Bioetica e biodiritto, modelli a confronto sull’idea di «bene», di Francesco D’Agostino
Riprendiamo da Avvenire del 18/9/2011 un articolo di Francesco D’Agostino. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (18/9/2011)
Bioetica e biodiritto sono due sistemi retti da due codici binari diversi, anche se interconnessi e che corrispondono puntualmente (né potrebbe essere diversamente) ai codici dell’etica da una parte e del diritto dall’altra: la bioetica risponde al codice bene/male, il biodiritto al codice giusto/ingiusto. Il codice bene/male ha il suo spazio nella relazionalità interpersonale, il codice giusto/ingiusto lo ha invece nella relazionalità socio-istituzionale.
Da ciò consegue che non tutte le valutazioni bioetiche possono tradursi in valutazioni biogiuridiche, ma solo quelle che hanno un impatto sulla dimensione della socialità istituzionalizzabile (e questo ci spiega perché anche valutando bioeticamente come “male” l’autodistruzione suicidaria non sia possibile ottenerne una criminalizzazione giuridica) e ci spiega altresì perché il diritto possa rendere obbligatorie pratiche sociali di rilievo bioetico (come ad esempio le vaccinazioni) nel nome di un interesse sociale collettivo, al quale non è detto che corrisponda una dimensione di “bene” di tipo personale. Come in bioetica è controversa la determinazione concreta del codice bene/male, così nel biodiritto non può che essere controversa la determinazione del codice giusto/ingiusto.
Sono quattro i paradigmi che si sono affermati in merito: il paradigma liberista che riduce il giusto alla promozione dell’autonomia, il paradigma procedurale che riduce il giusto alla corretta osservanza di protocolli condivisi e il paradigma garantista che lo vede finalizzato alla tutela dei soggetti deboli, il paradigma promozionale che vede nella massimizzazione del giusto la massimizzazione del bene umano sociale in generale.
Il paradigma liberista ritiene che il sistema giuridico non debba imporre valori ai consociati, né meno che mai valori non condivisi, ma debba piuttosto operare per garantire a ciascun consociato la possibilità di maturare la propria autonomia e gestirla liberamente. Il limite di questo modello sta nella sottile contraddizione che lo pervade. Se il fine del diritto è garantire l’autonomia e se l’unico limite giustificato all’esercizio dell’autonomia è il rispetto per l’autonomia altrui, ne segue che il fine reale del diritto non è garantire l’autonomia dei singoli, ma garantire la possibilità generale dei singoli di convivere e di convivere in un sistema sociale giusto, che non dia cioè il potere o il primato ai più forti.
Il paradigma procedurale ritiene che un sistema giuridico giusto sia un sistema governato da regole conosciute e condivise da tutti e che quindi è giustificato che tutti obbligatoriamente rispettino. I limiti di questo modello (che peraltro si rivela molto utile in diversi contesti) sono diversi: dà per presupposto ciò che non si può presupporre, cioè che tutti i consociati partecipino davvero all’elaborazione delle regole sociali e che le regole sociali siano realmente condivise da tutti quei consociati, che sono poi chiamati a rispettarle. Inoltre, il modello non tiene conto che molte decisioni di rilievo socio-istituzionale, in specie in ambito biogiuridico, coinvolgeranno gli interessi, le spettanze e soprattutto i diritti delle generazioni future, che per definizioni non potranno mai essere consultate in merito a scelte che incideranno sulla qualità della loro vita.
Il terzo modello, che si unisce e si fonde col grande tema, tipicamente moderno, dell’equità nella salute, vede come compito prioritario del biodiritto la tutela dei soggetti deboli. Emotivamente coinvolgente, il modello riapre la grande questione bioetica e biogiuridica dell’aborto, dato che è innegabile che la vita prenatale sia la forma di vita caratterizzata dalla massima debolezza.
Il quarto modello va letto come una dilatazione del precedente e come una esplicitazione della logica solidaristica che non solo compare in pressoché tutte le costituzioni più avanzate del mondo contemporaneo, ma che caratterizza altresì le missioni umanitarie che costituiscono le espressioni più significative di alcune delle dinamiche internazionali contemporanee.
Mentre il terzo modello impegna il diritto a individuare situazioni di fragilità sociale e a reagire contro di esse, il quarto modello lo impegna invece a promuovere il bene umano socio-relazionale. L’adesione a questo modello implica la serena e fattiva fiducia nella possibilità di individuare un bene umano oggettivo.
Per questo molti ritengono che un sistema biogiuridico fondato sul relativismo dei valori sia un controsenso, perché il relativismo può essere un buon fondamento per un individualismo tollerante, ma è incapace di fondare un sistema che veda il bene nella relazione interpersonale più che nella soddisfazione autoreferenziale e soggettivistica.
È possibile fondare il biodiritto sul bene umano oggettivo? Ci conforta, nel rispondere affermativamente, l’esperienza internazionale più recente. Citiamo soltanto gli sforzi dell’Unesco, che dopo aver approvato l’Universal Declaration on the Human Genome and Human Rights nel 1997 e l’International Declaration on the Human Genetic Data nel 2003, ha promulgato nell’ottobre del 2005 la Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti dell’uomo. Come nel caso dei diritti umani, controversi, ma accomunanti, anche nel biodiritto ciò che ci unisce è più di ciò che ci divide.