Iniziamo con un’introduzione all’Apocalisse. Se volete approfondire, trovate su questo sito i testi
del ritiro che abbiamo fatto su questo argomento, Apocalisse,
l'ultima parola della Bibbia: la sconfitta del male, alla sezione Approfondimenti. E’ un mio articolo
con le foto degli affreschi della cattedrale di Anagni, che fanno vedere alla maniera occidentale, come noi
abbiamo trascritto visivamente queste cose. Vedremo oggi anche un brano che non avevamo commentato, quello del
“grande segno” della donna che partorisce il figlio che viene subito attaccato dal drago. Il figlio
viene però rapito al cielo e la donna viene protetta nel deserto. Vedremo cosa significa. Prima
però facciamo una breve sintesi.
Innanzitutto, mi sembra una cosa semplicissima, ma importante, ricordare che l’Apocalisse è un
libro cristiano. Sembra un’affermazione banale, ma è una chiave di lettura fondamentale. Sapete
che l’Apocalisse parla di cose terribili, di guerre, della fame, della peste, della morte, del peccato,
dell’omicidio, ecc. L’uomo è molto interessato, quasi morbosamente, a questi temi
dell’Apocalisse, perché conosce il dolore che è insito in queste cose. Ogni persona che ha un
minimo di sensibilità, di cuore, di intelligenza, ha sempre cercato in questo libro una risposta ai grandi
problemi della vita. Che cosa dobbiamo pensare quando una guerra o un terremoto uccidono centinaia, migliaia di
persone, distruggono città intere, quando il terrorismo o la guerra causano danni gravissimi? Ma, per
capire come l’Apocalisse affronta questi temi, mi sembra importante partire da una parola che
l’Apocalisse non usa: l’ “anticristo”. Voi sapete che la parola
“anticristo” è inventata dall’evangelista Giovanni - non era mai esistita prima di lui,
e non è usata nemmeno nell’Apocalisse ma nelle lettere di Giovanni. Significa che il male,
nella sua manifestazione più grande e terribile, è l’opposizione a Cristo ed al
cristianesimo! E’ male la guerra, è male la fame, è male la morte, ma il male nella sua
forma più terribile è il rifiuto di Cristo, anzi le altre espressioni del male hanno origine,
misteriosamente, proprio nel rifiuto del Figlio di Dio. Questo è annunciato dall’Apocalisse! Non
solo: il libro di Giovanni annuncia che il male sarà sconfitto, proprio perché Cristo lo
vince. Ecco perché l’Apocalisse è un libro cristiano! E’ un invito ad essere
cristiani. E non percepire questo, vuol dire non aver capito niente dell’Apocalisse! Nessuno aveva potuto
usare questo termine – “anticristo” - prima di Gesù Cristo, perché appunto il
Cristo non era ancora conosciuto, perché non si era ancora manifestato. Il male di cui parla
l’Apocalisse è il male che noi viviamo sempre, il male della morte, della malattia, del tradimento
delle persone care, ma è un male che manifesta il suo odio più forte quando si mette contro
Gesù Cristo. La parola anticristo vuol dire proprio questo: uno che è arrabbiato con Gesù
Cristo. L’Apocalisse ci fa comprendere che il problema del male richiede molta meditazione.
Facciamo subito un esempio dell’incomprensione del messaggio del nostro libro: l’Apocalisse è
letta, spesso, in maniera molto superficiale, come da alcuni giovani del rock satanico, affascinati dal numero
666. In realtà non sanno quello che dicono perché non si accorgono che l’aspetto satanico non
è semplicemente il male, il maligno, il diavolo, ma la cosa più dolorosa, più dura, è
accettare la possibilità che esista qualcuno che voglia del male a Cristo e voglia del male ai suoi
discepoli.
Al ritiro sull’Apocalisse vi ho fatto riflettere su questa espressione bellissima di S.Agostino che dice:
“l’amore non è amato”. S.Agostino era colpito da questa cosa: come è
possibile che Colui che muore per noi, che ci ama a tal punto da dare la vita per salvarci, sia rifiutato o sia
ignorato? Sapete che in occidente, la forma dell’ateismo corrente è l’indifferenza, la
sufficienza. A me bastano le mie idee, cosa mi importa di andare a Messa, leggere il Vangelo, cercare Dio?
Come è possibile che l’amore di Dio in Cristo sia trascurato? Uno legge qualsiasi libro del mondo,
fa qualsiasi ricerca, ma non si interessa a Gesù Cristo! Scherzavo sul fatto che alcuni genitori vanno in
crisi quando il figlio viene lasciato dalla ragazza: “Ma come è possibile che il suo amore non sia
capito!”. Io dico loro: “Tranquilli, date un po’ di coraggio, di forza a questi ragazzi”.
La domanda più seria non è: “Come è possibile che il mio amore non sia capito?”
Questo, con tutti i peccati che abbiamo, con tutti i limiti, è anche comprensibile ed è bene che
ogni tanto sbattiamo il muso da giovani con la consapevolezza che non stiamo sempre al top dei pensieri
dell’altro. La domanda molto più seria è: “Ma come è possibile che l’amore
di Cristo, la croce e la resurrezione, non generino amore?”
L’Apocalisse mostra la lotta che si instaura nella storia una volta che Cristo è venuto, tra chi
vuole che Cristo sia tolto dalla Storia e Cristo che invece della Storia è il Signore.
Sapete che la parola Apocalisse in greco non vuole dire catastrofe, come si usa nel linguaggio moderno. Oggi si
dice, ad esempio, che l’11 settembre è stata un’apocalisse, che i treni di Madrid o la
situazione in Iraq sono un’apocalisse, si fa riferimento a film come Apocalypse now, ecc. Apocalisse
significa, invece, in realtà “togliere dal nascondimento”. Infatti, all’inizio
del libro, leggiamo “Rivelazione di Gesù Cristo” (Ap1,1). Il libro
dell’Apocalisse infatti mostra, fa comprendere agli uomini, cos’è la Storia e cosa
c’entra Cristo con la Storia che si sviluppa.
L’Apocalisse è, infatti, anche un libro ecclesiale, un libro che non parla solo di Cristo, ma parla
della Chiesa. E parla della storia degli uomini dinanzi a Cristo ed alla Chiesa.
Un capitolo chiave è quello in cui vengono radunati tutti gli uomini dinanzi al trono di Dio – siamo
al capitolo quinto di Ap. Vicino al trono c’è Gesù Cristo, ci sono i 24 vegliardi e i
144.000, poi vedremo il significato di questi elementi. L’annuncio serissimo di questa scena nasce dal
fatto che c’è tutto il mondo che piange perché nessuno riesce a capire a cosa serve la
storia: è la grande domanda di tutti gli uomini, di tutti i tempi, di ogni età, latini, greci,
ittiti, egiziani, uomini di 3000 anni fa, uomini dei tempi di Giovanni evangelista. Tutti piangono e si chiedono:
“Perché il tempo passa?”, “Perché generazione dopo generazione si muore e la vita
sembra non servire a niente?”, “Qual è il senso, cosa devo fare, cosa devo realizzare nella
vita?”, “Da cosa sarà giudicata la mia vita, cosa resterà, a cosa serve far nascere un
bambino, educare il bambino di un altro perché diventi migliore?” e così via. Nessuno riesce
a capire la Storia fino in fondo, tutti piangono e soprattutto Giovanni piange. E’ una visione che avviene
proprio qui a Patmos: Giovanni ha qui la comprensione che la Storia, se tu la guardi semplicemente dal punto di
vista umano, è un grande pianto, sembra uno spreco enorme di energia. Tutta questa fatica per raggiungere
cosa? Ogni giorno passa, diventiamo più vecchi. Quale è il frutto di questo? La storia va verso il
nulla?
Il pianto di Giovanni esprime proprio la domanda che ogni uomo porta nel cuore, la necessità che la storia
abbia un senso e che lo abbia ogni vita umana in essa.
Ed ecco che, proprio nel capitolo quinto dell’Apocalisse, appare l’Agnello, Cristo immolato e
risorto, a cui è dato di aprire i sette sigilli con cui è sigillato il libro della Storia.
Questa Storia che noi non riusciamo a spiegare, è svelata da Cristo. E’ lui a svelare come essa sia
il luogo nel quale ogni uomo può incontrare Dio. Quello che sembrava inutile - per alcuni la vita è
solo una infinita ripetizione di cose, ogni giorno uguali a quelle del giorno precedente, la routine, il lavoro,
per altri essa necessita di sempre nuove cose, dell’invenzione di qualcosa di particolare per renderla
interessante, per passare “un sabato diverso”, per “inventarsi un viaggio fico”, per
trovare il modo di “svoltare”, come dicono i ragazzi – riacquista la sua bellezza e
pienezza.
L’Apocalisse afferma che il segreto della storia sta proprio nella vittoria dell’Agnello che viene
ucciso e muore per salvare tutti gli uomini. La sua morte è la speranza che viene donata agli uomini.
Allora finalmente il pianto si tramuta in lode, si tramuta in ringraziamento rivolto a Dio.
Già qui voi capite una cosa importantissima: l’Apocalisse non è un libro teso a
spaventare, anzi, se volete, l’Apocalisse nasce proprio dal fatto che gli uomini hanno troppa paura.
Gli uomini, lasciati a se stessi, muoiono di paura; non sanno quanto durerà la loro vita. Ogni giorno noi
ci alziamo e diciamo: “Ma vivremo fino a questa sera?”. L’Apocalisse è un libro che
tende a consolare, a dire: “Stai tranquillo, la tua vita è breve, la tua vita è debole,
tu hai pochi anni a disposizione, ma non ti preoccupare, la tua vita è una realtà grande,
importante, preziosa, perché Cristo l’ha salvata e l’ha amata”.
Altri due elementi di sintesi, prima di vedere alcune cose nuove. Sapete, innanzitutto, che nell’Apocalisse
questa presenza di Cristo viene vissuta attraverso l’incontro con la Chiesa. L’Apocalisse è
scritta di domenica, le visioni avvengono nel giorno del Signore, proprio di domenica, come abbiamo
già letto. Si dice subito che Gesù Cristo appare in mezzo ai 7 candelabri e che tiene
sette stelle in mano. Subito seguiranno sette lettere a sette Chiese, personificate in sette
angeli. E’ evidente, dal testo, che i sette candelabri e le sette stelle sono le Chiese stesse
Perché Gesù Cristo appare sempre in mezzo alla Chiesa. Questa è un’affermazione
fortissima perché, come abbiamo detto, l’Apocalisse è un libro cristiano. Non è, come
vorrebbero molti, un libro su Satana, ma è un libro cristiano. Vedrete come anche nell’iconografia
ripetuta nelle icone del Monastero, compare sempre Cristo in alto raffigurato tra questi simboli, con sotto
Giovanni l’evangelista sdraiato, colpito da questa visione. Cioè Gesù Cristo visto nella
Chiesa!
Le sette chiese di cui parla l’Apocalisse - le visiteremo tutte appena torneremo in Turchia – sono
simbolizzate dai sette candelabri e dai sette angeli. Esse sono sì sette chiese, sette città, sette
comunità storicamente esistite, ma poiché il numero 7 vuol dire la totalità, rappresentano
anche e soprattutto tutta la Chiesa nella sua universalità. Sapete che cattolico vuol dire universale, di
tutto quanto il mondo e di tutti i tempi. Cristo vive dove la Chiesa vive. Questo è il significato
dell’immagine di Cristo in mezzo ai sette candelabri, di Cristo che parla ai sette angeli.
La stessa importanza della Chiesa viene enunciata, dall’Apocalisse, anche attraverso il simbolismo del
numero 144.000. Sapete che i testimoni di Geova stupidamente - bisogna volere loro bene, ma sono veramente
ignoranti - leggono in modo letterale questo numero e dicono che 144.000 uomini si salveranno. Il problema che si
sono posti quando sono diventati più di 144.000 è: “Ma allora ai testimoni di Geova eccedenti
questo numero cosa succederà?” Siccome il testo parla anche di “una grande moltitudine”,
di un ingente numero, i fondatori dei testimoni di Geova hanno detto: “Ci sono come due Paradisi, uno di
serie A per i 144.000, quelli più bravi, e uno per gli altri, per la grande moltitudine”. Invece
nell’Apocalisse è vero l’opposto! Il numero 144.000 vuol dire tutti i cristiani di tutti i
tempi perché il numero viene da 12x12x1.000. L’Apocalisse parla sempre dei 12 Apostoli e delle 12
tribù di Israele. Questo si ripete continuamente. Le 12 tribù di Israele rappresentano tutto
l’Antico Testamento, i 12 Apostoli rappresentano tutto il Nuovo Testamento, moltiplicato per 1000 vuol dire
per tutto il tempo che durerà la Storia. Quindi il numero 144.000 rappresenta l’insieme di tutti
quanti i credenti che vengono salvati, il popolo di tutti coloro che si radicano nell’Antica Alleanza e
ricevono la Nuova, il popolo che si estende moltiplicato per 1000, per un numero che rappresenta tutta la storia.
E non sono i 144.000 ad essere il fior fiore della moltitudine, ma l’opposto. Infatti, all’interno di
questo gruppo che è enorme, perché è un simbolo, perché non dice solo se stesso,
144.000, ma vuol dire la Chiesa di tutti i tempi, c’è un numero solo apparentemente più
grande – “la grande moltitudine” – ma in realtà più piccolo, perché
rappresenta i martiri, coloro che hanno la palma nelle mani. Sono i martiri - tra gli Apostoli, tra i cristiani
della Turchia o dell’Italia, ecc. – che hanno dato la vita, che sono morti per testimoniare la
presenza di Cristo nel mondo. Come i martiri che rifioriscono anche oggi (voi sapete bene che tragicamente il
secolo precedente al nostro ed anche questo che è appena iniziato sono nuovamente secoli di martirio).
Sono questa grande moltitudine coloro che hanno un merito particolare, proprio per aver professato la fede sino
al prezzo della vita.
Allora, in conclusione, questo numero dei 144.000 rappresenta la Chiesa salvata. L’Apocalisse annuncia che
il senso della storia, la salvezza dell’uomo, si compie attraverso la Chiesa. La Chiesa è il mondo
salvato, segnato dalla presenza di Cristo. La Chiesa deve affrontare la persecuzione, il male. L’anticristo
come odia Cristo, così odia la Chiesa, ma essa non deve temere, perché il Cristo la unirà a
sé, nella sua vittoria sul male. L’Apocalisse non vuole spaventare i cristiani, ma anzi confermarli
nella loro fede proprio dinanzi al male, perché abbiano perseveranza e pazienza, fino al compimento della
salvezza, quando Cristo verrà nella parousia, per la sua presenza definitiva.
Un ultimo appunto che facciamo, in maniera previa alla lettura del nostro testo di oggi, riguarda un altro numero
simbolico, il 666.
I “fissati” lo vanno a cercare sulle etichette con il codice a barre, nel rock, o chissà dove.
Sono tutte sciocchezze! Voi sapete che 666 è un numero simbolico. Il testo di Ap. dice proprio
chiaramente: “E’ un nome di uomo”. Probabilmente all’origine voleva rappresentare la
parola Nerone perché nell’ebraismo ogni lettera ha anche un valore numerico, così come in
altre lingue: la A vale 1, la B vale 2, ecc. Siccome non si poteva dire “il nemico è Nerone”,
si usava questo numero che corrisponde al suo nome. Potrebbe, secondo altri studiosi, far riferimento ad un altro
imperatore, ma, comunque, era un numero simbolico che rappresentava una persona concreta che a quel tempo voleva
la morte dei cristiani. La cosa interessante che l’Apocalisse dice è: “Questo è un
nome d’uomo”. Questo significa affermare che è una persona che ha pochissimo potere, che
fa del male in un determinato momento, uccide delle persone - è questo è chiaramente una cosa
tragica, terribile, drammatica – ma che poi, come ogni uomo, finirà, non avrà che un potere
molto limitato e circoscritto ad un determinato momento. Sarà, infatti, Cristo il vero Salvatore. Colui
che “ha un nome d’uomo” sarà invece sconfitto, sarà condannato, dovrà
chiedere perdono, dovrà vergognarsi del male che ha fatto. Ecco che tutto questo è allora un invito
a riscoprire non in maniera stupida, non in maniera letterale, dove sta il numero 666 - l’Apocalisse non
è così stupida, non è un gioco letterale. E’ il tentativo di invitare i cristiani di
ogni epoca ad individuare dove stia in quell’epoca – e, quindi, anche oggi - qualcuno che vuole il
male di Cristo e, volendo il male di Cristo, vuole anche il male degli uomini e della Chiesa. Perché
Cristo è il grande difensore dell’umanità, della dignità della persona. Queste
realtà sono, per l’autore dell’Apocalisse e per la fede cristiana, sempre unite: il volere il
male di Cristo e il volere il male dell’uomo, della vita umana, mentre Cristo è Colui che vuole
salvare la Storia, vuole dire che ogni vita è importante e preziosa. Quindi il lavoro da fare non è
cercare il 666, non è cercare dove si ripete per tre volte di seguito, in sequenza, il numero 6, ma
è cercare dove oggi viene tolta la dignità dell’uomo, dove viene spezzata la
possibilità di amare, di vivere, di crescere, di credere in Cristo, di professare la propria fede, di far
crescere le generazioni, di costruire la Chiesa. Questo è il grande lavoro che l’Apocalisse invita a
fare in ogni tempo. Essa invita ad individuare questo “numero” e a non averne paura, a dire:
“Sì è vero, c’è il male; il male c’è anche nel tuo tempo, non
c’è stato solo nel passato, ma quando lo trovi non averne paura. Lui cercherà di fare del
male a te e agli altri, ma tu stai tranquillo perché Cristo è l’unico che spiega la Storia e
la salva, mentre questa persona ha un tempo contato, ha un tempo piccolo, ha un tempo breve, finisce per fortuna,
crepa come tutti gli altri uomini. Ed anche lui piangerà perché senza Cristo non sa dire a cosa
serve la Storia. Tutto il Male che ha fatto a cosa serve?” A niente!
Noi cristiani dobbiamo continuare ad annunziare che il Male non serve a niente, il Male danneggia chi lo fa. Il
terrorismo fa il male di chi lo fa, impoverisce la cultura di quel popolo che lo accetta, lo chiude sempre di
più in se stesso. Così il male delle guerre sbagliate, che fanno del male, che rovinano
dall’interno. Il Male non serve a niente e dobbiamo avere il coraggio di dire che il Male è Male ed
è inutile, è uno spreco di energie, che potrebbero essere usate per fare delle cose serie per
aiutare le persone a crescere. Leggiamo, dopo queste indicazioni di massima, il testo di Ap12:
1Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi
piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. 2Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio
del parto. 3Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci
corna e sulle teste sette diademi; 4la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo
e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino
appena nato. 5Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con
scettro di ferro, e il figlio fu subito rapito verso Dio e verso il suo trono. 6La donna invece
fuggì nel deserto, ove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per
milleduecentosessanta giorni.
Volevo farvi riflettere su di un aspetto importante. Vedete questo è un altro segno da decodificare: cosa
significa? C’è questo segno, che viene chiamato “grandioso”, di una donna. Sapete che
molti hanno giustamente - anche se questo non è il significato primario - visto in questo
un’immagine di Maria. Maria è anche questa donna, certamente. Vedete che nell’iconografia
cristiana ha sempre la corona con le dodici stelle e ha la luna sotto i suoi piedi, perché
realmente in Maria viene vinto il Male. Noi leggiamo sempre la Bibbia nella tradizione della Chiesa, illuminata
dallo Spirito Santo. Ma nell’Apocalisse questo segno in maniera ancora più semplice è
innanzitutto la Chiesa. La fede della Chiesa sa che in Maria è l’immagine di tutta quanta la Chiesa,
che in Lei, la Madre del Signore, è prefigurata tutta la Chiesa. Qui vediamo il procedimento inverso.
E’ la Chiesa, di cui ci parla l’Apocalisse, che viene poi, dalla tradizione, raffigurata da Maria. La
luna rappresenta il tempo, il tempo che passa. Sapete che i calendari antichi si basavano sulle fasi lunari, con
mesi di 28 giorni. Ancora oggi si contano in questo modo i mesi della gravidanza - si calcolano le settimane dal
concepimento di un bambino - perché il calendario lunare è per alcuni versi più preciso.
Questa donna siede sopra la luna, domina il tempo.
Mi viene mente, a questo proposito, il film “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman, un film
bellissimo dove tutto è costruito proprio attorno a questa grande domanda sul tempo. Il protagonista
è un cavaliere crociato, appena tornato in patria, dopo la crociata e, sbarcato, viene a sapere che la
peste sta facendo strage nei villaggi.
Si domanda allora: “Io sto per morire. Forse la peste prenderà anche me ed i miei compagni. Cosa
devo fare di buono nella vita, nel tempo che mi resta? Come posso dominare il tempo? E’ il tempo che
distrugge me o sono io che do un senso al tempo?” Nella partita a scacchi con la morte che gli appare,
cerca di guadagnare tempo, per poter dare un senso alla vita e riuscirà, infine, a salvare una famiglia di
commedianti incontrati per caso. All’inizio ed al termine del film vengono letti ad alta voce i versetti
dell’Apocalisse sui sette sigilli che vengono aperti. Sapete che Bergman ha fatto un altro film bellissimo,
“Il posto delle fragole”, uscito ad un anno di distanza da “Il settimo sigillo”.
E’ lo stesso tema rivisitato in età moderna. Entrambi questi film sono bellissimi, io li amo molto.
“Il posto delle fragole” racconta la storia di un anziano professore che parte per ricevere un premio
alla sua carriera, ma parte sapendo in realtà che quel premio è sì il culmine della sua
vita, ma è anche la fine, è anche l’ultimo momento, data la sua età ormai avanzata e
la morte che si avvicina. Ed allora, nel viaggio verso il luogo dove sarà premiato, decide di fare una
deviazione e ritorna nei luoghi della sua infanzia, nel “posto delle fragole”, portando con sé
la domanda: “Cosa ha avuto di buono veramente la mia vita? Quale frutto ha portato?” Chiaramente in
entrambi i film non troviamo la risposta di un credente – ed i brani cristologici ed ecclesiologici
dell’Apocalisse non sono neanche accennati – ma tutto il dramma dell’Apocalisse è
presente: l’uomo che piange dinanzi al tempo e cerca di capirne il senso.
Questa donna che calpesta la luna sta dominando il tempo e ha queste dodici stelle che rappresentano di nuovo gli
Apostoli e le tribù di Israele: è la rappresentazione di tutta la Chiesa, prefigurata
nell’Antica Alleanza e realizzata nella Nuova, radunata dai 12 Apostoli. Notate questo elemento
straordinario: noi diremmo subito che questa donna è Maria, perché fa nascere il bambino. Infatti,
qui è evidente che questo bambino che nasce è Colui che dominerà tutto, è il Cristo.
Sono tutte parole profetiche prese dall’Antico Testamento, che parlano di Cristo. Cristo è il vero
dominatore della Storia, l’Antico Testamento lo ha sempre annunziato. L’Apocalisse qui sta dicendo
però che è la Chiesa che fa nascere Cristo nel tempo. Certo, è vero che Cristo è nato
una volta sola da Maria! Stiamo vedendo, in questo pellegrinaggio, come Giovanni ci ponga sempre dinanzi al fatto
che, poiché l’Incarnazione è un evento storico, essa avvenga una sola volta, nelle coordinate
precise dello spazio e del tempo: lì ed in quel momento. Una sola volta Gesù è nato da Maria
nella carne, una sola volta Dio ha dato il suo Figlio a Maria nel suo grembo. Ma - sembra dirci questo testo
dell’Apocalisse spalancandoci tutta l’ampiezza del mistero cristiano - ciò che è
avvenuto quella sola volta diventa ciò che si ripete continuamente nei sacramenti e nell’annunzio
del vangelo ad opera della Chiesa. Pensate: questo è il senso della nostra storia! Noi cristiani
attraverso il battesimo dei bambini, la catechesi, attraverso un pellegrinaggio come questo, facciamo sempre
nascere Cristo nella vita. Di ognuno di noi e di tutti noi insieme si potrebbe dire: “Noi siamo coloro che
portano Cristo nella vita, che lo fanno nascere oggi nel mondo”.
Una parrocchia porta Cristo nella vita, un cristiano nel suo ambiente di lavoro, ognuno di noi nei rapporti con
persone che vivono un lutto o una gioia.
La domanda dell’Apocalisse è: “Come capire che c’è un senso nella vita?”
Noi siamo coloro che generano Cristo nella vita delle persone, generando il senso e la speranza che anima tutta
quanta la vita.
Questo Cristo che nasce dalla donna - da Maria, dalla Chiesa - viene subito attaccato. E’ la storia del
Male - quella sì insensata, che si ripete sempre, senza sbocco - che si è posto contro Cristo,
nella sua vita terrena. Quando Cristo va nell’orto del Getsemani viene tentato, perché il Male sa
che lì c’è la presenza di Dio e sa che c’è in forma tale che mai la storia prima
aveva visto. Perché è lo stesso Figlio di Dio presente nel mondo. E non ci sarà mai tale
presenza in maniera così forte ed unica come in Gesù Cristo. Per questo proprio lì
c’è la tentazione. E questo stesso assalto alla presenza di Cristo avviene quando la Chiesa lo fa
nascere nel tempo. Il Male che non può più riversarsi contro Cristo, dopo la sua resurrezione, si
riversa ora contro la Chiesa – questo afferma l’Apocalisse. E però Dio, di nuovo, difende il
frutto donato al mondo dai cristiani e questo frutto viene “portato presso Dio”, espressione
simbolica per dire che Dio lo custodisce e la donna, la Chiesa, fugge nel deserto dove Dio le ha preparato un
rifugio. E’ questa fiducia nella Provvidenza, questa certezza che Dio realmente, anche nel martirio, anche
dove una persona dovesse morire per il nome del vangelo - noi sappiamo che moriremo tutti in questa terra e che
possiamo anche morire, come è chiesto a tanti nostri fratelli nel mondo, per professare la fede -
salverà la nostra vita. La donna dell’Apocalisse viene nutrita nel deserto per 1.260 giorni, che di
nuovo è un tempo limitato. Sono dei numeri simbolici, multipli della metà di sette, vuol dire un
tempo destinato a terminare.
L’ultimo aspetto che vediamo insieme oggi lo riprendo dalle note di padre Ugo Vanni, grandissimo biblista
argentino, gesuita, che ha dedicato tutta la vita a studiare l’Apocalisse e S.Paolo. Nei suoi studi ha
diviso i simboli usati dall’Apocalisse in 5 categorie che ci permettono di interpretarli con maggior
facilità. Ci sono innanzitutto i simboli cosmici; è la prima categoria, secondo la
classificazione di p.Vanni:
Le trasformazioni violente al di là di ogni riferimento e di ogni coordinazione esprimono la
trasformazione radicale della storia dell’uomo e dell’ambiente in cui essa si svolge. La presenza
attiva di Dio che esse indicano porta il mondo verso la meta di una novità sconosciuta.
I simboli degli stravolgimenti cosmici, allora, vanno interpretati così: come noi vediamo attraverso la
bellezza della natura la bellezza di Dio, come risaliamo dal creato al Creatore – dicendoci l’un
l’altro: guarda come sono belli gli alberi in fiore, come sono belle le persone, come è bello che
nasca un bambino - così l’Apocalisse vuole farci intuire che quando Dio salverà
definitivamente il mondo, la natura sarà trasformata, farà vedere ancora di più che Dio
è presente. Anche perché Dio non viene solo per gli uomini, ma salva l’intero cosmo che viene
sconvolto, che brilla della sua presenza.
La seconda categoria simbolica è quella degli animali, ad esempio i quattro esseri viventi, i
quattro cavalli, i quattro cavalieri che rappresentano la Morte, la Guerra e così via, il drago, la Bestia
ecc. Questa chiave di lettura generale ci da p.Vanni:
Ogni espressione simbolica teriomorfa ci riporta allo svolgimento, al vivo della storia, ma non ce ne
dà una chiave di lettura al minuto. L’animale protagonista dice che c’è, proprio
nell’ambito della storia, un complesso di forze in atto.
Ad esempio, il cavallo è segno che il Male è attivo, che il Male non è semplicemente
indifferenza, che il Male fa il Male, aggredisce, si insinua, ti attacca. Così come c’è una
forza di Bene nei quattro esseri viventi. E così via. Dio è veramente presente con la sua
Provvidenza nella Storia e così ogni volta che noi troviamo un simbolo animale nell’Apocalisse, noi
comprendiamo questa potenza in atto e questa lotta del Bene che arresta, alla fine della Storia, il Male.
Poi ci sono i simboli antropologici, una terza categoria di simboli, come, ad esempio, i Vegliardi, i
144.000, il “mettersi le vesti bianche”:
L’autore, attento all’uomo e a tutto il quadro che lo riguarda, lo vede e lo sente, senza farsi
mai illusioni nei suoi riguardi e senza accettare i suoi limiti, nella completezza che
raggiungerà.
L’uomo, questo uomo concreto, viene visto con tutte le sue deficienze, i suoi peccati, la sua
mediocrità, la sua meschinità - lo vedremo anche nella riflessione che faremo nei prossimi giorni
visitando le 7 Chiese - però viene visto senza accettare supinamente questo, come se andasse bene
così e non ci fosse niente da fare. Il male dell’uomo non viene accettato, c’è una
spinta a cambiarlo. Soprattutto l’uomo viene visto nella prospettiva di quello che sarà alla fine
dei tempi, quindi viene visto come già completato da Dio, come risplendente di luce. E’ un invito a
credere che Dio è così grande che, nel Paradiso, saprà completare il bene di chi veramente
ha già costruito questo bene in terra e, misteriosamente, potrà donarlo anche a chi ha peccato,
pentendosi poi, ma non riuscendo a vivere fino in fondo il bene che gli era possibile. L’uomo non è
visto soltanto nella sua mediocrità terrena, in ciò che fa o che sbaglia, ma viene visto nella
prospettiva dello splendore della vita eterna, anticipata già in questa vita.
Poi ci sono i simboli cromatici – quarta categoria – i segni rappresentati dai colori. Ad
esempio il primo dei 4 cavalieri è bianco perché rappresenta Cristo, un altro che rappresenta la
Morte è verde, un altro è nero, un altro rosso, il colore del sangue. Vanni così ci
introduce a questo simbolismo particolare:
Anche quando il colore diventa simbolo, il nuovo significato che esso esprime gradualmente rimane sempre sulla
linea del colore. E’ come un colore sovraccarico che deve essere guardato e riguardato.
Attraverso la comprensione di quel colore, si capisce cosa l’autore dell’Apocalisse volesse dire
attraverso quel simbolo.
E poi alla fine c’è il simbolismo numerico, un quinto tipo di simbolismo:
Appare, con chiarezza sufficiente, il tipo di costante simbolica intesa ed espressa dall’autore mediante
il simbolismo aritmetico. Le variazioni, le alterazioni della quantità per indicare delle qualità
sono senza dubbio artificiose. Ma l’autore riesce ad esprimere anche qui un suo tipo di creatività.
La pressione verso un meglio e un di più si fa sentire e incide proprio sul rapporto tra l’autore e
queste dimensioni precise.
Per esempio quando si dice che una cosa è tre e mezzo, è segno che è a metà –
perché il numero sette è la pienezza. Quando si dice che ci saranno mille anni, “mille
anni” vuol dire un tempo ancora storico, limitato. Ed i testimoni di Geova che affermano che ci sarà
un paradiso che durerà mille anni, dicono una grande sciocchezza. Dire che una cosa durerà mille
anni vuol dire semplicemente che ha una durata limitata, finita; arriverà il momento in cui Dio con la sua
eternità porterà a compimento tutte le cose. Ci sono dei numeri invece che sono pieni, come abbiamo
appena detto in relazione al numero sette, dei numeri che esprimono la storia che giunge fino alla sua pienezza.
In questo viaggio di ritorno, voglio commentarvi una singolare opera del pittore Hieronimus Bosch: S.Giovanni a
Patmos. La tavola è dipinta sui due lati ed è probabilmente lo scomparto destro di un dittico o di
un trittico andato perduto nelle sue altre parti. E’ custodita nella Gemäldegalerie di Berlino.
Il suo nome –Bosch – deriva da Den Bosch, abbreviazione del suo luogo natale, cioè
’s-Hertogenbosch, in francese Bois-le-Duc (Bosco ducale), nelle Fiandre, vicino ad Anversa. Possediamo
pochissimi dati biografici certi su di lui: nacque intorno al 1450 nella famiglia van Aken, nel 1480 risulta
sposato con Aleyt Goyaerts van der Meervenne, della ricca aristocrazia del paese, dal 1486-87 è registrato
nella Confraternita di Nostra Signora, una confraternita cattolica, muore intorno al 1516.
Nel caleidoscopio delle interpretazioni delle sue opere - interpretazioni che si sono scatenate in tutte le
direzioni proprio per una mancanza di dati che potessero sostenere le une piuttosto che le altre, oltre che per
l’originalità dell’iconografia boschiana - ci sembra che proprio quest’opera ci possa
fornire un punto di riferimento.
Da un lato della tavola vediamo Giovanni al quale l’angelo in visione fa contemplare il “grande
segno” della donna e del bambino, il segno sul quale abbiamo riflettuto a Patmos. Proprio questa
visione il pittore sceglie, fra le tante dell’Apocalisse, a caratterizzare l’Evangelista. La donna
è chiaramente Maria, secondo l’interpretazione corrente del tempo, e non la Chiesa secondo le
intenzioni originali dell’Apocalisse - come ben sappiamo ormai, dopo la riflessione che abbiamo fatto a
Patmos, le due interpretazioni non si oppongono, ma si completano.
E’ una visione di grande pace ed è una visione appropriata, proprio perché l’Apocalisse
– torniamo a ripeterlo – è un libro che vuole infondere pace nei cuori, vuole calmarli dalla
paura. Giovanni è talmente preso da questa visione, dal dono di Cristo nel tempo, che niente sembra
turbarlo. Solo noi vediamo, vicino a lui, in primo piano, insieme all’aquila che è il suo attributo
iconografico, un essere mostruoso. Anche il paesaggio, apparentemente sereno, ad una analisi più attenta
rivela la presenza di una nave in fiamme. In questi due simboli è evidente la presenza del male nel mondo.
E’ il male di cui parla l’Apocalisse, che si manifesta. Il contrasto che così si crea, diviene
rivelativo della visione cristiana della vita. Non una ingenua sottovalutazione del male, ma una ricerca del
volto di Cristo in mezzo alla cattiveria presente nel mondo.
Nel famosissimo Cristo portacroce (Gand, Musée del Beaux-Arts), opera attribuita agli ultimi anni del pittore, dipinto nel quale solo le teste dei personaggi riempiono completamente lo spazio del quadro, in mezzo ai volti ghignanti delle persone che conducono Gesù al Calvario vediamo tre volti ad occhi chiusi, il Buon ladrone, la Veronica e, soprattutto, Cristo, con la croce sulle spalle.
H.Bosch, Il Cristo portacroce |
Il bene di Dio è lì, in mezzo alla malvagità.
H.Bosch, Il Cristo portacroce, particolare della Veronica |
H.Bosch, Il Cristo portacroce, particolare del Cristo |
H.Bosch, Il Cristo portacroce, particolare del buon ladrone |
Ma se guardiamo il retro della tavola di Giovanni a Patmos, ci troviamo dinanzi ad una iconografia spettacolare. Se anche non fosse, direttamente, l’occhio di Dio – come è stato proposto – di certo è lo sguardo di Dio sul mondo. Due cerchi ritagliano lo spazio, al centro del dipinto, come le due parti dell’occhio o come due livelli di profondità progressiva, che si stagliano nello spazio del male che li circonda.
H.Bosch, S.Giovanni evangelista a Patmos, retro, particolare |
Altre volte Bosch si era spinto fino a mostrare la prospettiva di Dio su ciò che esiste. In una delle sue prime opere, I sette peccati capitali (1475-1480, al Prado, Madrid). Il cerchio maggiore è stato identificato con l’occhio di Dio che reca nell’“iride” la figura di Cristo risorto, eretta sul sepolcro. Sotto il Cristo, figura di salvezza che è al centro dello sguardo divino, l’esortazione: “Attento, attento, il Signore vede”. Nella cornea, coincidente col globo terrestre sono distribuiti i sette peccati capitali. Ai margini i quattro “novissimi”, Morte, Giudizio, Inferno e Paradiso. Sui cartigli i testi biblici: in alto “E’ un popolo privo di discernimento e di senno; o, se fossero saggi e chiaroveggenti, si occuperebbero di ciò che li aspetta” e in basso “Io nasconderò il mio volto davanti a loro e considererò quale sarà la loro fine”.
Nelle facce esterne degli scomparti laterali de Il trittico delle delizie troviamo, invece, dipinta La
creazione del mondo, con una prospettiva esterna addirittura a Dio stesso. Dio sta in un angolo alla sinistra
del quadro ed una scritta recita: “Egli disse e furono fatti, comandò e furono creati”. Qui lo
sguardo abbraccia, come da fuori, l’esistenza del mondo. Insomma Bosch ha cercato più volte
prospettive inusitate per cogliere pittoricamente il dramma del mondo.
Nel retro di S.Giovanni evangelista la zona intorno ai due cerchi centrali è contraddistinta dal nero. Ma
non è un nero indistinto. Si intravedono figure diaboliche al suo interno. E’ la zona che indica la
presenza del male. Ma essa non occupa il centro. Proprio come nell’Apocalisse. Il male dispiega la sua
forza, ma mai è al centro della vita! Nella corona che racchiude il centro vediamo la passione di Cristo:
la Preghiera nell’orto degli Ulivi, il Bacio di Giuda e la cattura, Gesù dinanzi a Pilato, la
Flagellazione e la Coronazione di spine, la Salita al Calvario, la Crocifissione e la Deposizione. E’ il
confronto fra il male e Dio. Il male dispiega contro il Cristo la sua forza e, apparentemente, sembra vincitore.
H.Bosch, I sette peccati capitali, particolare |
Al centro vediamo un grande uccello dalle ali spiegate che nutre i suoi piccoli, al di sopra di un monte dalla cui cavità escono fiamme. E’ la vittoria di Cristo sul grande abisso, che viene inghiottito al posto di inghiottire. Molti studiosi interpretano l’uccello come il pellicano che – secondo la tradizione dei Padri – ferisce se stesso per nutrire con il proprio sangue i suoi piccoli, figura di Cristo che da vita agli uomini con il dono della propria vita. L’aspetto dell’uccello assomiglia però a quello di un aquila, simbolo iconografico giovanneo, ma anche simbolo di Dio stesso che porta come un’aquila il suo popolo. Certo appare comunque lo spessore cristologico e soteriologico del simbolo. E’ il Cristo che nutre i suoi con il suo sangue. Ecco che anche nel retro del quadro il contrasto, la lotta, fra Dio ed il male si dispiega. Ma se è vero che, nel contrasto, si pone ancor più in evidenza l’oscurità malefica, è vero, d’altro canto, che nello stesso contrasto risalta ancor più la serenità della vittoria cristiana. Ho voluto parlarvi di quest’opera e mostrarvela, perché abbiate, come in un immagine, il senso dell’Apocalisse
Questo luogo ci ricorda un personaggio che è di due generazioni successive a quella degli Apostoli,
Papia di Gerapoli. Ha vissuto qui, in questa città, ed è annoverato fra i cosiddetti
Padri apostolici. I Padri apostolici sono quegli scrittori cristiani, quasi tutti vescovi, che sono
vissuti subito a ridosso degli Apostoli, se non – è l’ipotesi per alcuni di essi – prima
ancora della morte di tutta la generazione che ha conosciuto direttamente Gesù. Per questo i loro scritti
sono importantissimi. Ci descrivono la vita cristiana nei primi decenni post-apostolici, ma non sono ispirati,
non fanno parte della Bibbia. Papia è stato vescovo qui a Gerapoli ed appartiene alla terza generazione
dopo Cristo, cioè è successore dei successori degli Apostoli. C’è stato Gesù,
ci sono stati gli Apostoli, poi i loro successori da loro scelti, e, subito dopo, la generazione di Papia. Ognuno
ha “imposto le mani” alla generazione successiva. Così dice Papia in un suo testo, in un
frammento che ci è conservato da Eusebio di Cesarea:
Non esiterò ad aggiungere alle [mie] spiegazioni ciò che un giorno appresi bene dai presbiteri e
che ricordo bene, per confermare la verità di queste [mie spiegazioni]. Poiché io non mi dilettavo,
come fanno i più, di coloro che dicono molte cose, ma di coloro che insegnano cose vere; non di quelli che
riferiscono precetti di altri, ma di quelli che insegnano i precetti dati dal Signore alla [nostra] fede e
sgorgati dalla stessa verità.
Che se in qualche luogo m’imbattevo in qualcuno che avesse convissuto con i presbiteri, io cercavo di
conoscere i discorsi dei presbiteri: che cosa disse Andrea o che cosa Pietro o che cosa Filippo o che cosa
Tommaso o Giacomo o che cosa Giovanni o Matteo o alcun altro dei discepoli del Signore; e ciò che dicono
Aristione ed il presbitero Giovanni, discepoli del Signore.
Poiché io ero persuaso che ciò che potevo ricavare dai libri non mi avrebbe giovato tanto,
quanto quello che udivo dalla viva voce ancora superstite.
Vedete, questo vi fa capire cos’è la Chiesa “apostolica”, come noi diciamo nel
Credo: “Credo la Chiesa una, santa, cattolica, apostolica”. La Chiesa è apostolica
perché non si è mai interrotta la trasmissione iniziata dagli Apostoli. Ogni attuale vescovo
è legato - come attraverso una catena di anelli che ne congiunge ognuno al precedente ed al successivo
– a Gesù attraverso tutti gli anelli di una catena ininterrotta. Qui siamo alla terza generazione;
Papia dice: “Io voglio essere sicuro che mi dicano le cose che hanno sentito”. L’Apostolo
rimane vivo attraverso la voce del suo Vangelo.
Apro solo due problemi che sono di enorme portata, Il primo è il tentativo sempre ricorrente nella
storia di reinventare il Cristo, staccandosi dalla tradizione apostolica. Ci sarebbe da aprire un dialogo con
l’islam su questo, su come accada che l’Islam accetti Gesù – in teoria - ma rifiuti
tutto quello che sono i vangeli e la Bibbia, ritenuti falsi e menzogneri, al punto da decidere di ignorarli, per
giungere a Cristo! Nel Corano non è citato un solo versetto della Bibbia, poiché essa è
ritenuta falsa. Così viene ricostruito un altro Gesù, che prescinde totalmente dai Vangeli.
Pensate, allo stesso modo, ad esperienze molto diverse come quella dei testimoni di Geova –lo stesso
avviene in altre sétte. In esse la fede comincia “ad un certo punto”; tutto quello che
è stato detto prima viene buttavo via. Solo “ad un certo punto” arriva la verità. Ad
esempio arriva Mormon – secondo la dottrina dei Mormoni - il quale dice: “Gesù è come
dico io, non è come hanno detto gli Apostoli o Giovanni o i vescovi di generazione in generazione. Le
parole vere di Gesù le so solo io”.
L’altro grande problema è il legame tra la parola scritta e la tradizione orale. A me viene
spesso da sorridere quando seguo dibattiti in televisione nei quali vengono citati Testi sacri; ad esempio,
quando sento parlare di guerra santa. Spesso ne parlano persone incompetenti, sia del cattolicesimo sia
dell’islam. Nella Bibbia ci sono parole a favore della guerra santa così come nel Corano,
così come ci sono parole contrarie. Ci sono parole secondo le quali le donne devono portare il velo
come delle parole che lo negano. Il testo scritto vive di una tradizione orale che nei secoli ha capito ed
interpretato quel testo. Ed io non posso capire il cristianesimo, senza dire come questa tradizione ha capito e
commentato quel testo, come non posso capire l’Islam, senza conoscere l’interpretazione secolare di
un determinato brano. Non basta citare un versetto di un testo sacro, ma bisogna dichiarare come è stato
capito e come sono stati interpretati i versetti sullo stesso argomento che appaiono di significato contrario a
quello che vogliamo commentare. Il problema non è di sapere se ci sono o non ci sono versetti favorevoli
ad una guerra santa nella Bibbia o nel Corano – qualsiasi studioso o credente serio sa che ci sono, come sa
che ci sono versetti contrari a questo – ma di sapere qual’è la chiave interpretativa
successiva al testo che dichiara superata l’interpretazione strettamente letterale o la conferma. Per il
cristianesimo è la persona di Gesù la chiave interpretativa di tutto e, chiaramente, anche
dell’Antico Testamento. Il rifiuto del concetto di “guerra santa” non nasce dal fatto che non
ci siano versetti favorevoli ad essa, ma dal fatto che una loro interpretazione in questo senso sia rifiutata
perché la venuta di Cristo ne ha generato una diversa lettura. Così – vi dicevo –
sorrido quando sento dibattiti sull’Islam e la “guerra santa” in TV. Una parte cita dei
versetti per dire che la “guerra santa” è guerra che contempera l’uccisione del nemico,
un’altra ne cita altri per dire che la “guerra santa” è una guerra interiore per vincere
il male nella propria vita, nella propria anima. E, a questo livello, hanno ragione gli uni e egli altri,
perché, in effetti, ci sono versetti pro e contro. La domanda verte allora, piuttosto, su quale criterio
faccia sì che alcuni siano privilegiati rispetto agli altri di segno opposto. Qual’è il
criterio interpretativo che fa dichiarare alcune letture, pure esistite, come opposte al vero spirito del testo
sacro ed altre, invece, come autentiche e normative per l’oggi?
Se uno si attacca alla lettera dei singoli testi, trova tutto ed il contrario di tutto. I Testi sacri delle
religioni, per chi li conosce veramente, sono libri talmente grandi ed ampi, che è presente in essi
materiale di significato apparentemente opposto.
Lo stesso vale per i testi dell’ebraismo. I libri dell’Antico Testamento non possono essere compresi,
secondo la dottrina ebraica, senza un rapporto con la lettura rabbinica e talmudica.
Bisogna capire – e dichiarare – con quale principio interpretativo si legge un testo detto sacro.
Per noi cristiani, Cristo è la Parola definitiva di Dio, che valorizza ed insieme relativizza le parole
precedenti. Esse ricevono luce in Lui e, per comprenderne il vero significato, bisogna rileggerle a partire
dall’Incarnazione, dalla Croce e dalla Resurrezione. Inoltre lo Spirito Santo non ha cessato di essere
presente, una volta che la Bibbia è stata composta. Egli è all’origine della Tradizione che,
nella storia, trasmette il significato di tutta la rivelazione. Se non chiariamo i nostri principi interpretativi
- quale rapporto affermiamo esserci fra il Testo sacro e la sua comprensione odierna - ogni interpretazione
letterale si rivela sterile. D’altro canto è proprio in questa tensione con la Tradizione successiva
che si evidenzia la “lettera” del testo nella sua immutabilità, nel suo essere origine di una
storia ad esclusione di un’altra. Per noi cristiani, la Bibbia è regola della fede e la Tradizione
della Chiesa ne indica i contenuti che sono normativi per sempre.
Ma torniamo a Gerapoli. Si parla, nel testo di Papia che abbiamo appena letto - è interessantissimo - di
un personaggio definito come “il presbitero Giovanni”. Qui ci sono due possibilità: o che il
presbitero Giovanni sia Giovanni l’evangelista, e che Papia lo chiami il “presbitero Giovanni”,
oppure che sia un altro personaggio, probabilmente un discepolo di Giovanni. Non possiamo sapere questo con
esattezza. Troviamo un personaggio di nome identico, nel corpus Joanneum, l’insieme degli scritti
neotestamentari attribuiti all’evangelista Giovanni. Sono la II e la III lettera di Giovanni a presentarsi
come scritti del “presbitero”. E’ Giovanni stesso o un suo successore? Vale per gli scritti di
Giovanni la stessa cosa che già abbiamo visto per l’epistolario paolino. Non è detto che Gv,
IGv, IIGv, IIIGv ed Ap siano stati scritti tutti direttamente dall’evangelista. Può darsi, anzi
è probabile, che l’autore del Vangelo, l’autore dell’Apocalisse e l’autore delle
lettere siano delle persone diverse, ma appartenenti alla stessa scuola, tutti discepoli di Giovanni. Questo
ancora è discusso. Di certo nella Bibbia ci sono due lettere, la II e la III di Giovanni, scritte da un
personaggio che è chiamato “il presbitero”. Vediamo un brano della seconda lettera di
Giovanni che è importantissimo, anche se la lettera comprende solamente tredici versetti. Dice
così:
“1Io, il presbitero, alla Signora eletta e ai suoi figli che amo nella verità, e non
io soltanto, ma tutti quelli che hanno conosciuto la verità, 2a causa della verità che
dimora in noi e dimorerà con noi in eterno: 3grazia, misericordia e pace siano con noi da parte
di Dio Padre e da parte di Gesù Cristo, Figlio del Padre, nella verità e nell'amore.
Il comando della carità
4Mi sono molto rallegrato di aver trovato alcuni tuoi figli che camminano nella verità,
secondo il comandamento che abbiamo ricevuto dal Padre. 5E ora prego te, Signora, non per darti un
comandamento nuovo, ma quello che abbiamo avuto fin dal principio, che ci amiamo gli uni gli altri. 6E
in questo sta l'amore: nel camminare secondo i suoi comandamenti. Questo è il comandamento che avete
appreso fin dal principio; camminate in esso.
7Poiché molti sono i seduttori che sono apparsi nel mondo, i quali non riconoscono
Gesù venuto nella carne. Ecco il seduttore e l'anticristo! 10Se qualcuno viene a voi e non
porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo; 11poiché chi lo saluta
partecipa alle sue opere perverse.
Conclusione
12Molte cose avrei da scrivervi, ma non ho voluto farlo per mezzo di carta e di inchiostro; ho
speranza di venire da voi e di poter parlare a viva voce, perché la nostra gioia sia piena.
13Ti salutano i figli della eletta tua sorella.
Incontriamo in queste parole questo interprete della tradizione giovannea, “il presbitero” –
è lo stesso nome che troviamo in Papia di Gerapoli: “Giovanni,il presbitero”. Parla alla
Chiesa, alla Signora eletta ed ai suoi figli, e dice con grande forza: “Poiché molti sono i
seduttori che sono apparsi nel mondo, i quali non riconoscono Gesù venuto nella carne. Ecco il seduttore e
l’anticristo!” Notate come per Giovanni, lui che ha amato Cristo, l’anticristo è colui
che nega Cristo, colui che non lo ama, anzi lo odia e gli si oppone. Chi è allora l’anticristo?
Colui che non riconosce che Gesù è il Figlio di Dio venuto nella carne, dice IIGv.
8Fate attenzione a voi stessi, perché non abbiate a perdere quello che avete conseguito, ma
possiate ricevere una ricompensa piena. 9Chi va oltre e non si attiene alla dottrina del Cristo, non
possiede Dio. Chi si attiene alla dottrina, possiede il Padre e il Figlio.
Probabilmente questa lettera è stata scritta qui a Gerapoli - appunto perché scritta dal
“presbitero Giovanni”, sia che si tratti dell’evangelista, sia che non si tratti di un suo
discepolo. E Papia ha incontrato di persona il “presbitero” Giovanni, preferendo la sua testimonianza
orale, i suoi racconti, addirittura a ciò che già si era scritto di Cristo. Ecco che il
“presbitero” se ne esce con questa espressione straordinaria - ne parleremo ancora a Colossi - contro
la gnosi: “Chi va oltre e non si attiene alla dottrina del Cristo, non possiede Dio”.
Cos’è la gnosi? La gnosi è una dottrina che privilegia una certa forma di
“conoscenza” (questo è il significato della parola “gnosi”) che si ritiene
più profonda della normale conoscenza che gli uomini hanno, una “conoscenza” segreta,
misteriosa, che pochi eletti hanno, riservata a circoli di “iniziati”. A quei tempi cominciavano a
sorgere delle persone che cercavano sincretisticamente di mettere insieme la “gnosi” ed il
cristianesimo. Non rifiutavano apparentemente Cristo; dicevano che Cristo era importante, ma che non bastava. Il
Cristo dei vangeli, della Chiesa, non era sufficiente; era per la massa, per il popolo. Per i
“competenti”, gli “iniziati”, c’era un di più a partire dal quale lo stesso
Cristo andava reinterpretato e capito. Era una forma sottile di opposizione al cristianesimo che non lo prendeva
di petto, non lo rifiutava esplicitamente, ma, di fatto, lo sottoponeva ad altre dottrine che, alla fin fine,
erano più importanti di Cristo stesso. Non era il Cristo la chiave di lettura di tutto, ma erano queste
idee ad essere la chiave di interpretazione di Cristo stesso. Oggi avviene qualcosa di analogo nelle correnti del
New Age. Pensiamo a Paulo Coelho o a tutti i personaggi di questa galassia new age o a questo buddismo rivisitato
dall’America e poi ritornata a noi. Nessuno di loro afferma che Gesù sia stato un imbecille, anzi,
apparentemente, se ne parla bene, come di un grande; però poi di fatto si dice di lui: “Sì,
Gesù era bravo, ma non è che questo importi più di tanto. Se voglio fare un cammino
spirituale debbo rivolgermi ad altri maestri che mi dicano come Cristo va capito”.
In una Mail recente mio fratello mi ha mandato un testo di Kurt Vonnegut – non è un pensatore New
Age, bensì un romanziere che è stato Presidente di un associazione dichiaratamente atea,
l’Associazione americana liberi pensatori, succedendo in questo ad Asimov - che dice: “Gesu' e'
particolarmente stimolante per me, perché ha notato quanto io stesso non posso fare a meno di notare, e
cioè, che la vita e' così dura, che la maggioranza degli uomini sono dei perdenti o si sentono dei
perdenti; tanto che una qualità essenziale per quasi tutti noi, se vogliamo mantenere uno straccio di
dignità, e' di mostrare una certa grazia nella sconfitta. questa, per me, è la lezione che ha
impartito mentre era sulla croce, che fosse Dio o no. E non e' stato né il primo né l'ultimo essere
umano, se questo era, a impartirla durante una incredibile agonia”. In fondo, in affermazioni come questa,
è evidente che per queste letture del cristianesimo la vita di Gesù non è poi dissimile da
ciò che tanti altri sapienti, e l’autore stesso dello scritto, potrebbero raggiungere da soli.
E’ una vita interessante, ma non il criterio, non la luce, non la salvezza. Ecco allora il presbitero
Giovanni: “Chi va oltre la dottrina di Cristo, non possiede Dio”. Non si tratta solo di parlar bene
di Cristo, ma di affermare che non può essere sorpassato da niente e da nessun altro.
Altrimenti Cristo viene assolutamente relativizzato, anche se apparentemente viene accolto.
Ultima cosa che notiamo qui a Hierapolis. Guardate in alto sulla collina. Quelle rovine lassù sono il
martyrion di S.Filippo apostolo, la chiesa memoriale del suo martirio, avvenuto, secondo la tradizione,
proprio qui. Filippo, secondo la tradizione, è passato per queste stesse strade, ha visitato gli stessi
luoghi che abbiamo visitato noi. Ed è stato poi ucciso sotto Domiziano, lo stesso che abbiamo incontrato
come riferimento possibile per la persecuzione di Giovanni evangelista. Di Filippo si parla in tre brani del
Vangelo di Giovanni e tutti quanti riguardano il “vedere”.
Nel primo di essi Filippo è fra i primi chiamati: Andrea viene chiamato per primo, poi, a sua volta, va a
chiamare Pietro, poi Gesù chiama Filippo e Filippo va a chiamare Nicodemo, il quarto, ed è lui a
dirgli: “Vieni e vedi”. Troviamo qui il verbo “venire” ed il verbo “vedere”,
riferiti proprio a Gesù.
Nel secondo testo –siamo a Gerusalemme - i Greci si recano da Filippo per dirgli: “Vogliamo vedere
Gesù”. E’ allora che Filippo va a chiamare Andrea ed insieme dicono a Gesù:
“Signore ti vogliono vedere”. Gesù comincia allora a dire: “Quando il Figlio sarà
innalzato da terra attirerà tutti a sé”. E’ chiaro che essere innalzati, in Giovanni,
è la croce. Quando Gesù mostrerà la presenza dell’amore di Dio - sapete che la croce
non è un segno di masochismo, è segno di un amore che supera il tuo rifiuto ed è questa la
grandezza del Cristianesimo l’annuncio di un Dio che ti ama anche quando tu non lo ami - quando il Figlio
sarà innalzato, quando morirà per il tuo peccato, quando morirà per la cattiveria
dell’uomo, quando ci amerà lo stesso, nonostante il nostro male, allora tutti leveranno lo sguardo a
colui che hanno trafitto. E guarderanno e capiranno la gloria di Dio.
Nel terzo testo è Filippo stesso, al momento dei discorsi dell’ultima cena, a dire a Gesù:
“Mostraci il Padre e ci basta”. Filippo vuole vedere Dio, vuole vedere il Padre, e Gesù gli
risponde (è forse la frase più importante del vangelo di Giovanni): “Ma Filippo, non hai
ancora capito? Non hai capito che chi vede me vede il Padre?” Questa è la frase culminante, per
certi aspetti, del vangelo di Giovanni. Vi leggo a conclusione di questa riflessione questo testo che è
ancora di Ignace de la Potterie, che già abbiamo conosciuto ad Efeso:
Nell’ultima cena Gesù dice: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (14,9). E’ il
versetto centrale del quarto Vangelo. Vedere fisicamente Gesù non bastava, ovviamente: anche i suoi nemici
lo vedevano eppure lo ritenevano semplicemente un uomo di Nazareth, anzi un impostore. Ma vedere e udire
fisicamente Gesù, un uomo con un volto, una carne, era indispensabile, per pervenire progressivamente a
contemplare in lui, con l’occhio della fede, il Figlio di Dio, cioè a scoprire in lui il Verbo fatto
carne.
Questa è la differenza tra la filosofia e la fede, la fede ha bisogno di incontrare Gesù, poi va
oltre, però, se Gesù non viene non si può essere cristiani, come non c’è
neanche l’anticristo, è Lui la persona decisiva...
E’ Gesù, con le parole, i gesti, i miracoli, con tutta la sua presenza, che introduce al Mistero
e conduce dal “vedere” un uomo di carne al riconoscere, in quella carne, il Verbo di Dio. Il
“vedere” fisico, per tutto il Vangelo, è la via d’accesso al Mistero. Questa pedagogia
del vedere diventa esplicita – è Gesù stesso che la spiega – nel capitolo 20. E pochi
finora sembrano averlo capito.
Dunque cosa è possibile scoprire?
Il punto di partenza è ciò che si vede con questi nostri occhi di carne: si comincia dai segni,
come il sepolcro vuoto o il giardiniere, un uomo reale in cui s’imbatte Maria Maddalena, che poi riconosce
in lui Gesù... E’ una progressione. Anche del verbo vedere: prima il verbo greco
βλέπω, che vuol dire scorgere, notare qualcosa. Poi
θεωρειν che troviamo per la Maddalena e vuol dire guardare attentamente,
osservare. Poi il verbo οραν, al perfetto greco che esprime la forma perfetta del verbo
vedere e che io tradurrei qui “ora vedo perfettamente, contemplo il senso profondo di ciò che
vedo”. Dunque dall’accorgersi di qualcosa alla contemplazione del Mistero di Dio nella realtà
visibile, questa è la dinamica della prima fede cristiana, secondo i Vangeli. E’ una storia
raccontata attraverso gli occhi degli apostoli. Certo. L’evangelista però cerca di descrivere, nei
primi testimoni della risurrezione, l’approfondimento progressivo del loro sguardo su Gesù. Il
semplice βλέπειν (accorgersi) dell’inizio, diventa uno sguardo attento,
scrutatore (θεωρειν), ma la pienezza della fede pasquale è
espressa solo dal verbo al perfetto . “Ho visto il Signore” come annuncia la Maddalena ai discepoli.
L’evangelista ha curato tutti i particolari di questo capitolo? Il capitolo è costruito in maniera
concentrica. Primo episodio: i due apostoli, Pietro e Giovanni, al sepolcro (vv. 1-10). Secondo:
l’apparizione alla Maddalena (vv. 11-18). Terzo: l’apparizione ai discepoli senza Tommaso (vv.
19-25). Infine, quarto: l’apparizione in presenza di Tommaso (vv. 26-29). Il primo episodio è
parallelo al quarto e il secondo al terzo. Questa struttura sottolinea che la fede in Cristo risorto si basa
sulla testimonianza “di quelli che hanno visto il sepolcro vuoto e il Signore vivo”. Sono parole di
padre Donatien Mollat. Non si parla più, spesso, in questo modo oggi...
Dunque, cosa riferisce il testimone Giovanni?
Limitiamoci alle apparizioni pasquali. Il primo episodio, Pietro e Giovanni al sepolcro, la tomba vuota, le
bende e Giovanni che “cominciò a credere” (non “credette” come recita la
traduzione normale, perché subito dopo aggiunge: “Infatti non avevano ancora compreso la
Scrittura”). E’ la fede iniziale del discepolo che Gesù amava. Anche per la Maddalena è
molto chiara la purificazione progressiva del suo sguardo. Quando riconosce quell’uomo dice “Maestro,
sei tu!”. No, non è più il maestro di prima. Maria è legata alla vecchia immagine che
aveva di lui. Ma poi accetta il riconoscimento della fede: è il Signore risorto. E’ lui stesso che
glielo dice. Allora capisce: Gesù non è più come prima pur essendo sempre la stessa
persona.
Poi l’apparizione ai discepoli senza Tommaso.
I discepoli sono pieni di gioia “alla vista del Signore”. Diranno a Tommaso: “Abbiamo visto
il Signore”. Lo avevano riconosciuto prima che aprisse bocca, perché avevano accettato la
testimonianza della Maddalena. E’ molto importante saper accettare una cosa su testimonianza. Ciò
che Tommaso non fa. Lui diffida della testimonianza dei suoi amici. Gesù voleva educare il loro sguardo
così: la prima tappa è il vedere fisico, i segni, quindi il vedere su testimonianza, infine vedere
e contemplare con lo sguardo trasformato dallo Spirito che permette di cogliere il senso delle cose, tutta la
profondità della realtà.
Tutto il cammino proposto dal vangelo di Giovanni consiste nel passare dal semplice accorgersi
dell’inizio – che è necessario perché la presenza di Gesù è un fatto
storico - ad uno sguardo attento, scrutatore (“teoria” viene da questo verbo
“theorein”, ma qui teoria non è un’idea, è capire chi è quella
persona).
Adesso vi invito, dopo aver detto il Padre Nostro, a recitare l’Eterno Riposo per i morti di questo luogo,
per i sacerdoti addetti ai culti pagani, per i ministri del Tempio di Plutone, che cercavano di dimostrare con
artifici l’immortalità - si abituavano gradualmente a resistere a vapori venefici che in quella zona
emanavano dal sottosuolo per impressionare le persone – e per tutti coloro che anelavano alla speranza
dell’immortalità per sé e per i loro cari e, non essendo ancora venuto Cristo, la cercavano
in questo Tempio.
Noi crediamo che Cristo può dare realmente la vita eterna anche a quelli che cristiani non sono, anche a
quelli morti prima di Lui. Dinanzi a tutte queste tombe vogliamo affidare al Signore anche le persone che hanno
vissuto qui, insieme ai nostri morti e ai nostri cari.
Per altri articoli e studi di d.Andrea Lonardo o sul libro dell'Apocalisse presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici