Raffaello e il caso della «Madonna Sistina», di Maurizio Cecchetti e Dopo cinque secoli riunite due icone della cristianità, di Marco Bussagli
Riprendiamo da Avvenire del 28/8/2011 due articoli di Maurizio Cecchetti e Marco Bussagli. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Su Raffaello, vedi su questo stesso sito le sezioni Roma e le sue basiliche e Arte e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (8/9/2011)
1/ Raffaello e il caso della «Madonna Sistina», di Maurizio Cecchetti
Nel 1898, Sergej Bulgakov – il teologo russo che all’epoca si interessava di economia e si professava marxista – si trovò a Dresda vis-à-vis con la Madonna Sistina di Raffaello. Da quell’incontro cominciò, probabilmente, anche la sua conversione religiosa, che maturò definitivamente soltanto nel 1918, in piena rivoluzione bolscevica. Ecco che cosa scrive Bulgakov nelle Note autobiografiche ricordando quel momento:
«Là, gli occhi della Regina dei cieli, che sale al cielo con il suo divin Figlio, mi hanno guardato. C’era in quegli occhi una forza infinita di purezza e d’immolazione volontaria, la prescienza della sofferenza e l’accettazione volontaria di questa sofferenza. La stessa destinazione al sacrificio si leggeva negli occhi del Bambino, pieno di una sapienza che non è di quell’infanzia... Ho perso i sensi, la testa mi girava, dai miei occhi scendevano lacrime dolci e amare insieme, che fecero sciogliere il ghiaccio del mio cuore, era come se un nodo vitale si aprisse improvvisamente. Non era un turbamento estetico, no; era un incontro, una nuova conoscenza, un miracolo».
Con la conversione, il teologo conobbe anche l’esilio, nel 1923 fu cacciato dalla grande madre Russia e lungo l’itinerario che lo condurrà in Francia (dove resterà fino alla morte avvenuta nel 1944), si ritrovò ancora a Dresda. Fu l’occasione per rivedere il quadro di Raffaello.
Può sorprendere leggere quale fu la sua reazione venticinque anni dopo il primo incontro con la Madonna Sistina : «Il mio cuore rimase insensibile: si sarebbe dunque raffreddato nel corso della mia lunga vita? No, non è questo. Non vi fu incontro, non ho incontrato ciò che aspettavo. E perché tacere e fare il furbo: non ho visto la Madre di Dio. Ciò che qui c’era, è la bellezza, solo la stupenda bellezza umana, con la sua equivocità dal punto di vista religioso e senza la grazia».
La sua attenzione, ora, è soltanto per certi elementi esteriori: gli angioletti troppo pasciuti, la vanitosa acconciatura e postura della santa Barbara... Precisando questa sensazione Bulgakov scrive: «Una cosa era chiara per me fin dalla prima occhiata: quella non era un’immagine della Madre di Dio, della purissima Semprevergine; non era un’icona. Era un dipinto, opera di un genio sovrumano, sì, ma di tutt’altro significato e contenuto di un’icona. Si avvertiva la suprema rivelazione di carattere femminile del dono di sé, ma umano, soltanto umano... ciò che trionfa qui è la femminilità, la donna, il sesso. La perpetua verginità è libera dalla femminilità perché è al di sopra del sesso».
Il “voltafaccia” di Bulgakov – vera metanoia – costituisce una domanda rivolta anche a noi: quel dipinto di Raffaello che lungo quasi tre secoli ha suscitato le reazioni più diverse, soprattutto negli autori tedeschi e russi che hanno preso di volta in volta posizioni che oscillano dal romanticismo al realismo, è un quadro in sospetto di paganesimo, come sembra insinuare Bulgakov? La critica non nasceva, per così dire, da un difetto di sguardo, ma da un pregiudizio verso l’Occidente, connaturato alla cultura russa ottocentesca, l’Occidente moderno (neopagano e umanista) nato dal Rinascimento italiano.
Alain Besançon – ne L’image interdite. Une histoire intellectuelle de l’iconoclasme – vede nella teologia dell’icona una forma di violenza che rasenta l’iconoclastia quando si afferma come rifiuto in blocco della pittura rinascimentale in quanto espressione dell’immanentismo umanista: questa violenza «deriva dal sentimento intimo che l’icona contenga realmente l’immagine divina e che nient’altro vale la pena di essere rappresentato. Dopo questa visione totale, per quale ragione accondiscendere a guardare degli spettacoli inferiori?». Secondo il pensatore francese «noi tocchiamo qui la hybris dell’icona, che rientra nella hybris del bizantinismo».
Sempre Besançon cita un parallelo di Uspenskij (Saggi sulla teologia) tra la Madonna del granduca di Raffaello e una icona moscovita: «L’immagine di Raffaello non è che umana; essa è carnale e sentimentale. Il soggetto sacro non è che un pretesto per l’espressione dei propri sentimenti e delle idee del pittore. Tutto ciò che questa immagine ci comunica sulla Madre di Dio è che ella era una donna, e del Bambino divino che egli era un bebè in nulla diverso dagli altri bambini. L’icona, al contrario, per il suo simbolismo appropriato, ci comunica l’insegnamento della Chiesa sull’incarnazione di Dio e la Maternità divina. Il Bambino non è un bebè come gli altri, la sua posa maestosa, il suo nimbo, il rotolo nella sua mano, la sua benedizione, il suo abbigliamento è accurato, tutto questo ci rivela la Saggezza divina incarnata».
È tuttavia significativo che Pavel Florenskij, considerando Raffaello un pittore estatico definisca le sue Madonne “icone rivelate”. Sarà utile allora soffermarsi su qualche esempio della copiosissima letteratura critica relativa alla Madonna Sistina. L’opera venne acquistata nel 1754 dal principe Augusto III di Sassonia.
Prendiamo questa data come limite a quo della sua fortuna critica, anche se Vasari l’aveva già definita nel 1550 «cosa veramente rarissima et singulare». Il primo a vedere la Madonna dopo il suo ingresso nella Gemäldegalerie di Dresda fu, a quanto pare, lo storico Johann Joachim Winckelmann, il padre dell’estetica neoclassica, che la considera «piena d’innocenza e al tempo stesso di grandezza più che femminile», e riferendosi al Bambino aggiunge che era «al di sopra dei bambini comuni, per uno sguardo dal quale, attraverso l’innocenza dell’infanzia, si sprigiona un raggio della divinità».
Ma per quanto riguarda le reazioni che il quadro suscitò nella cultura tedesca conviene rileggere il dialogo che August Wilhelm Schlegel pubblicò nel III fascicolo di “Athaeneum“ nel 1799 inscenando la visita di tre amici – Louise, Waller e Reinhold – alla pinacoteca dov’è conservato il quadro di Raffaello. Il dialogo, come ammise lo stesso Schlegel, non era opera sua, ma della moglie Caroline, e rappresenta il primo manifesto teorico della pittura romantica. Dopo alcune divagazioni estetiche, il dialogo si sposta sulla qualità effettivamente “divina” della Madonna di Raffaello. Naturalmente, lo sfondo del discorso è dato dalla memoria del paganesimo antico che aleggia sulla cultura tedesca dell’epoca come ideale neoclassico (in aperto confronto con l’estetica romantica).
Louise inquadra la questione: «Non posso definire Maria una dea. Il bambino che tiene in braccio, è un dio: poiché nessun bambino fu simile a questo. Lei invece, è solo la massima espressione della formazione umana e la sua trasfigurazione ha origine nel fatto che tiene suo figlio così quietamente fra le braccia, senza emozioni visibili di estasi e compiacimento, senza orgoglio e senza umiltà».
Sulle qualità specifiche del Bambino osserva: «Non di stirpe delicata, ma occhio e bocca dominano il mondo. La bocca è particolarmente seria, molto arcuata, le estremità delle labbra sono piegate verso il basso». Questa analisi fisiognomica culmina nell’osservazione di Louise che il bambino «sia già un uomo» e intende dire «che non è una maturità precoce, bensì sovrumana» la sua.
L’analisi affidata alla voce di Louise si addentra poi nell’aspetto della figura della Vergine e ne sottolinea la distanza da un certo archetipo materno che si era imposto nell’iconografia della Pietà: «Non v’è raffigurazione dell’amore materno, neppure al fine di conquistarci. Maria non tiene il bambino con gesto affettuoso, il bambino non dimostra di accorgersi della presenza della madre. Lei è là per sorreggerlo, Dio lo ha deposto fra le sue braccia: in questo sacro dovere appare al mondo adorante grandiosa, come nei cieli dove governa e dai quali è nuovamente discesa. Non ha passioni, e il suo occhio limpido significa far tacere le passioni».
E mentre Waller provoca Louise osservando: «Correte il rischio di diventare cattolica», ecco che in lei riemerge il sentimento “ancestrale” che la unisce all’ideale antico: «Come, di quando in quando, pagana. Non è un pericolo, se Raffaello è il sacerdote», e rivolgendosi all’altro interlocutore chiede: «Dite, Reinhold, l’intero dipinto non è forse costruito come un tempio? Le due figure genuflesse a destra e a sinistra costituiscono con le linee di quelle centrali una vera simmetria architettonica».
Ma l’affermazione conclusiva di Waller è quella che illumina il problema antropologico ed estetico che ritroviamo anche in Winckelmann: «Con la Riforma, il cristianesimo rinnovato, fu separato dal suo venerabile passato, e andò distrutto dietro di esso un mondo mitico. In un certo modo, si ripeté ciò che era stata la sostituzione del paganesimo con il cristianesimo originario».
Questa nemesi storica, in realtà, esalta i punti del dissenso che una parte della cultura russa esprimerà verso l’immagine di mondo e di uomo che si potrebbe derivare dal dipinto di Raffaello, in particolare su quel limen che riporta in vita le suggestioni del paganesimo antico. La conversazione fra i tre di “Athenaeum”, del resto, era iniziata con uno scambio di battute sul corpo e la veste-velo nella scultura greca – che occupò la riflessione di Winckelmann e ritornerà un secolo e mezzo dopo nella Gradiva di Jensen che Aby Warburg leggerà come analogo letterario delle immagini artistiche rinascimentali che nel movimento delle vesti celano la rinascita del paganesimo antico –, secondo lo stereotipo classico enunciato da Plinio il Vecchio Graeca res nihil velare: non nascondere nulla del corpo era ideale greco di verità e di bellezza umana, osserva Waller nel dialogo.
In Russia il quadro di Raffaello ebbe una risonanza anche maggiore. Il giudizio critico di Bulgakov, che abbiamo visto all’inizio, ha un prologo significativo: quattro anni dopo la sua prima visita, mentre ancora svolgeva gli studi di economia, Bulgakov decise di recarsi da Tolstoj per comunicargli l’emozione provata davanti al dipinto, ma lo scrittore ebbe una reazione quasi irritata. Tolstoj ammise di aver sostato a lungo davanti al quadro, ma di non aver provato particolare trasporto per questa Madonna che gli apparve piuttosto come una donna comune: «L’ho consumata con gli occhi, non ci ho cavato nulla. Una ragazza ha partorito un bambino, tutto qui, che c’è di strano?».
Bulgakov se ne risentì amaramente e giudicò la reazione di Tolstoj penosa. E scrivendo nello stesso anno, 1902, al pittore Viktor Vasnecov, non può usare parole meno forti di queste per la Madonna Sistina: è «espressione ideale di un’altezza e santità irraggiungibile, in questo senso risulta essere un’icona […] è un atto di conoscenza di Dio».
Il teologo Pavel Florenskij all’inizio degli anni Venti, riferendosi alla Visione di Ezechiele di Raffaello, precisava: «Come in molti altri [dipinti] di Raffaello c’è l’equilibrio di due principi. Quello prospettico e quello non prospettico, corrispondenti alla coesistenza pacifica di due mondi, di due spazi […] una allusione a questa sua particolare spazialità, Raffaello la fa nella Madonna Sistina per mezzo di alcuni tendaggi rialzati». E il tema della tenda sollevata richiama quello della Madonna del Parto di Piero della Francesca e meriterebbe un discorso a sé per le notevoli implicazioni teologiche: com’è stato notato, lo squarcio del velo del tempio, considerando Eb 10,20 che accosta velo e carne, si riflette nel quadro di Piero nell’immagine di Maria come arca Dei.
Ma in Raffaello, che accentua la messinscena con gli angioletti in basso che sembrano quasi spettatori di quello che sta accadendo, questo dispositivo assume una valenza estetica precisa. Hans Belting ha colto con precisione questo mutamento prospettico che sottomette la sacralità dell’immagine non più soltanto al “valore cultuale” ma anzitutto al “valore espositivo”, per riprendere una celebre distinzione di Walter Benjamin: «È perfettamente lecito – scrive Belting – interpretare la tenda come appartenente all’immagine, questa non è una novità.
Che cos’è in quest’epoca la tenda che, posta davanti a un’immagine di culto, la copre e la scopre trasformandola in una apparizione rituale? Al riguardo disponiamo della testimonianza di un illustre contemporaneo, Leonardo, che motiva la particolare nobiltà della pittura con il rango dell’immagine di culto, che raggiungeva il culmine del suo effetto appunto con l’evento dello scoprimento: quando le preziose tende erano sollevate, la divina “idea” appariva come vivente. Con un profondo gioco di parole, Leonardo l’identifica con la persona celeste (Iddio) nell’ideale della bellezza, unificando così religione ed arte.
La tenda di Raffaello è dipinta e perciò fa parte dell’idea dell’immagine, e non esiste al di fuori della pittura. Ma dov’è l’immagine, che essa potrebbe coprire e scoprire?... La tenda dunque è sollevata davanti a un’immagine, che in verità ne è l’idea: essa diventa trasparenza di una realtà altra: la visibilità è il simbolo di una bellezza invisibile».
E a questo proposito Daniel Arasse, in un saggio del 2003, ha notato sulla stessa falsariga che nella Madonna Sistina culto ed esposizione coesistono con il dispositivo stesso dell’immagine così che «la revelatio cristiana, si pone come accesso del divino alla visibilità».
Prodromo della riflessione su Raffaello per i russi resta Wackenroder che nel libro Sfoghi del cuore di un monaco innamorato dell’arte – uscito in prima edizione nel 1797 a Berlino e poi ripubblicato due anni dopo con vari rimaneggiamenti di Johan Ludwig Tieck – parla della “Visione di Raffaello”, ovvero un sogno che, come scrisse lo storico Ladislao Mittner, diventerà un topos del Romanticismo tedesco ed europeo. Wackenroder attribuisce a Raffaello queste parole: «Essendo carestie di belle donne, io mi servo di una certa idea che mi viene alla mente». Mittner commenta il passo con una riflessione che è utile rileggere perché illumina il problema attorno al quale ruota anche il dibattito sulla Madonna Sistina.
«Questa dichiarazione – spiega Mittner – riguardava la paganissima Galatea. Wackenroder la riferisce con la massima naturalezza alla Madonna. È questo il primo passo: rivoluzionario e decisivo del classicismo grecofilo verso il romanticismo... La Madonna è sostituita a Venere, il Medioevo cristiano alla pagana grecità, la leggenda religiosa al mito antico».
E infatti la “Visione” di Wackenroder è decisiva per la cultura russa successiva: nel 1820 il poeta decabrista Vil’gel’m K. Kjuchel’becher confessa l’emozione provata davanti al quadro: «Un misterioso tremore ha invaso la mia anima! Dinanzi a me era una visione non terrena: una celeste purezza, una eterna, divina quiete era sulla fronte del Bambino e della Vergine: essi mi hanno riempito di timore: posso guardare a loro io, schiavo delle passioni e dei desideri?».
Entrano in gioco due categorie estetiche fondamentali della modernità del XVIII e XIX secolo: la meraviglia e il timore suscitati dalla bellezza, il piacere e il dolore si fondono nello sguardo. È l’estetica del sublime, che ha in Raffaello e in Michelangelo i poli calamitanti di tensioni confliggenti eppure complementari: il senso della terribilità nell’immaginario di Michelangelo è pari all’estasi della carne nell’invenzione di Raffaello.
Ma torniamo alle reazioni degli intellettuali russi davanti alla Madonna di Dresda: «I suoi occhi [della Vergine] non brillano; vi è in essi una speciale, profonda oscurità; uno sguardo che non punta in nessun luogo ma è come se vedesse l’immenso. Essa non sostiene il Bambino, con le sue braccia docilmente e liberamente gli serve da trono; e in realtà questa Madre di Dio altro non è che il trono animato di Dio, che conosce la grandezza di colui che siede» (Vasilij A. Zukorskij, 1906); «Nelle braccia porta un misterioso bambino che verrà a un certo punto a giudicare il mondo, ed essa sa il momento di questo evento. Quale saggezza non umana del suo volto, quale pensiero…» (Pavel V. Annenkov, editore di Puškin); «Nel suo sguardo [della Madonna] c’è qualcosa di severo, di contenuto, che non è benevolenza e misericordia, ma nemmeno orgoglio, disprezzo, ma, invece di tutto questo, è una sorta di condiscendenza non dimentica della propria grandezza. È – si potrebbe dire – l’idéal sublime du comme il faut... Nella posizione del bambino, negli occhi spalancati si vedono l’ira e la minaccia, e nel labbro inferiore sollevato l’orgoglioso disprezzo. Non è questo il Dio del perdono e della dolcezza, non è l’agnello che salva dai peccati del mondo, è il Dio che giudica e punisce» (Vissarion G. Belinskij che, secondo quanto riferito da Annenkov, davanti alla Madonna Sistina «si spaventò»); «La Madonna di San Sisto è la Madonna dopo il parto, è sgomenta... perché ella è una donna-madre e non è la sorella di Iside, di Rea o di qualche altra divinità femminile» (Aleksandr I. Herzen, che nel 1852 rifiuta l’incomparabilità tra Madonna e Iside sostenuta da Hegel nelle Lezioni di estetica); «Il sorriso delle sue labbra pallide [di Gesù] era pieno di una infinita tristezza, che nulla aveva di fanciullesco, e di un grande dolore» (Dostoevskij in Delitto e castigo); «Da un lato la bellezza e l’amore... dall’altro la sofferenza inseparabile dall’amore» (A. V. Lunacarskij, che concilia il mito di Venere con la Madonna Sistina).
Dal dibattito letterario sulla Madonna di Dresda viene alla luce il dramma della maternità sacrificale di Maria e la forza con cui ella porta il peso della nascita e della morte del figlio, vissute dalla madre ogni volta che guarda negli occhi il proprio bambino, ciò che Goethe intuì profondamente quando nella poesia Einer hohen Reisender definisce Maria «Urbild delle madri; regina delle donne».
Ma sarà Schopenhauer, all’età di ventisette anni, a esprimere fino in fondo la radicalità di quel sacrificio nel componimento Sulla “Madonna Sistina”: «Ella lo porge al mondo: ed egli guarda atterrito / Nella caotica confusione dei suoi orrori, nella selvaggia frenesia del suo furore, / Nella follia mai sanata del suo agitarsi, / Nel dolore mai acquietato dei suoi tormenti, / Atterrito; eppure i suoi occhi irraggiano / Pace e fiducia e splendore di vittoria / Già annunciando l’eterna certezza della redenzione».
2/ Dopo cinque secoli riunite due icone della cristianità, di Marco Bussagli
Due capolavori a confronto: è il dono che Benedetto XVI farà alla propria terra di nascita alemanna portando con sé, in occasione della prossima visita pastorale, la pala della Sacra conversazione, meglio nota come Madonna di Foligno. che si ritroverà a “dialogare” con l’altra celeberrima tela di Raffaello, la Madonna Sistina, conservata presso la Gemäldegalerie di Dresda. Naturalmente, l’evento si carica di ovvi significati religiosi e politici che si possono riassumere nell’intento di voler riavvicinare due grandi popoli e due civiltà che si divisero un tempo nel nome di Lutero.
Allora, le due pale d’altare possono considerarsi la metafora di questa situazione dal momento che entrambe furono realizzate nella bottega del grande artista per esser poi divise dalla Storia, senza più incontrarsi fino a questo straordinario evento. Eppure tanti sono i punti in comune fra i due capolavori, a cominciare dal fatto che sono opere dello stesso autore, concepite a breve termine l’una dall’altra. La prima, la cosiddetta Madonna di Foligno, fra il 1511 ed il 1512 per Sigismondo de’ Conti, segretario domestico di Giulio II (1503-1513) e prefetto della Fabbrica di San Pietro. La seconda, invece, fu dipinta fra il 1513 ed il 1514, come ritiene la gran parte della critica, per il convento dei monaci neri di San Sisto a Piacenza, come testimonia Giorgio Vasari.
Le analogie, però, non si fermano qui. Prima di tutto gli angeli. Non solo quelli spiritosi, birichini, posti a suggello dell’epifania divina del Bambino offerto dalla Madre nella Madonna Sistina, che hanno un precedente sicuro in quello reggi-cartiglio della Madonna di Foligno, ma anche quelli che si nascondono nelle forme tondeggianti e spumose delle nuvole a cumuli di entrambi i dipinti. È un’aria propizia, stracolma di angeli, quella dipinta da Raffaello in entrambi i quadri, che rinnova e riprende un’antichissima tradizione iconografica secondo cui gli angeli nascono dalle nuvole e, forse, lo sono esse stesse.
Anche le soluzioni adottate per il manto della Vergine sono vicine. La prima, quella della pala di Foligno, rimanda direttamente all’iconografia della Madonna della Misericordia che copre gli uomini. Qui è Gesù, ancora bambino, che fa un gesto umanissimo e quasi si nasconde sotto il manto della madre, come facevano i bimbetti di un tempo che s’infilavano fra le gonne della mamma. L’altra, offre Gesù al mondo, «a miracol mostrare», si potrebbe dir richiamando Dante. Allora, il manto resta vuoto e amplifica la bellezza di Maria, con una soluzione compositiva che non era estranea né alle ninfe né alle divinità pagane ed era ben nota agli artisti del Rinascimento.
Per questo si tratta di due “icone” della cristianità e dell’arte di Raffaello, note in tutto il mondo, di sconvolgente bellezza che è giusto che si ritrovino dopo cinque secoli da quando uscirono dalla bottega di Raffaello. Poi, ciascuna delle due opere ha la sua storia. La prima, la più antica, fu commissionata come ex-voto da Sigismondo che si era visto risparmiare la propria abitazione di Foligno da un bolide il quale, dal cielo, aveva distrutto mezzo paese. Sullo sfondo è rappresentato l’episodio, con il meteorite che pare una goccia di fuoco e i modi pittorici che paiono appartenere più a Dosso Dossi che a Raffaello (ma la diatriba è ancora aperta). L’altra, la Madonna Sistina, fu acquistata nel 1754 da Augusto III di Sassonia che ne fece il vanto della sua collezione. Trafugata in Russia durante il secondo conflitto mondiale, con la pace, fece ritorno a Dresda per la gioia della nazione tedesca.