Lévinas, il diario della prigionia, di Edoardo Castagna
Riprendiamo da Avvenire del 17/9/2011 una recensione di Edoardo Castagna a Emmanuel Levinas, Quaderni di prigionia e altri inediti, Bompiani. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Su Lévinas e la Shoah, vedi su questo stesso sito le schede di presentazione nella mostra Voci dalla Shoah a Dall'esistenza all'esistente e Difficile libertà e Alcune riflessioni sulla filosofia dell'hitlerismo (scritte da Pier Luigi Quatrini).
Il Centro culturale Gli scritti (17/9/2011)
Più che un libro, una miniera. Dalla quale, scavando, esce tanto terriccio, ma anche parecchi diamanti di rifulgente splendore. Sono gli inediti di Emmanuel Lévinas – anzi, “Levinas”, come scrive l’editore con civetteria filologica riprendendo, al pari dell’originale francese di Grasset & Fasquelle, la grafia originaria lituana (ma allora perché non anche “Emanuelis”?) – raccolti sotto il titolo Quaderni di prigionia e altri inediti con prefazione di Jean-Luc Marion. Si tratta della trascrizione critica dei sette quaderni di appunti composti dal filosofo francese durante gli anni in cui fu internato dai tedeschi, durante la Seconda guerra mondiale; ebreo, si salvò in quanto all’epoca membro dell’esercito della République, anche se fu soggetto a un regime di detenzione separato e più duro prima a Rennes e poi in Germania.
Nei variegati appunti clandestini c’è un po’ di tutto. Intuizioni filosofiche e schemi logici che negli anni successivi sarebbero confluiti nelle sue opere edite, in particolare Dall’esistenza all’esistente (1948). Riflessioni sulla vita in prigionia, sulla letteratura, sulla storia.
Elenchi di nomi e indirizzi. Piani di lavoro. Citazioni. Note di lettura. Appunti diaristici. Ma particolarmente suggestivi sono gli appunti dedicati a un’ipotesi di romanzo sulla quale Lévinas lavorava, in quell’epoca in cui la filosofia aveva trovato proprio nel romanzo una propria forma espressiva: soprattutto in Francia, da Sartre a Camus. Quello di Lévinas avrebbe dovuto intitolarsi Eros, oppure Triste opulenza, e avrebbe dovuto “disvelare” il mondo dell’ufficialità, mostrando nella disfatta della Francia «la nudità umana dell’assenza di autorità». Il filosofo torna più volte, anche a molti mesi di distanza, sui suoi appunti letterari, a volte anche stravolgendo ambientazioni, personaggi, trama; il lavoro non vedrà mai la luce, rimanendo limitato a questa serie di tentativi.
Più organica invece la seconda parte della raccolta, gli Scritti sulla prigionia e l’Omaggio a Bergson. Sono testi composti poco dopo il rientro di Lévinas dalla prigionia, nel 1945, e i primi riflettono sulle recenti vicende dell’autore, al tempo stesso individuali e universali. S’impone uno sguardo distaccato – «I prigionieri non sono stati milioni di santi tesi verso la perfezione, milioni di saggi in meditazione sul passato e sull’avvenire, ma milioni di esseri umani che hanno vissuto un presente eccezionale» – e cerca di estrarre da quella particolarissima condizione un insegnamento generale: «La mano sacrilega del sorvegliante poteva sfogliare finanche le lettere e come penetrare nell’intimità dei ricordi. Ma abbiamo scoperto che non se ne moriva. Abbiamo imparato la differenza tra avere ed essere. Abbiamo imparato quanto poco spazio e quante poche cose occorrano per vivere. Abbiamo imparato la libertà».
Ne L’esperienza ebraica del prigioniero riflette sull’eccezionale condizione degli ebrei militari, paradossalmente protetti nel Terzo Reich dalla Convenzione di Ginevra eppure comunque segregati rispetto agli altri prigionieri di guerra. «Abbiamo avuto il tempo – ricorda – di prestare attenzione alla nostra infelicità, di interrogarci. Alcuni tentarono di andare più lontano. risospinti verso il loro giudaismo, vi cercarono rifugio».
Lévinas stesso avviò allora la sua riflessione sull’ebraismo, una delle colonne portanti del suo pensiero: «Che cos’è dunque il giudaismo – in cosa è diverso rispetto ad altre religioni piene anch’esse di insegnamenti morali e di precetti di bene – se non, a partire da Isaia, da Giobbe, l’esperienza del rovesciamento possibile – prima della speranza, in fondo alla disperazione – del dolore in felicità».
Immediatamente s’affaccia il raffronto tra ebraismo e cristianesimo, che allora giudica interamente «contenuto» in quella «scoperta» compiuta dal primo, «che gli è ben anteriore». È, questo, un altro dei temi portanti della sua filosofia, sulla quale ritornerà a lungo anche in rimando proprio all’esperienza della Shoah. In una conferenza del 1987, Ebraismo “e” cristianesimo (edita in italiano da Jaca Book in Nell’ora delle nazioni, 1988), ricorda infatti: «È in questo tempo che mi si mostrò chiaramente ciò che voi chiamate carità e misericordia. Ovunque appariva una tonaca nera c’era rifugio».