorre ancora in lui, possiamo indicare in Benedetto uno dei padri della lectio divina. Egli chiede ai suoi discepoli, prima di leggere ogni altro libro spirituale, di amare la Parola di Dio.

La Regola che guida la vita del monastero si presenta proprio come una esplicitazione della Parola di Dio, trasmessa nella Sacra Scrittura e nella tradizione dei Santi Padri:

«73,1/ Abbiamo steso questa regola perché osservandola nei monasteri diamo prova di avere almeno un po' di rettitudine di costumi e un inizio di vita di conversione. 2/ Per il resto, per chi si affretta verso la perfezione della vita di conversione, ci sono le dottrine dei santi Padri, la cui osservanza condurrà l’uomo all’altezza della perfezione. 3/ Quale pagina, infatti, o quale parola di divina autorità dell’Antico e nel Nuovo Testamento non è rettissima norma di vita umana? 4/ O quale libro dei santi Padri cattolici non risuona in modo tale che per una via diritta non perveniamo al Creatore? […] 73,8/ Chiunque tu sia, dunque, che ti affretti verso la patria celeste porta a compimento con l’aiuto di Cristo, questa minima regola per principianti stesa; 9/ e allora infine giungerai, con la protezione di Dio, a quelle più alte vette di dottrina e di virtù. Amen».

È evidente in San Benedetto l’importanza della Scrittura, ma egli non la disgiunge mai dalla parola dei “santi padri”, quasi fossero la stessa cosa: bisogna allora rifarsi agli esempi di vita dei “santi padri” che sono i veri interpreti della Scrittura.

Possiamo dire, utilizzando una terminologia moderna, che per Benedetto la Sacra Scrittura è paradigmatica. È, cioè, come lo sono i paradigmi per un verbo: su di un paradigma si impara tutta la declinazione nelle sue varie forme. Meditando la sacra Scrittura si impara come deve essere declinata la vita perché sia vissuta secondo la volontà di Dio, nella fede, nella speranza e nella carità. Tutto ciò che è scritto nella Bibbia, non riguarda solo le persone i cui eventi vi sono descritti, ma riguarda ugualmente noi perché nelle loro storie è come prefigurata la nostra che si illumina e si chiarisce alla luce di quegli eventi: in quelle parole ogni uomo trova orientamento alla propria vita e luce per ogni decisione. Quel testo paradigmatico che è la Scrittura si è declinato nella vita dei “santi padri” ed attende ora di essere vissuto anche dai suoi monaci.

Ma se l’uomo si pone all’“opera di Dio”, ecco che è tutto il suo sguardo sulla vita ad essere trasformato ed egli riesce infine a vedere la grandezza e la bellezza della vita stessa.

In un passaggio straordinario dei Dialoghi Gregorio spiega in proposito che, giunto a vedere la luce di Dio, Benedetto riesce finalmente a vedere il mondo intero, in tutta la sua consistenza e la sua bellezza, perché finalmente lo vede come Dio stesso lo vede, lui che lo ha creato e redento. In quel passo Gregorio sta raccontando che Benedetto vide in visione che l’anima del vescovo Germano di Capua veniva portata in cielo dagli angeli, al momento della morte, e così continua spiegando a Pietro suo interlocutore:

«All'anima che contempla il Creatore, ogni creatura è ben piccola cosa. Quando essa vede un bagliore del Creatore, per piccolo che sia, esigua gli diventa ogni cosa creata. Per la luce stessa che contempla interiormente, si dilata la capacità dell'intelligenza, e tanto si espande in Dio da ritrovarsi al di sopra del mondo. Anzi l'anima del contemplativo si eleva anche al di sopra di se stessa. Rapita nella luce di Dio, si espande interiormente sopra se stessa e quando sollevata in alto riguarda al di sotto di sé, comprende quanto piccolo sia quel che non aveva potuto contemplare dal basso. L'uomo di Dio, dunque, che fissava il globo di fuoco e gli angeli che tornavano in cielo, non poteva contemplare queste cose se non nella luce di Dio. Non reca dunque meraviglia se vide raccolto innanzi a sé tutto il mondo, perché, innalzato al cielo nella luce intellettuale, era fuori del creato. Tutto il mondo si dice raccolto davanti a lui, non perché il cielo e la terra si fossero impiccoliti, ma perché lo spirito del veggente si era dilatato, sicché, rapito in Dio, poté senza difficoltà contemplare quel che si trova al di sotto di Dio. Perciò in quella luce che brillò ai suoi occhi corporei, era simboleggiata la luce interiore della mente, la quale nel rapimento dell'anima, gli mostrò quanto piccole fossero tutte le cose di quaggiù» (Gregorio Magno, Dialoghi, II, XXXV,6-7).

In questa maniera Gregorio vuole far capire che solo nella preghiera, solo nell'ascolto della Parola di Dio, noi comprendiamo veramente il mondo. Benedetto vede veramente cosa è grande e cosa è piccolo, cosa è bene e cosa è male, perché giunge a vedere tutto non solo con gli occhi dell’uomo, ma con lo sguardo di Dio.

Ecco dove si fonda l'“abitare con se stessi”. Benedetto, trovando Dio, non è più lontano dalla verità della vita, ma anzi riesce a vedere la vita così come Dio la vede e, quindi, come essa è realmente. Si può già intuire da qui come il binomio ora et labora – vedremo che può essere espresso anche con un trinomio – che tradizionalmente sintetizza la spiritualità benedettina non è una semplice giustapposizione di due elementi, e nemmeno la loro successione cronologica. No! È, invece, solo la preghiera, solo lo sguardo di Dio che conferisce valore al lavoro e che rivela per che cosa si debba lavorare. D'altro canto, non vi è vera preghiera, vero recupero dello sguardo di Dio sul mondo, che non spinga a lavorare nel mondo perché in ogni cosa si manifesti che è Dio a “guardare” con amore il mondo.

10/ Amare la vita comune e non sfuggire al fratello

Proprio per questo non basta porsi in ascolto della Parola, non basta attendere all’“opera di Dio”. Infatti, non appena si attende a questa “opera” ecco che Dio invita ad amarsi gli uni gli altri, ecco che Dio ci porta nel cuore della chiesa e della vita, ecco che Dio ci fa vedere la bellezza e l’importanza della sua creazione dell’uomo: si deve giungere a Lui insieme ai fratelli.

Per questo Benedetto, dopo le prime esperienze di vita eremitica, comprese che la sua vocazione era piuttosto quella cenobitica, cioè la ricerca di Dio nella “vita comune” (da koinòs bìos, “comune vita”). Anzi egli si spinge oltre. Considerando i monaci del suo tempo – già altri prima di lui avevano intrapreso quella via anche in occidente – analizza severamente la situazione, perché si accorge che la maggior parte di quelli che non accettano la vita comune e non si legano alla stabilità di un monastero, in realtà non stanno cercando la volontà di Dio, ma fuggendo da essa.

Così scrive, all’inizio della Regola, proponendo proprio l’ideale della vita cenobitica:

«È noto che ci sono quattro categorie di monaci.

La prima è quella dei cenobiti, che vivono in un monastero, militando sotto una regola e un abate.

La seconda è quella degli anacoreti o eremiti, ossia di coloro che non sono mossi dall'entusiastico fervore dei principianti, ma sono stati lungamente provati nel monastero, dove con l'aiuto di molti hanno imparato a respingere le insidie del demonio; quindi, essendosi bene addestrati tra le file dei fratelli al solitario combattimento dell'eremo, sono ormai capaci, con l'aiuto di Dio, di affrontare senza il sostegno altrui la lotta corpo a corpo contro le concupiscenze e le passioni.

La terza categoria di monaci, veramente detestabile è formata dai sarabaiti: molli come piombo, perché non sono stati temprati come l'oro nel crogiolo dell'esperienza di una regola, costoro conservano ancora le abitudini mondane, mentendo a Dio con la loro tonsura.

A due a due, a tre a tre o anche da soli, senza la guida di un superiore, chiusi nei loro ovili e non in quello del Signore, hanno come unica legge l'appagamento delle proprie passioni, per cui chiamano santo tutto quello che torna loro comodo, mentre respingono come illecito quello che non gradiscono.

C'è infine una quarta categoria di monaci, che sono detti girovaghi, perché per tutta la vita passano da un paese all'altro, restando tre o quattro giorni come ospiti nei vari monasteri, sempre vagabondi e instabili, schiavi delle proprie voglie e dei piaceri della gola, peggiori dei sarabaiti sotto ogni aspetto. Ma riguardo alla vita sciagurata di tutti costoro è preferibile tacere piuttosto che parlare.

Lasciamoli quindi da parte e con l'aiuto del Signore occupiamoci dell'ordinamento della prima categoria, ossia quella fortissima e valorosa dei cenobiti» (Regola I, Le specie dei monaci).

Si noti come egli continua ad apprezzare gli eremiti, purché si siano prima sperimentati nella vita comune, mentre contesta profondamente quelli che chiama “sarabaiti” e “girovaghi” che, in forme diverse, rifiutano in realtà la fedeltà e l’amore cristiani.

La Regola non si limita ad enunziare il grande valore della vita comune, ma, come per la preghiera, la concretizza poi nei dettagli, perché il monastero sia veramente una scuola dove i monaci imparano ad amarsi fra di loro e ad amare anche i fratelli che non fanno parte del monastero stesso, come i pellegrini ed i poveri

La Regola è così una codificazione spirituale di momenti, passaggi, gesti e atteggiamenti che aiutano a vivere una vita da fratelli.

11/ Salire la scala dell'umiltà, cioé discendere

Benedetto comprende che il grande ostacolo nella ricerca di Dio e nell’amore del fratello è l’orgoglio. Per questo una sezione molto ampia ed originalissima della Regola è dedicata all’umiltà. Egli rilegge l’episodio della scala di Giacobbe, raccontata dal libro della Genesi, affermando che bisogna salire su di una scala per giungere a Dio. Ma – ecco il paradosso – questa scala è la scala dell’umiltà, per cui è una scala che in realtà si sale scendendola. Più si discende nell’umiltà, più l’anima sale a Dio ed il cuore dell’uomo entra nel suo amore e nell’amore dei fratelli, trasformandosi.

Così scrive la Regola in proposito:

«7,1/ Grida a noi, fratelli, la divina Scrittura quando dice: “Chiunque si innalza sarà umiliato e chi si umilia sarà innalzato”. 2/ Quando dunque dice queste cose, ci mostra che ogni innalzamento è una forma di superbia; 3/ cosa da cui il profeta dà segno di stare in guardia quando dice: “Signore, il mio cuore non si è innalzato e i miei occhi non si sono levati in alto, e neppure sono andato dietro a cose grandi e mirabili al di sopra di me”. 4/ E allora, se non ho avuto sentimenti umili, se avrò innalzato la mia anima? Come un bambino che non viene più allattato da sua madre, così tu ricambierai alla mia anima.

7,5/ Perciò, fratelli, se vogliamo toccare la vetta della più alta umiltà e se vogliamo giungere velocemente a quell’elevazione celeste cui si ascende mediante l’umiltà della vita presente, 6/ dobbiamo erigere con le nostre azioni che salgano verso l’alto quella scala che sorse in sogno a Giacobbe, lungo la quale gli furono mostrati angeli che scendevano e salivano. 7/ Tali discesa e salita non possiamo senza dubbio comprenderle in altro modo se non come un discendere per essere innalzati ed un ascendere per mezzo dell’umiltà.[...] 7,67/ Saliti dunque tutti questi gradini dell’umiltà, il monaco giungerà subito a quella carità di Dio che, se perfetta, scaccia il timore. 68/ Per mezzo di essa tutte le cose che prima osservava non senza paura comincerà a custodirle senza alcuna fatica, come in modo naturale, in forza della consuetudine; 69/ non più per timore della geenna, ma per amore di Cristo, per la stessa buona consuetudine e per il piacere delle virtù».

Si noti anche il passaggio finale di questo testo che mostra come la perfezione consista nel “piacere delle virtù”. La virtù è piena se l’uomo ha scoperto la felicità di attuarla, anche se è faticosa.

12/ Il rapporto fra l’abate ed i fratelli

Questa umiltà non è, però, ancora una volta, semplicemente un valore da perseguire in teoria. Il monastero così come lo propone Benedetto, si caratterizza per la presenza di un abate, di un padre, a cui si offre la propria obbedienza, proprio perché egli aiuti tutti a camminare verso Dio ed a scambiarsi un amore fraterno.

Per Benedetto la verità del vangelo non è mai puramente astratta, ma sempre si manifesta nell’adesione alla concretezza delle situazioni.

L’abate non è un padrone assoluto, bensì è innanzitutto un padre che deve veramente amare Dio ed i fratelli per poter aiutarli nel cammino:

«64,7/ Colui che è stato ordinato abate [...] rifletta sempre su quale peso ha accolto e a chi dovrà render conto della propria amministrazione; e sappia che è bene per lui più esser di giovamento che essere a capo. È bene che sia istruito nella legge divina, perché sappia e abbia donde porgere cose nuove e cose antiche; che sia casto, sobrio, misericordioso; e faccia prevalere sempre la misericordia sul giudizio, per ottenere anch’egli lo stesso».

Certamente egli ha il compito anche di correggere, ma deve esercitare il suo ministero di guida come colui che veramente porta tutta la comunità nell’amore:

«64,11/ Odi i vizi, ami i fratelli. Anche nel riprendere, poi, agisca con prudenza e senza alcun eccesso, perché non accada che mentre desidera raschiare troppo la ruggine si rompa il vaso; sia sempre vigilante anche sulla propria fragilità e si ricordi che la canna sbattuta non va spezzata. Con questo non diciamo che deve permettere che si alimentino i vizi, ma che li amputi con prudenza e carità, come gli sembrerà che a ciascuno giovi, come si è già detto, e cerchi di essere più amato che temuto».

È fondamentale che l’abate sia equilibrato e saggio altrimenti recherà solo danno alla comunità:

«64,16/ Non sia agitato e ansioso, non sia esagerato e ostinato, non sia geloso e troppo sospettoso, perché non avrebbe mai riposo. Anche nei suoi ordini sia previdente e ponderato, e sia che il lavoro che ha assegnato sia secondo Dio o secondo il secolo, agisca con discernimento e misura, riflettendo sulla discrezione del santo Giacobbe, che dice: “Se farò affaticare ancora le mie greggi a camminare moriranno tutte in un sol giorno”. Adottando perciò queste e altre prove di discrezione, che è la madre delle virtù, agisca con misura in tutto, in modo che anche i forti desiderino qualcosa e che i deboli non si ritirino. E, in particolare, osservi la presente regola in tutto, così che, mentre avrà svolto bene il proprio servizio, oda dal Signore ciò che udì il servo buono che a suo tempo distribuì il grano ai suoi compagni: “In verità vi dico lo costituì sopra tutti i suoi beni”».

Ancora una volta è straordinaria l’osservazione concretissima: «Non sia agitato e ansioso, non sia esagerato e ostinato, non sia geloso e troppo sospettoso, perché non avrebbe mai riposo». La vita è veramente così: le persone agitate e ansiose non danno tregua agli altri, ma non danno mai tregua nemmeno a se stesse, perdendo la pace, incapaci di godersi il bello della vita.

Ma l’obbedienza non riguarda solo l’abate: tutti debbono obbedirsi gli uni gli altri ed, in qualche modo, anche l’abate deve obbedire alla comunità. In realtà , come aveva ricordato San Paolo, se si è in Cristo si è veramente tutti sottomessi gli uni agli altrui, perché l’amore ti porta nel posto del servizio, dove ognuno si dona al fratello.

Così scrive la Regola in proposito:

«71,1/ Il bene dell’obbedienza va offerto da tutti non soltanto all’abate, ma i fratelli si obbediscano allo stesso modo anche a vicenda, 2/ sapendo che per questa via dell’obbedienza andranno a Dio».

Per questo ogni decisione deve essere presa ascoltando attentamente il parere di tutti, per seguire la volontà di Dio. Il monastero benedettino si caratterizza così anche per una vita comune concretizzata nelle riunioni capitolari, dove i monaci discutono tutti insieme:

«3,1/ Ogni volta che in monastero c’è da trattare qualcosa di importante, l’abate convochi tutta la comunità e dica lui stesso di cosa si tratta. 2/ E mentre ascolta il parere dei fratelli rifletta dentro di sé e ciò che avrà giudicato più utile lo faccia. 3/ Per questo abbiamo detto che a consiglio siano convocati tutti, poiché spesso è al più giovane che il Signore rivela ciò che è meglio.

3,12/ Se poi si devono trattare cose di minore importanza per l’utilità del monastero, si serva solo del consiglio degli anziani, 13/ come sta scritto: “Fa tutto con consiglio e dopo che l’avrai fatto non te ne pentirai”».

Benedetto ricorda che anche il più giovane deve prendere la parola e che gli anziani lo debbono ascoltare, perché lo Spirito Santo può parlare proprio attraverso di lui ed è lo Spirito che deve essere ascoltato per giungere alla decisione.

13/ L'ospitalità

Infine, merita soffermarsi su di un altro aspetto che caratterizza la vita comune come San Benedetto la riprende dal vangelo. I fratelli debbono certamente amarsi fra di loro, ma anche debbono amare coloro che non appartengono alla comunità e fra questi soprattutto i poveri ed i pellegrini.

Benedetto ricorda che questo dovere nasce dal vangelo stesso nel quale Gesù ha rivelato che si nasconde nei panni del povero. Per questo il povero e l’ospite va accolto “come Cristo stesso”:

«53,1/ Tutti gli ospiti che arrivano siano accolti come Cristo, poiché egli stesso dirà: “Sono stato ospite e mi avete accolto”; e a tutti si renda il dovuto onore, sopratutto ai fratelli nella fede e ai pellegrini. Non appena dunque viene annunciato un ospite, il superiore e i fratelli accorrano a lui con ogni servizio di carità; prima preghino insieme e poi si abbraccino nella pace. Questo bacio della pace non lo si offra se prima - a motivo delle illusioni diaboliche - non si è fatta una preghiera. Nello stesso saluto a tutti gli ospiti che arrivano o che partono si mostri ogni umiltà: chinato il capo e prostrato tutto il corpo a terra, si adori in essi il Cristo che viene accolto. [...] 53,8/ Una volta accolti, gli ospiti siano condotti alla preghiera e poi sieda con essi il superiore o colui al quale egli lo avrà comandato. Si legga davanti all’ospite la legge divina, perché ne sia edificato, e poi gli si mostri ogni umanità. Il superiore infranga il digiuno a causa dell’ospite, a meno che non sia un particolare giorno di digiuno che non possa essere violato; i fratelli, invece, proseguano nei consueti digiuni. L’abate versi dell’acqua nelle mani degli ospiti; sia l’abate che tutta la comunità lavino i piedi a tutti gli ospiti e, lavatili, dicano questo versetto: “Abbiamo accolto, o Dio, la tua misericordia in mezzo al tuo tempio”. [...] 53,15/ Sopratutto abbia cura con sollecitudine dell’accoglienza dei poveri e dei pellegrini, poiché in essi ancora di più viene accolto Cristo; infatti la paura che incutono i ricchi esige di per se stessa l’onore».

Si notino in questo brano le deroghe che vengono concesse anche al digiuno per poter onorare l’ospite che ha bussato al monastero.

14/ Una sintesi del monachesimo benedettino: Ora et labora et lege

Questa breve rassegna che abbiamo fatto della Regola – in realtà è molto più ricca, ma questo è il limite dei nostri incontri – vi permette di intuire come mai il monachesimo si rivelerà decisivo nella storia dell’intera Europa. La ricerca di Dio che sarà portata avanti nei diversi monasteri diverrà luce per l’intero continente. L’amore fraterno e l’accoglienza dei poveri e dei pellegrini renderà i monasteri luoghi di rifugio e baluardi lungo le vie di pellegrinaggio e di commercio. Il lavoro intellettuale e manuale che si svolgerà nei monasteri conserverà attraverso il medioevo il sapere antico e porterà a rendere abitabili luoghi altrimenti inospitali, tramite bonifiche e coltivazioni.

Nel tempo un binomio si è imposto a sintetizzare la regola benedettina, il famoso “ora et labora” che abbiamo già citato. Anche se non compare esplicitamente nella Regola, esso è stato chiaramente ispirato da alcuni passaggi del testo stesso:

 «48,1/ L’ozio è nemico dell’anima, perciò in alcuni determinati momenti i fratelli devono essere occupati nel lavoro manuale e, ancora in altri momenti nella lectio divina.

48,7 Se poi la necessità del luogo o la povertà esigessero che i monaci si occupino loro stessi di raccogliere le messi, non si rattristino, 8/ poiché allora sono veramente monaci, quando vivono della fatica delle loro mani, come anche i nostri Padri e gli apostoli.

48,22/ Nel giorno di Domenica, ugualmente, tutti impieghino il loro tempo nella lettura, eccetto quelli che sono stati deputati ai vari uffici. Se però qualcuno fosse così negligente e pigro da non volere o da non poter meditare o leggere, gli venga assegnato un lavoro da fare, in modo che non abbia del tempo vuoto».

Recentemente Benedetto XVI ne ha dato una presentazione più completa ed adeguata, presentando la sintesi della Regola con un trinomio: ora et labora et lege. Lo ha fatto in occasione della visita a Montecassino dove ha affermato:

«"Christo nihil omnino praeponere" (LXII,11). [...] Cari fratelli e sorelle, sentiamo echeggiare in questa nostra celebrazione l’appello di san Benedetto a mantenere il cuore fisso sul Cristo, a nulla anteporre a Lui. Questo non ci distrae, al contrario ci spinge ancor più ad impegnarci nel costruire una società dove la solidarietà sia espressa da segni concreti. Ma come? La spiritualità benedettina, a voi ben nota, propone un programma evangelico sintetizzato nel motto: ora et labora et lege, la preghiera, il lavoro, la cultura. Innanzitutto la preghiera, che è la più bella eredità lasciata da san Benedetto ai monaci, ma anche alla vostra Chiesa particolare [....] La preghiera, a cui ogni mattina la campana di san Benedetto con i suoi gravi rintocchi invita i monaci, è il sentiero silenzioso che ci conduce direttamente nel cuore di Dio; è il respiro dell’anima che ci ridona pace nelle tempeste della vita. Inoltre, alla scuola di san Benedetto, i monaci hanno sempre coltivato un amore speciale per la Parola di Dio nella lectio divina, diventata oggi patrimonio comune di molti. [...] Altro cardine della spiritualità benedettina è il lavoro. Umanizzare il mondo lavorativo è tipico dell’anima del monachesimo [...]

Appartiene infine alla vostra tradizione anche l’attenzione al mondo della cultura e dell’educazione. Il celebre Archivio e la Biblioteca di Montecassino raccolgono innumerevoli testimonianze dell’impegno di uomini e donne che hanno meditato e ricercato come migliorare la vita spirituale e materiale dell’uomo. Nella vostra Abbazia si tocca con mano il "quaerere Deum", il fatto cioè che la cultura europea è stata la ricerca di Dio e la disponibilità al suo ascolto. E questo vale anche nel nostro tempo»[8].

Ma anche nell’enciclica Spe salviha insistito sul fatto che la vita monastica se, da un lato, separava dal mondo alcuni uomini che sceglievano di dedicarsi alla ricerca di Dio, d’altro canto proprio questa vita li restituiva ancor più al mondo, di modo che i monaci sono sempre stati un segno che in questo mondo si deve lavorare perché il mondo si riavvicini al Paradiso:

«Nella coscienza comune, i monasteri apparivano come i luoghi della fuga dal mondo («contemptus mundi») e del sottrarsi alla responsabilità per il mondo nella ricerca della salvezza privata. Bernardo di Chiaravalle, che con il suo Ordine riformato portò una moltitudine di giovani nei monasteri, aveva su questo una visione ben diversa. Secondo lui, i monaci hanno un compito per tutta la Chiesa e di conseguenza anche per il mondo. Con molte immagini egli illustra la responsabilità dei monaci per l'intero organismo della Chiesa, anzi, per l'umanità; a loro egli applica la parola dello Pseudo-Rufino: «Il genere umano vive grazie a pochi; se non ci fossero quelli, il mondo perirebbe...». I contemplativi – contemplantes – devono diventare lavoratori agricoli – laborantes –, ci dice. La nobiltà del lavoro, che il cristianesimo ha ereditato dal giudaismo, era emersa già nelle regole monastiche di Agostino e di Benedetto. Bernardo riprende nuovamente questo concetto. I giovani nobili che affluivano ai suoi monasteri dovevano piegarsi al lavoro manuale. Per la verità, Bernardo dice esplicitamente che neppure il monastero può ripristinare il Paradiso; sostiene però che esso deve, quasi luogo di dissodamento pratico e spirituale, preparare il nuovo Paradiso. Un appezzamento selvatico di bosco vien reso fertile – proprio mentre vengono allo stesso tempo abbattuti gli alberi della superbia, estirpato ciò che di selvatico cresce nelle anime e preparato così il terreno, sul quale può prosperare pane per il corpo e per l'anima. Non ci è dato forse di costatare nuovamente, proprio di fronte alla storia attuale, che nessuna positiva strutturazione del mondo può riuscire là dove le anime inselvatichiscono?» (Spe salvi 15).

Abbiamo così conosciuto un po’ di più la figura di San Benedetto, ma tramite la sua vita e la sua Regola abbiamo potuto intuire forse un po’ di più il ruolo spirituale ed anche storico del monachesimo nella chiesa medioevale così come nella chiesa del nostro tempo.

15/ La statua di Santa Cecilia del Maderno

Iniziamo ora la vista della basilica. Sotto l’altare sono state collocate le reliquie di Santa Cecilia: la statua di Stefano Maderno, scolpita nel 1599, ne ricorda la sepoltura. Siamo a cavallo del secolo, nello stesso clima culturale e spirituale che abbiamo evocato nello scorso incontro ai tre oratori del Celio. Lì avevamo parlato di Cesare Baronio, il discepolo prediletto di San Filippo Neri, che si dedicò alla storia della chiesa perché essa tornasse a parlare ai suoi contemporanei. Sono gli anni del Caravaggio – i primi due dipinto della Cappella Contarelli con le storie di San Matteo vengono terminati proprio per il giubileo del 1600. Anche il Caravaggio rende contemporanee – con una forza espressiva assoluta – le storie del Nuovo Testamento e dei santi che rappresenta.

Qui a Santa Cecilia fu il cardinale Paolo Emilio Sfondrato (o Sfondrati), nipote del papa Gregorio XIV, divenuto titolare della basilica, ad organizzare scavi archeologici che nel 1599 portarono al rinvenimento del corpo della santa. Come vedremo poi meglio, il corpo di Santa Cecilia era stato traslato qui nel IX secolo, ai tempi di Pasquale I .

L’opera del cardinale Sfondrato si colloca dunque in questo contesto di rinnovato amore alla chiesa di Roma ed alla sua storia. Anch’egli aveva frequentato l’Oratorio e conosceva molto bene il Baronio: apparteneva alla nuova generazione di chierici che cercavano con una rinnovata passione il bene della chiesa. Nelle cronache del monastero le monache di allora descrissero con una commozione straordinaria l’avvenuto ritrovamento. Il cardinale decise allora di far realizzare a Stefano Maderno, da non confondere con il più famoso Carlo che realizzerà la facciata di San Pietro, la statua che vedete.

È probabilmente l’opera più famosa e meglio riuscita del Maderno, ma è anche la sua prima opera conosciuta – aveva solo 23 anni quando la realizzò. La statua mostra la Santa così come venne rinvenuta nel 1599. Sul collo si vedono i segni di tre colpi di spada, inferti dal boia senza riuscire ad ucciderla.

Non riusciamo a vederle il viso, perché la Santa fu scolpita con il capo rivolto a terra – ma, sul retro anche il volto è visibile, come dimostrano le foto – ma sono le sue dita a parlare. Vedete che il Maderno ha scolpito una mano nel gesto di indicare. Cecilia continua a parlare anche nella sua agonia ed anche da morta, come martire di Cristo, vivente in lui. La statua è minuta per mostrare la sua debolezza, ma in quella sua debolezza verginale è Cristo che parla.

L’altra mano, indicando il numero tre, indica i tre colpi ricevuti dal carnefice ed i tre giorni di agonia che precedettero secondo la tradizione la morte – la stessa postura delle dita, riunite in un gruppo di tre ed in uno di due, in oriente, indica simbolicamente la duplice natura di Cristo – divina e umana – e le tre persone della Trinità.

Soffermiamoci un istante sulla storia di Santa Cecilia, sapendo bene che non è possibile conoscere i dettagli della sua esistenza storica, bensì solamente, certi della sua testimonianza di martire, accogliere il racconto dell’antica Passio che ci parla di lei.

Cecilia, nella Passio composta nel V secolo, è una nobile romana fidanzata a Valeriano. Valeriano è pagano e, non appena celebrato il matrimonio, si sente annunziare dalla sua amata che lei desidera vivere le nozze in castità, per amore di Dio. Cecilia invita Valeriano a recarsi sulla via Appia dove incontrerà Urbano – papa Urbano, che fu vescovo di Roma in realtà fra il 222 ed il 230 – che lo converte e lo battezza.

Tornato in casa, trova la sua amata in preghiera ed un angelo benedice la loro casta unione – sono le loro nozze “mistiche” che Guido Reni rappresenterà, come vedremo più avanti. Cecilia istruisce il marito sul mistero della Trinità e dell’Incarnazione e Valeriano riesce a convertire anche il fratello Tiburzio che si fa battezzare.

Il prefetto di Roma, che nella passio si chiama Turcio Almachio, è un persecutore dei cristiani e mette a morte come martiri i due fratelli Valeriano e Tiburzio, dopo che questi, catturati mentre seppellivano i martiri e facevano opere di carità, si rifiutano di offrire sacrifici ad un idolo rappresentante Giove.

Anche Cecilia si rifiuta di sacrificare agli idoli e viene condannata a morte. Un primo tentativo di farla morire con i fumi di un bagno – che la tradizione localizzerà poi proprio qui a Santa Cecilia -, fallisce, perché Dio protegge la santa. Cecilia viene allora decapitata, ma la spada la colpisce tre volte sul collo senza riuscire a provocarne direttamente la morte. Morirà così dopo tre giorni di agonia.

Urbano, infine, la seppellisce presso l’importantissimo cimitero dei pontefici nelle catacombe di San Callisto, dove nell’alto medioevo papa Pasquale I rinverrà il suo corpo traslandolo poi qui nella basilica.

Santa Cecilia è la patrona della musica – la vedremo sempre rappresentata con l’attributo iconografico di un organo a canne o, comunque, con altri strumenti musicali. Ciò deriva dalla Passio nella quale si dice che, mentre andava alle nozze, cantantibus organis, Caecilia in corde suo soli Domino decantabat dicens: fiat cor meum immacolatum. Questo “canto” interiore è stato poi trasfigurato dalla tradizione ad esprimere un amore per la musica offerta a Dio.

Certo è che l’antichissimo Canone Romano – oggi Preghiera eucaristica I – la ricorda insieme alle altre martiri veneratissime dal popolo di Dio: «Felicita, Perpetua, Agata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia».

16/ Gli scavi e la cripta

(N.d.R. Nel corso dell’incontro la cripta e gli scavi non sono stati visitati per ragioni di tempo).

Prima di scendere agli scavi è possibile vedere nel locale che dà accesso ad essi due delle colonne della basilica medioevale. Tutte le altre, come abbiamo detto, sono inglobate negli attuali pilastri e, quindi, non più visibili.

Gli scavi che sono stati realizzati al di sotto della basilica hanno portato al rinvenimento delle murature di una domus romana di età repubblicana. Essa è divenuta, in età imperiale, un insula, ingrandendosi, quindi, e sollevandosi in altezza.

All’interno sono stati individuati locali con funzioni specifiche fra i quali un piccolo impianto termale, dotato di un calidarium e di un tepidarium. Tale bagno è stato messo da alcuni in relazione con il martirio di Santa Cecilia, ma senza che questo abbia un’evidenza storica.

Alcuni archeologi hanno ipotizzato che un’aula del complesso, che sembra aver subito una ristrutturazione nel IV secolo e che è dotata di una vasca al centro e bancali ai lati, potrebbe essere stata utilizzata già in quel periodo per scopi liturgici cristiani.

Certa è, comunque, l’esistenza di un titulus di Santa Cecilia, attestato anche da una lapide con il termine abbreviato in cui si fa menzione di un presbitero di nome Iohannis (lapide che il De Rossi aveva datato agli anni che vanno dal 379 al 464).

Altrettanto certa è la presenza di un battistero - evidentemente annesso al titulus – di V secolo. La vasca è internamente circolare, mentre è all’esterno esagonale. Un architrave che doveva essere di pertinenza del battistero stesso recita:

FONS SACER EST FIDEI QUI CULPAS ABLUIT OMNES

TINGUITUR HOC QUISQUIS INCIPIT ESSE NOVUS

Il dittico è diviso da una hedera distinguens. Straordinaria nella sua semplicità la fede espressa dal dittico: quel fonte lava tutte le colpe e chiunque in esso è “tinto” inizia ad essere nuovo, cioè riceve una nuova vita.

Il verbo “tingere” aveva allora proprio il significato di “immergere”, poiché i tessuti venivano colorati immergendoli appunto nel colore. Oggi il termine “tinto” significa piuttosto “colorato”, mentre nella nostra iscrizione il riferimento è semplicemente all’immersione battesimale.

Fra i reperti emersi negli scavi è visibile una lastra di sarcofago romano riutilizzata con croce cosmatesca che ricorda il rinvenimento dei corpi di Santa Cecilia e dei suoi compagni al tempo di Pasquale I, ma l’iscrizione è del XIII secolo: potrebbe però essere un’iscrizione che ne copia una precedente di epoca carolingia.

I primi scavi vennero realizzati dallo Sfondrato, mentre quelli attuali ben più ampi risalgono al secolo scorso. Comunque già al tempo dello Sfondrato venne anche realizzata una cripta che, però, è poi stata radicalmente ristrutturata agli inizi del novecento, per opera del cardinale Mariano Rampolla del Tindaro. Così come essa si presenta oggi non riveste particolare interesse artistico, ma custodisce i cinque sarcofagi con i corpi di Santa Cecilia, più in alto rispetto agli altri, e di Tiburzio e Massimo, in mezzo, e Lucio e Urbano in basso.

Abbiamo già più volte detto che esiste nelle chiese cristiane questo senso della verticalità. L’altare sul quale oggi si celebra poggia sulle reliquie dei martiri e dei santi, ad indicare che la fede cristiana non è stata inventata dalla generazione presente, bensì ricevuta da chi ci ha preceduto nel segno della fede, di modo che l’eucarestia che noi riceviamo è la stessa che ha già donato ai santi la comunione con il Signore Gesù. Gli stessi santi non hanno vissuto solo prima di noi come nostro fondamento, ma sono anche oggi viventi in cielo ad accompagnarci con la loro intercessione come torneremo a meditare ritrovandoli rappresentati nei mosaici dell’abside.

17/ Il catino absidale ed i suoi mosaici

Come dicevamo, l’architettura cristiana ci presenta nel segno della verticalità il raccordo fra il tempo e l’eternità. I santi ed i martiri che ci hanno trasmesso la fede sono ora in cielo a pregare per noi: per questo li si rappresenta nel catino absidale insieme al Cristo. Ma alla verticalità si unisce l’idea di cammino: nella navata si entra, come dicevamo a Santa Maria Maggiore, per camminare incontro a Cristo che “orienta” l’intera chiesa, che è anzi l’“oriente” stesso, il sole che sorge incontro a noi a portarci la sua luce.

L’abside rappresenta così Dio ed il suo “cielo” che veglia su di noi e verso il quale noi camminiamo. Di questo “cielo” fa parte innanzitutto il Cristo stesso, ma poi appunto anche la “Chiesa del cielo”, di modo che ogni volta che il popolo si riunisce per i sacramenti scopre di appartenere ad una chiesa più ampia che comprende anche la “chiesa del cielo” e non solo quella “della terra” – la teologia chiamerà la prima con il nome di “chiesa trionfante”, la seconda, la nostra, con quello di “chiesa pellegrinante”, la chiesa che è in cammino verso la Gerusalemme celeste. Insieme a queste esiste anche la chiesa “purgante” composta dai morti che sono ancora in Purgatorio, perché la morte non li ha colti in uno stato di santità piena, santità che raggiungeranno allora attraverso una purificazione, quella dell’amore di Cristo che li inonda bruciando via il male.

I mosaici dell’abside sono ciò che rimane della decorazione – che doveva allora abbellire tutta la chiesa, ma le restanti parti sono andate perdute – del tempo di papa Pasquale I (817-824): siamo nella cosiddetta età carolingia.

Come abbiamo già visto l’anno scorso Carlo Magno venne incoronato imperatore a Roma nell’anno 800 (e morì nell’814). Il rapporto stretto fra Roma ed i franchi ebbe inizio proprio a causa dei longobardi. Agli inizi dell’VIII secolo i longobardi si fecero sempre più intraprendenti, mostrando di aspirare a riunire tutta l’Italia sotto il loro dominio. Giunsero infine a conquistare Ravenna che cadde nell’anno 751, rendendo evidente che l’impero non era più in grado di giocare un ruolo sulla penisola italiana. Il pontefice si recò a piedi fino a Pavia ad implorare che i longobardi lasciassero nuovamente libero l’esarcato, ma, avendo ricevuto risposta negativa, passò a piedi le Alpi, giungendo fino a Reims presso la corte franca.

I franchi accolsero la sua richiesta e si decisero a scendere in Italia per venire in aiuto di Roma contro i longobardi. Nel tempo il rapporto del papa con loro si intensificò finché si giunse al riconoscimento di un re franco, colui che passò alla storia come Carlo Magno, come nuovo imperatore romano, evento scandaloso al tempo perché a Costantinopoli vi era ancora un imperatore felicemente regnante.

Il rapporto con i franchi salvò Roma dal rischio di cadere sotto l’influenza longobarda ed aprì la strada ai successivi eventi medioevali. Ne venne un periodo di rinnovato benessere per l’urbe che è dominata appunto “età carolingia”. Leone III (795-816) incoronò Carlo Magno, a lui successe per un brevissimo tempo Stefano IV (o V, a secondo delle denominazioni) ed a Stefano infine Pasquale I (817-824).

Lo vediamo rappresentato alla sinistra del mosaico. La sua “aureola” quadrata indica che egli era ancora vivente al momento della realizzazione del mosaico. Pasquale I realizzò – facendosi ritrarre in essi – anche il mosaico absidale di Santa Prassede che abbiamo già visitato e quello di Santa Maria in Domnica alla Navicella che visiteremo quest’anno.

Al centro del mosaico si vede il Cristo: ha un rotolo in una mano, segno che egli parla, anzi che è la Parola stessa, mentre tiene l’altra mano con l’anulare ed il pollice uniti, in segno di benedizione. Su di lui appare la mano del Padre che lo incorona. Nell’arco si vede il monogramma di Pasquale I.

Alla destra ed alla sinistra del Cristo stanno Pietro e Paolo con i loro simboli iconografici: le chiavi ed il libro. Dal lato di San Paolo, si vede Santa Cecilia che presenta a Cristo il papa Pasquale I che reca nelle mani il modellino della chiesa stessa di Santa Cecilia che offre al Signore. Dal lato di San Pietro si vedono invece San Valeriano, lo sposo martire di Cecilia, e Sant’Agata, patrona dell’antico monastero insieme a Santa Cecilia.

Le due palme a destra ed a sinistra unitamente ai fiori ed alla vegetazione dicono lo splendore del Paradiso e la sua fecondità. Sulla palma di sinistra si vede chiaramente la fenice, simbolo di immortalità.

Nella fascia inferiore Cristo è presente nel simbolo dell’agnello, duplicando l’immagine superiore. L’agnello è su di un monte paradisiaco da cui sgorgano i quattro fiumi di cui abbiamo già parlato tante volte, ripresi da Genesi e dall’Apocalisse.

Dodici pecore, simboli degli apostoli – e dell’intera chiesa fondata dagli apostoli –, si rivolgono verso l’agnello, uscendo dalle due città di Betlemme e Gerusalemme ed avvicinandosi.

Più sotto ancora l’iscrizione dedicatoria che recita: «Questa vasta sacra dimora, che una volta nel tempo antico era stata abbattuta, splende fabbricata con materiali variopinti. La restaurò il munifico papa Pasquale abbellendo questa casa del Signore. Queste auree dindime [dal monte Dindimo, sacro agli dèi, che è in Frigia] strutture del tempio splendono di gemme. Pieno dell’amore di Dio qui riunì i corpi, che prima riposavano le sante membra nella cripta, e splende qui la gioventù in fiore di Santa Cecilia con i suoi compagni. Roma risuona sempre festante adorna nei secoli».

18/ Il ciborio di Arnolfo di Cambio

Sopra l’altare vi è un’altra delle opere d’arte di questa chiesa: il ciborio di Arnolfo Di Cambio. Il ciborio è una struttura architettonica posta sopra l’altare che ha la funzione di solennizzare simbolicamente il luogo dell’evento sacrificale-eucaristico.

L’opera è firmata dallo stesso Arnolfo e datata all’anno 1293 come si vede parzialmente dalla base di uno delle colonne. L’iscrizione che indica anche l’autore era stata coperta durante i lavori fatti eseguire dallo Sfondrati nel 1599: HOC OPUS FECIT ARNULFUS ANNO DOMINI MCCLXXXXIII M NOVEMBER DXX,

Ai quattro angoli Arnolfo ha scolpito sul lato anteriore a sinistra Santa Cecilia, che è incoronata, ed a destra San Valeriano, suo sposo. In cima alle due colonne posteriori, invece, sono papa Urbano e Tiburzio, martirizzato insieme al fratello Valeriano. Quella di Tiburzio è forse la figura più bella: emerge dall’angolo con il cavallo sul quale è in sella. Tutto il ciborio, ma soprattutto quest’ultima figura manifesta la novità espressiva di Arnolfo, ormai pienamente capace di richiamarsi al classico (vedi il Marco Aurelio a cavallo) e di caratterizzare in maniera modernamente realistica le figure umane.

Sulle fronti degli archi si vedono sul lato anteriore due profeti che stendono le loro profezie, quasi inchinandosi al Signore che viene, sui due lati di destra e sinistra i quattro evangelisti e sul retro due figure femminili che rappresentano le vergini sagge della parabola.

Il ciborio di Santa Cecilia segue di una diecina di anni circa il ciborio arnolfiano di San Paolo fuori le Mura ed appare evidente l’evoluzione artistica del maestro, che diviene sempre più consapevole dei suoi mezzi espressivi.

Dinanzi agli affreschi del Cavallini torneremo a parlare del ruolo di Roma nel rinnovamento dell’arte italiana che si compie a cavallo del milletrecento: Arnolfo è uno dei protagonisti di questo cambiamento ed è sicuramente uno dei maestri della “nuova” arte. Proprio a Roma con lui – e con Cavallini e gli altri – si afferma un’arte cristiana ed insieme profondamente realistica ed umana. Merita confrontare quest’opera con le altre da lui realizzate: mi viene in mente, ad esempio, il monumento funebre dell’Annibaldi che è nel chiostro di San Giovanni in Laterano nel quale Arnolfo scolpisce i ministranti che accompagnano il defunto nel funerale e si vede uno di loro con le gote gonfie perché sta soffiando sull’incensiere: una figura umanissima ed estremamente realistica, così come le quattro figure in cima alle colonne di questo ciborio.  Giotto apprenderà qui a Roma la lezione che poi esporterà ad Assisi e a Padova.

19/ La navata centrale

Se ci volgiamo ora alla navata, ci accorgiamo subito che essa non ha più niente della sua antica struttura medioevale. Le colonne antiche e la loro architrave sono sicuramente nascoste dagli attuali pilastri che hanno inglobato le colonne e dalla restante struttura che ha rivestito le pietre antiche. Due colonne sono ancora visibili - ma solo nel vano che da accesso agli scavi sottostanti. In alto si vedono le grate che permettono alle monache di muoversi senza essere disturbate dai visitatori.

L’intera sistemazione è quella che la basilica ricevette nel 1724 su iniziativa del cardinale Francesco Acquaviva.

Del 1725 è il grande affresco di Sebastiano Conca che adorna il soffitto. Si vede Santa Cecilia che riceve la corona di gloria per il suo martirio dal Signore Gesù, mentre è illuminata dallo Spirito Santo e riceve la benedizione di Dio Padre.

Più in basso, sulla destra, si vedono Valeriano e Tiburzio. Sulla sinistra, ancora più in basso, è papa Urbano, con gli angeli che reggono la sua croce e la sua Tiara. Dinanzi al pontefice sta l’organo, simbolo iconografico – come abbiamo detto – di Santa Cecilia.

20/ Le cappelle laterali

Mentre sul lato sinistro non vi sono cappelle laterali, perché la chiesa si appoggia al chiostro monastico che si apre subito dietro la parete, sul lato destro sono state costruite e trasformate nei secoli diverse cappelle.

Merita una visita innanzitutto la Cappella di Santa Cecilia o “del Bagno”, perché ricorda il luogo del tentato martirio della santa attraverso le esalazioni del calidarium, raccontato dalla Passio. La Cappella fu voluta bel 1599, nell’ambito delle ristrutturazioni promosse dal cardinal Sfondrati. Il corridoio d’accesso è affrescato dai paesaggi di Paul Brill con santi penitenti e contiene un bassorilievo della Madonna con Bambino attribuito all’ambito di Mino da Fiesole ed un San Sebastiano opera di Lorenzo Lotti detto il Lorenzetto (prima metà del cinquecento).

La cappella vera e propria è in relazione, tramite una grata, con gli scavi sottostanti che sarebbero appunto quelli del bagno romano del primo martirio della santa. La pala d’altare è una Decollazione di Santa Cecilia, opera giovanile di Guido Reni che è autore anche del tondo dipinto con le Nozze mistiche di Cecilia e Valeriano.

A fianco, risalendo la navata, si apre la Cappella dei Ponziani, così chiamata perché antica proprietà della famiglia Ponziani, dalla quale nacque Santa Francesca Romana: la famiglia Ponziani aveva la sua residenza vicino a Santa Cecilia e possiamo immaginare la giovane Francesca che più volte si recò qui in basilica. I dipinti sono di Antonio Massaro da Viterbo detto il Pastura: in particolare come pala d’altare si vede una Madonna della Misericordia fra i Santi Stefano e Francesca Romana.

 Segue poi, risalendo ancora la navata, la Cappella delle Reliquie, così detta perché destinata a custodire le reliquie della basilica (uso che ha conservato fino al secolo scorso). Vi lavorò il Vanvitelli (Luigi Vanvitelli, 1700-1773) che è autore del dipinto sulla parte di destra con l’Apparizione dell’angelo a Santa Cecilia e dell’affresco del soffitto con Angeli musicanti – sono le uniche testimonianze superstiti dei dipinti del Vanvitelli, più noto come architetto.

Il Vanvitelli era fiammingo e si chiamava in realtà van Wittel. La sua firma simbolica è in alto a sinistra dell’affresco: si tratta di una piccola farfalla poiché questa è la traduzione del suo cognome. La cappella fu realizzata negli anni 1723-1724 quando il Vanvitelli era ancora giovanissimo – aveva 23 anni. Solo per avere un termine di paragone, pensiamo che egli lavorò alla Reggia di Caserta a 50 anni, a partire dal 1750.

Infine, all’estremità della navata, è visibile un frammento degli affreschi del XIII secolo che dovevano ornare il nartece. L’intero ciclo narrava le storie dei santi Vincenzo, Lorenzo e Stefano, oltre a quelle di Cecilia e Valeriano. In particolare, il frammento mostra l’Apparizione di Santa Cecilia a Pasquale I per indicargli il luogo della sepoltura ed il Ritrovamento del corpo della santa da parte del pontefice.

21/ La controfacciata

Volgendoci ora alla controfacciata, la possiamo immaginare ornata dal Giudizio universale di Pietro Cavallini che fu, invece, definitivamente rovinato dai lavori settecenteschi e del quale vedremo le parti superstiti fra breve.

In basso si trovano i monumenti funebri di Niccolò Forteguerri, entrando a sinistra, e di Adam di Hartford, entrando a destra, entrambi cardinali titolari della basilica.

Niccolò Forteguerri, morto nel 1473, ebbe la sua tomba realizzata da Mino da Fiesole. Al centro si vede una Madonna con il Bambino fra i Santi Nicola e Cecilia – l’intero monumento è stato smembrato e poi rimontato, con alcune perdite di materiali.

Adam Easton di Hartford morì invece nel 1397: apparteneva alla famiglia reale dei Plantageneti.

22/ La facciata

Uscendo nel cortile possiamo ammirare la facciata. A destra si innalza ancora il campanile medioevale che venne eretto probabilmente tra la fine del XII secolo e gli inizi del XIII (qualcuno ha ipotizzato che i primi tre ordini risalgano addirittura agli inizi del XII secolo). È certo che proprio intorno all’anno 1200 vennero eretti la maggior parte dei campanili romanici delle chiese di Roma, da maestranze esperte in materia.

Anche il portico è coevo e deve essere datato intorno al passaggio del secolo. Mostra notevoli somiglianze con quello di San Lorenzo fuori le Mura, che abbiamo già visitato, che è del tempo di papa Onorio III (1216-1227). Vedremo che anche il chiostro romanico di Santa Cecilia è dello stesso periodo e probabilmente delle stesse maestranze.

Si vede, al di sopra delle colonne, una fascia decorata a mosaico con al centro un emblema circolare con la croce dalla quale pendono l’alfa e l’omega: simbolizza Cristo, inizio e fine di ogni cosa. Nella stessa fascia vi sono poi i clipei con i santi titolari della basilica: Santa Cecilia ripetuta due volte (forse una delle due era precedentemente Valeriano, poi restaurato male), Sant’Agata, San Tiburzio, Sant’Urbano e San Lucio, forse papa Lucio I (253-254).

Sopra la fascia a mosaico il resto del portico è stato risistemato al tempo del cardinale Francesco Acquaviva che abbiamo già ricordato per i lavori settecenteschi di ristrutturazione dell’interno.

Sotto il portico, alla destra, è stato ricostruito il monumento funebre del cardinale Paolo Emilio Sfondrati. Sopra il busto del defunto si vede un bassorilievo con la scoperta del corpo di Santa Cecilia avvenuta nel 1599, come abbiamo già detto. Il monumento è dei primi del seicento ed ai disegni delle sculture lavorò Pietro Bernini, padre di Gian Lorenzo.

Nel portico sono stati sistemati resti degli arredi marmorei di età carolingia – quindi del tempo del mosaico di Pasquale I -, di età basso medioevale ed anche un’importante iscrizione risalente all’anno 638, cioè proprio al periodo di cui ci occupiamo quest’anno, l’alto medioevo: vi conferma quello che vi dicevo sulla permanenza dell’impero romano ben oltre la cattura di Romolo Augustolo. Se guardate l’iscrizione latina si legge chiaramente che Theodorus era grecus e vizanteus, cioè greco di Bisanzio, e che fu fidelis et carus amicus multorum rei publice iudicum, cioè intimo di molti magistrati della repubblica, cioè di molti ufficiali dell’impero romano che a nome dell’imperatore governavano l’urbe.

Il cortile è anch’esso settecentesco, così come la sua facciata esterna che è opera di Ferdinando Fuga che la realizzò nel 1742 (il Fuga è lo stesso che fece la facciata settecentesca di Santa Maria Maggiore). Forse al posto del cortile vi era in origine un quadriportico, ma certamente la sua sistemazione odierna assolve alle stesse funzioni.

Al centro del cortile è collocato un cantaro romano che doveva forse essere posto davanti alla basilica già in età medioevale. A sinistra del cortile si accede al monastero delle benedettine, mentre a destra vivono oggi le suore francescane cosiddette “d’Egitto”.

23/ Il Giudizio universale di Pietro Cavallini

Entriamo ora nel monastero, per ammirare ciò che resta del famosissimo Giudizio universale di Pietro Cavallini. L’affresco era – come è tradizione – nella controfacciata della chiesa. Come abbiamo già detto l’affresco fu definitivamente coperto e irrimediabilmente rovinato nel settecento, quando si decise la ristrutturazione della chiesa secondo i gusti dell’epoca. Ma già nel 1527, all’arrivo delle benedettine, era stata distrutta la fascia superiore per realizzare un nuovo coro per le monache.

Il settecento non amava il medioevo e preferiva il proprio stile, senza curarsi di tramandare il passato. La riscoperta del valore del medioevo, anche se ancora mitizzato, avviene nell’ottocento, ma solo nel novecento - e negli ultimi decenni in particolare - si è tornati nuovamente ad apprezzare la grandezza di questo periodo su cui stiamo riflettendo quest’anno e che continueremo a conoscere l’anno prossimo.

La memoria degli affreschi del Cavallini era sempre rimasta viva nei secoli sia per ragioni letterarie – ne aveva parlato, ad esempio, Lorenzo Ghiberti nel quattrocento – sia perché era rimasta visibile l’immagine della Madonna che nessuno aveva voluto coprire. Ma è solo nell’anno 1900 che essi furono infine recuperati e successivamente restaurati, così che oggi possiamo vederli anche se solo nelle parti superstiti.

Per immaginare l’effetto che questi affreschi facevano dobbiamo renderci conto che siamo a mezza altezza della controfacciata. La fascia che è visibile è quindi quella centrale, si potrebbe dire la più importante, quella che è la chiave dell’intera composizione che comprendeva tutta l’ampiezza della parete.

È la fascia che presenta al centro il Cristo giudice, quel Cristo dinanzi al quale il mondo intero viene riunito alla resurrezione dei morti per il Giudizio universale. Potete immaginare l’opera completa del Cavallini alla luce, ad esempio, del Giudizio universale di Michelangelo: nella Sistina tutto parte dal Cristo che è disposto come il perno dell’intera composizione. Negli affreschi di Michelangelo egli è in azione con le sue braccia che danno inizio al movimento e tutto rotea intorno a lui. Qui il gesto del Cristo è più composto, ma nondimeno egli è il principale attore: seduto, egli guarda alla sua destra dove saliranno gli eletti e con la sua mano, che reca evidente il segno delle piaghe offerte per la loro salvezza, li invita.

Spesso si ripete che il porre il Giudizio universale sulle controfacciate delle chiese medioevali, di modo che tutti lo avessero presente all’uscita, aveva il significato di spaventare, di ricordare a tutti che il giudizio avrebbe potuto condannarli. Non è difficile accorgersi di come sia ideologico questo modo di presentare la questione.

Nella raffigurazione medioevale del Giudizio universale, in realtà, solo un quarto della composizione, il quarto in basso a destra, rappresenta i dannati. I tre quarti restanti – cioè la parte maggiore dell’affresco - annunziano invece la salvezza, mostrando che la fatica dell’uomo sulla terra non è inutile, perché Dio farà giustizia al povero ed a colui che è trattato ingiustamente e premierà coloro che amano. Il Giudizio universale non solo non vuole innanzitutto spaventare, ma anzi vuole annunziare che per i peccatori c’è speranza.

Il nostro tempo ha smesso tragicamente di presentare nelle chiese le immagini del giudizio non perché ha vinto la paura, ma perché ha perso la speranza! Opere come questa del Cavallini ci ricordano che solo se Dio farà giustizia, solo se la storia non è l’ultima parola sulla vita del mondo, allora chi è trattato ingiustamente non avrà torto “a torto” in eterno!

Se non esiste una parola ulteriore, quella della resurrezione e del giudizio di Dio che punisce i cattivi e premia i buoni, allora chi è morto da sconfitto, è sconfitto in eterno e non avrà mai giustizia. Gesù, invece, ha annunziato che alla fine dei tempi “molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi!”. Possiamo allora correggere l’affermazione abituale, dicendo che il Giudizio universale sulle controfacciate medioevali è un chiaro invito alla fiducia ed alla speranza e vuole comunicare la certezza che la vita è preziosa e che per questo Dio farà giustizia.

Nell’affresco del Cavallini Gesù è rappresentato all’interno di una mandorla, cioè come pienamente appartenente all’eternità. Si noti, però, che egli è il Cristo incarnato, che mostra le sue piaghe in maniera evidente - si vedono chiaramente anche quelle dei piedi. Egli, cioè, non è puro spirito, ma è il Figlio di Dio che si è fatto uomo e a cui il Padre ha affidato il giudizio ed il perdono.

Ha il nimbo con la croce e si vede il suo nome in abbreviazione, ancora con i caratteri greci – c’è il chi greco – che ormai sfumano verso il latino – iota eta sigma sta divenendo IHS, cioè Iesus hominum salvator.

Intorno al Cristo stanno gli straordinari angeli dalle ali variopinte: sono i “suoi” angeli, gli angeli del Cristo, come egli stesso afferma nei vangeli. Tutti lo guardano, lo adorano, lo lodano, amandolo.

Subito a destra e a sinistra si trovano – secondo un’antichissima tradizione iconografica – la Vergine a sinistra e Giovanni Battista a destra, cioè la deesis (termine greco che significa “supplica”, “intercessione”).

Nel Giudizio l’uomo ha come suoi intercessori Maria ed il Battista – e tutti i santi – che pregano per lui. È l’ininterrotta fede della chiesa che afferma che siamo salvati per grazia di Dio e per i meriti di Cristo e di tutti i santi che, amandoci, pregano per noi.

Seguono poi i 12 apostoli, con l’iscrizione del loro nome e con i simboli iconografici del loro martirio che li rappresentano: Pietro, a differenza delle abituali chiavi, ha la croce del suo martirio, Paolo ha la spada, Giovanni il calice avvelenato che secondo la tradizione gli fu offerto e così via.

Più sotto si vedono, non complete, ulteriori raffigurazioni che ci permettono di intuire ancora meglio come doveva essere l’impianto globale. Al centro, ai piedi del Cristo, gli strumenti della passione, ad indicare come avvenne la salvezza dell’uomo ed a ricordare l’amore del Cristo per l’umanità.

Poi, ai due lati, gli angeli con le loro trombe che – secondo il racconto dell’Apocalisse – chiamano i morti alla resurrezione. Più a sinistra si vedono le avanguardie delle schiere dei salvati: prima due figure isolate, poi il gruppo dei martiri, poi quello degli ecclesiastici, poi quello delle donne.

Dall’altro lato gli angeli allontanano i dannati e, sotto di essi, doveva essere certamente rappresentato l’inferno.

Spostandosi, è possibile vedere anche i lacerti ancora più ridotti che si sono conservati degli affreschi che decoravano tutta la navata.

Sulla parete destra della chiesa erano rappresentate le storie dell’Antico Testamento, certamente quelle di Giacobbe ed Esaù. Se ne vedono solo frammenti da due scene: dopo la colonnina tortile che fa da cesura con il Giudizio universale si vede il Sogno di Giacobbe e, più oltre, Giacobbe che carpisce la primogenitura ad Esaù – si vedono anche parte del corpo di Rebecca e le armi di Esaù.

Sono visibili anche lacerti di un’Annunciazione che ci richiama invece ad un ciclo neotestamentario con la vita del Cristo. Infine parte del grande corpo di un San Cristoforo.

Vorrei infine accennare alla interessantissima questione storico-artistica che questi affreschi pongono alla critica. Fino ad un tempo recente – ma così continua ad essere nella vulgata di tanti – la svolta che conobbe l’arte italiana a cavallo del trecento veniva ricostruita in una maniera che si potrebbe definire “fiorentino-centrica”. Sarebbe stato Giotto, immaginato come allievo in tutto e per tutto di Cimabue, che, a partire dalle Storie di San Francesco nella basilica superiore di Assisi, avrebbe impresso una svolta artistica con l’abbandono dei canoni bizantineggianti e l’assunzione di un tratto più aderente alla realtà e più attento all’uomo.

Recentemente è stato il grande critico d’arte Antonio Paolucci[9] a ricordare come, nell’immaginario collettivo, tutto si sarebbe svolto come canta Dante, affermando che Giotto avrebbe sorpassato il suo maestro Cimabue così come il grande Poeta avrebbe sopravanzato Guinizelli, operando in questo modo il passaggio "di greco in latino" (secondo la famosa espressione di Cennino Cennini) e facendo entrare nell'universo della rappresentazione "le attitudini e gli affetti" (secondo l’altrettanto famosa affermazione del Vasari).

Paolucci ricorda giustamente come questa visione debba essere considerata ormai superata, o almeno parziale, soprattutto dopo gli studi della grande Angiola Maria Romanini, proseguiti poi da Alessandro Tomei, Serena Romano e altri.

In questa ricostruzione “fiorentino-centrica” si dimentica Cavallini, si dimentica Arnolfo, si dimentica il periodo romano di Giotto, si dimentica che Assisi è un cantiere commissionato dal pontefice, si dimenticano gli affreschi del Sancta Sanctorum o dell’Aracoeli, si dimentica il Maestro delle storie di Isacco in Assisi e così via.

Ora gli affreschi di Santa Cecilia sono probabilmente anteriori all’anno 1293 – la Romanini ha posto questa data come terminus ante quem, poiché è l’anno in cui fu realizzato il ciborio da Arnolfo ed, a suo avviso, l’affresco della controfacciata non può che esser precedente.

Ma la svolta è ancora precedente. Si pensi solo al fatto che Cavallini aveva già realizzato precedentemente i mosaici di Santa Maria in Trastevere che visiteremo l’anno prossimo. Negli affreschi di Santa Cecilia egli porta avanti la ricerca già evidente nei mosaici, con i quali si esce dalla fissità della pittura precedente, si sfumano e si naturalizzano i colori, cresce di importanza la resa della prospettiva, i volti si fanno sempre più individuati e personali.

Se voi guardate con attenzione nel Giudizio Universale i volti della Vergine e del Battista, gli apostoli - più ancora che quello del Cristo stesso - vi accorgete della novità della pittura di Pietro Cavallini. Questa evidenza è assoluta, anche se non esiste una cronologia certa delle opere al passaggio del secolo e sull’attribuzione di alcuni affreschi importantissimi non c’è un accordo consolidato della critica – si pensi soprattutto alle due scene del cosiddetto Maestro di Isacco in Assisi che sono precedenti alle Storie di San Francesco e molto più “moderne” di esse: come è noto la Romanini ne ha proposto l’attribuzione ad Arnolfo di Cambio, suggerendo che potrebbero essere le sole opere superstiti da lui realizzate in pittura.

Stando così le cose, tutto lascia ritenere che Giotto abbia conosciuto certamente Cimabue, ma abbia poi appreso il suo “rivoluzionario” modo di dipingere proprio qui a Roma, osservando maestri come Cavallini, come Arnolfo, come il Torriti, come il Rusuti e come il Maestro delle storie di Isacco.

Questa consapevolezza che è sempre più acquisita dagli studi moderni modifica sensibilmente il quadro che ci si faceva un tempo nella storia dell’arte. Il “moderno” non nascerebbe semplicemente a Firenze, mentre nel resto d’Italia ed a Roma in particolare, gli stilemi sarebbero ancora antichi e pronti ad essere sorpassati, bensì piuttosto uno dei centri propulsivi di sviluppo sarebbe proprio l’urbe ed, in essa, la committenza papale ed ecclesiale in genere.

Il “moderno” verrebbe allora sperimentato, sostenuto ed incoraggiato proprio dai committenti degli ambienti ecclesiastici del tempo e dal pontefice in prima persona - ricordavo un attimo fa che Assisi è evidentemente una committenza papale!

Purtroppo non abbiamo più gli affreschi completi che Cavallini dipinse qui a Santa Cecilia, così come sono scomparsi i suoi lavori per San Pietro, San Paolo e S. Giorgio al Velabro, così come gli affreschi romani di Giotto – esiste solo, ma pesantemente restaurato, il mosaico giottesco con la Barca di Pietro nel portico della basilica vaticana – per poterli confrontare ancora più precisamente.

Non abbiamo parimenti una certezza sulla datazione precisa delle Storie giottesche di San Francesco ad Assisi che erano generalmente poste, a partire da una notizia del Vasari, fra il 1296 ed il 1305, mentre alcuni propendono per una anticipazione al 1290 circa.

Tutto, però, sembra indicare che Giotto dovette a Roma e ad Assisi incontrarsi da giovane con maestri di alcuni anni precedenti a lui, come Cavallini, come Arnolfo e come il Maestro delle Storie di Isacco e maturare grazie al loro contributo il suo stile che lo avrebbe poi reso famoso. E Roma avrebbe giocato un ruolo nel passaggio alla “nuova” pittura, se non maggiore, certamente almeno pari a quello di Firenze.

La novità di questi autori appare anche da alcuni risvolti tecnici del loro lavoro. Già il Cavallini nei mosaici di Santa Maria In Trastevere aveva utilizzato una nuova tecnica nella composizione delle tessere, come ricorda Vitaliano Tiberia (I mosaici del XII secolo e di Pietro Cavallini in Santa Maria in Trastevere, Ediart, 1996). Egli sostiene che Cavallini inserì un discreto numero di tessere in laterizio, «materiale “povero”, che, per il suo tono cromatico basso non dà luogo a rifrazioni ma ad assorbimento e produce effetti opachi che equilibrano la forte luminescenza delle circostanti paste vitree».

Questo materiale è presente «nei toni di rosso, rosato e giallo nei profili e nei tetti degli edifici, nonché nei calzari dei personaggi. Grazie a questo accorgimento di disegnare nettamente i contorni, le surreali architetture di questi mosaici appaiono ben distinte e non producono l’effetto metafisico che ci si aspetterebbe di ricevere da solidi geometrici facenti parte di una raffigurazione sacra del XIII secolo, non di contenuto apocalittico ma pur sempre a tema sacro» (p. 167).

Negli affreschi di Santa Cecilia, invece, compare per la prima volta la tecnica delle “giornate” nella stesura dell’intonaco su cui dipingere. Fino ad allora gli affreschi procedevano a “pontate”, scendendo cioè via via con i ponteggi e dipingendo rapidamente con la presenza di una numerosa manovalanza che doveva intervenire con il colore prima che il materiale si seccasse.

A Santa Cecilia appaiono invece le “giornate”, cioè la preparazione di zone parietali da dipingere corrispondenti alle diverse figure da rappresentare: la nuova tecnica permette dei campi di intervento più delimitati con una resa pittorica più accurata.

24/ Il chiostro

Il chiostro romanico, come abbiamo già detto, è stato edificato a cavallo fra il XII ed il XIII secolo.

L’abbazia benedettina è strutturata abitualmente intorno alla chiesa che ha un accesso esterno per le persone che vengono da fuori ed uno interno per i monaci che vivono all’interno del monastero. A fianco della chiesa viene costruito così un chiostro che ha un accesso diretto alla chiesa stessa e che riprende la struttura dell’atrio della casa romana. Intorno al chiostro ci sono le aule della vita comunitaria come la sala capitolare dove tutte le mattine finita la preghiera i monaci o le monache si riuniscono intorno all’abate per prendere le decisioni. Sempre intorno al chiostro si dispongono poi le celle delle monache e, più oltre ancora, i luoghi del lavoro.

Il chiostro di Santa Cecilia è molto semplice: è composto da colonnine sulle quali poggia un capitello a stampella che a sua volta sorregge gli archetti. Dal chiostro si accede ad una stanza nella quale sono custodite alcune reliquie tra le quali gli abiti che San Carlo Borromeo indossava quando fu oggetto di un colpo di archibugio che – si disse miracolosamente – lo ferì solo di striscio. Gli aveva sparato uno dei monaci della Congregazione degli Umiliati che egli era stato inviato a rinnovare nell’ambito della Riforma della Chiesa da lui perseguita. L’abbazia di Viboldone era la loro chiesa più importante, ma anche Santa Cecilia fu da loro officiata in due distinti tempi. Gli Umiliati furono poi soppressi anche in seguito all’attentato riguardante San Carlo.

I monaci e monache degli Umiliati tennero il monastero di Santa Cecilia per un primo periodo dal 1344 al 1417. Subentrarono poi prima le terziarie domenicane e poi i frati di Santa Brigida. Nel 1438 tornarono gli Umiliati fino al 1527, quando Clemente VII vi insediò le monache benedettine.

In Santa Cecilia si tennero i funerali di Cristina di Svezia nel 1687 e negli anni 1725-1727 vi dimorò anche la regina d’Inghilterra Maria Clementina Sobieski, moglie di Giacomo Edoardo Stuart, re in esilio perché discendente di Giacomo II, combattuto in patria perché cattolico e costretto ad abbandonare il trono.

Note al testo

[1] Su Simmaco, cfr. La chiesa dopo la svolta costantiniana, di Andrea Lonardo.

[2] Sulla delusione di Agostino in Roma, cfr. Sant'Agostino e Roma, di Andrea Lonardo.

[3] Cfr. anche l'Esort. Ap. Verbum Domini, 83: [la Vita Consacrata] «nasce dall’ascolto della Parola di Dio ed accoglie il Vangelo come sua norma di vita. Vivere nella sequela di Cristo casto, povero ed obbediente è in tal modo una «esegesi» vivente della Parola di Dio. Da essa è sgorgato ogni carisma e di essa ogni regola vuole essere espressione, dando origine ad itinerari di vita cristiana segnati dalla radicalità evangelica».

[4] In Gregorio Magno, Dialoghi, II, XXXI, appare anche la questione dell'eresia: si racconta di un goto ariano di nome Zalla che angariava un contadino anche perché cattolico, fino all'intervento risolutore di Benedetto.

[5] D. Bonhoeffer, Vita Comune e Il libro di preghiera della Bibbia, Queriniana, Brescia, 1997, pp. 59-60.

[6] Cfr. Il desiderio e il piacere in Sant’Agostino, di Andrea Lonardo.

[7] J. Pieper, La luce delle virtù, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999, pp. 7-8.

[8] Dall’omelia del papa Benedetto XVI, nella messa del 24 maggio 2009, in occasione della visita a Cassino e Montecassino.

[9] Giotto come Omero, mistero grandioso e insolubile. Il maestro fiorentino cuore del Trecento pittorico italiano, di Antonio Paolucci.