Voglio qui aprire un tema sul quale rifletteremo più ampiamente ad Aphrodisia: il tema del rapporto fra cristianesimo e cultura classica. Prendo spunto dai numerosi riferimenti ad Alessandro Magno, presenti in questa città. Fra le rovine possiamo incontrare la cosiddetta “casa di Alessandro Magno”, dove la tradizione vuole che abbia abitato nel 334 a.C., casa poi trasformata in luogo di culto, proprio per venerare il suo passaggio. Inoltre, gli scavi del Tempio di Atena hanno riportato alla luce una iscrizione nella quale si afferma che fu proprio Alessandro a pagare il completamento della struttura templare (l’iscrizione è ora al British Museum di Londra). Sebbene nelle fonti letterarie non ci sia certezza di un suo passaggio a Priene, tuttavia ci parla di lui anche la storia stessa della città che, avendo partecipato alla rivolta contro i Persiani nel 494 a.C., fu da essi distrutta. E’ poco prima dell’ascesa al potere di Alessandro che, alla metà del IV secolo, si decise di ricostruire la città più a monte (i motivi di questo non sono stati ancora completamente chiariti) con il conseguente impianto urbanistico, che riprende la struttura data a Mileto da Ippodàmo, che ha reso Priene famosa, nei secoli.
Dunque, Alessandro Magno. Non voglio tanto ripercorrere qui la vicenda culturale dell’ellenismo che ha
portato alla famosa koiné, ad una condivisione della lingua greca con i valori connessi alla
civiltà di cui era espressione. Mi interessa piuttosto vedere in Alessandro un luogo simbolico del
rapporto che le successive culture, ispirate dal cristianesimo, hanno voluto mantenere con il passato che le
aveva precedute. Il cristianesimo non ha fatto tabula rasa del passato. Ha desiderato che fosse non solo
conosciuto, ma anche amato, cercando in esso ciò che alla fede cristiana si opponeva e ciò che,
invece, era avvertito come una ricchezza da non disperdere.
Vorrei rifarmi qui alla lezione di R.Brague, professore alla Sorbona di Parigi. Secondo la sua analisi il
tratto culturale essenziale dell’Europa è dato dalla capacità, ereditata dalla civiltà
romana, di far proprio il portato positivo delle culture precedenti. Questa conservazione valorizzante del
passato è stato l’atteggiamento con il quale il mondo latino si è rivolto alla cultura greca
a lui precedente. "Significa sapere che ciò che si trasmette non proviene da se stessi, e che lo si
possiede solo a stento, in modo fragile e provvisorio", scrive Brague, aggiungendo "Dire che noi siamo romani...
significa riconoscere che in fondo non si è inventato niente, ma che si è saputo trasmettere, senza
interromperla, ma ricollocandosi al suo interno, una corrente venuta da più in alto".
Così R.Brague afferma nel volume del 1992, Europe, la voie romaine, successivamente tradotto in Italia da
Rusconi, con il titolo Il futuro dell'Occidente. Nel modello romano la salvezza dell'Europa. Creatore di
linguaggio, amante dell’invenzione di nuovi termini, Brague chiama questo atteggiamento “spirito
di secondarietà”. In Italia Marta Sordi, docente di Storia greca alla Cattolica di Milano, ha
ipotizzato un’analoga interpretazione del genio della cultura latina (vedi su tutto questo due interviste a
R.Brague ed un testo di Marta Sordi dal titolo Il contributo della civiltà greca e romana alla costituzione della
cultura europea, nella sezione Approfondimenti del nostro sito www.gliscritti.it).
In questa “identità eccentrica” Brague individua l’antidoto contro una
assolutizzazione della cultura europea.
Il cristianesimo, e particolarmente il cattolicesimo, non solo non ha alterato questa impostazione di fondo, ma
l’ha rafforzata, per la sua origine storicamente orientale che si è venuta ad inserire in Occidente,
e per la propria apertura universale missionaria, che lo ha posto costantemente in tensione feconda con le
culture di tutti i popoli. Per Brague è proprio questa prospettiva che ha reso possibile, ben prima
dell’illuminismo, la separazione fra politica e religione, poiché la fede cristiana non si è
mai identificata con una delle differenti forme storiche che ne sono scaturite.
Come Brague ama ripetere, "la civiltà dell'Europa cristiana è stata costruita da gente il cui scopo
non era affatto quello di costruire una "civiltà cristiana", ma di spingere al massimo le conseguenze
della loro fede in Cristo".
Ecco che Alessandro Magno, che ha probabilmente calcato queste pietre, non è stato mai dimenticato. Anzi la sua vicenda è diventata luogo di paragone per la formazione dell’uomo. Se i racconti omerici, nella loro mitologia, sono diventati continuo riferimento culturale, lo stesso è avvenuto della vicenda storica di Alessandro Magno, anch’essa pian piano coloritasi delle tonalità della leggenda. Infiniti sono i riferimenti letterari, musicali, iconografici con cui la figura di Alessandro è stata ricordata nei secoli. Il suo spingersi al di là di tutto ciò che era allora conosciuto – vedi la sua spedizione che lo ha portato fino a toccare le acque del Gange – ha portato a formulare i due episodi leggendari del suo volo in cielo e della sua discesa nel fondo dell’Oceano. Troviamo i due episodi, ad esempio, nello straordinario arazzo, detto appunto di Alessandro Magno, conservato a Genova, nel Palazzo del Principe, tessuto a Tournai, nel 1460 ca. Lì – ma è uno dei tantissimi luoghi dove possiamo vedere rappresentati gli stessi episodi – Alessandro ci appare in una cabina, sollevata verso l’Empireo, verso Dio stesso che gli appare. Il sovrano macedone è portato in alto da 4 grifoni che fanno volare la sua cabina, spinti a ciò da carni issate su dei bastoni che i grifoni cercano di raggiungere. Subito a fianco vediamo Alessandro in un globo di vetro che viene calato nel fondo dell’Oceano, per conoscere le profondità del mare. E’ l’immagine stessa del desiderio di conoscere dell’uomo e, proprio per questo, diviene a volte il simbolo dell’orgoglio che di tutto vuole impossessarsi, ma, allo stesso tempo, è il segno dell’altissima dignità dell’essere umano che, solo fra gli esseri viventi, desidera il sapere. Così i secoli si sono cimentati nel rappresentare le scene del famoso nodo di Gordio (il nodo custodito, secondo la leggenda, nella città di Gordio che nessuno riusciva a sciogliere e che Alessandro tagliò di netto con la sua spada, segno di forza e decisione) o il rispetto verso le donne di Dario, fino al matrimonio con Rossane, figlia di Ossiarte, o ancora l’incontro con i bramini (o gimnosofisti) indiani che gli annunciarono che anche lui, conquistatore del mondo, non avrebbe alla fine posseduto che il terreno delle dimensioni della sua tomba. Tutta l’arte d’Europa non ha dimenticato la tradizione classica ed ellenistica, ma la ha prolungata a suo modo. I temi biblici e religiosi si alternano continuamente, nella storia, con le immagini tratte dal mondo pagano e classico. Le due fonti supreme dell’iconografia medioevale, rinascimentale, barocca, sono immutabilmente, oltre agli eventi via via nuovi dell’epoca, la rivelazione cristiana ed il mondo classico. Non voglio qui soffermarmi su quanto queste immagini ideali di Alessandro corrispondano alla verità storica della sua vicenda - come è noto, su numerosi episodi della sua vita la ricerca storica moderna fa piazza pulita del mito – ma, piuttosto, sul permanere del racconto di ciò che il passato è stato, in culture diverse dalla nostra. Riprenderemo questo tema, come vi dicevo, ad Aphrodisias, meditando lì come i Padri della Chiesa abbiano parlato della cultura greca e come abbiano spinto i propri allievi a cimentarsi con essa nello studio. Anche il nostro viaggiare che ci porta a fermarci non solo a conoscere le figure cristiane che qui hanno vissuto, ma anche la storia delle civiltà che si sono succedute, con l’amore all’archeologia ed alla ricostruzione storica, è eredità di questo.
Prima di leggere il capitolo degli Atti degli Apostoli che riguarda questo luogo, vorrei farvi notare che Luca
è l’autore degli Atti oltre che del vangelo e questo è già un segno che la Chiesa
è la continuazione della storia di Gesù. Lo stesso evangelista scrive due libri, non scrive
solo la storia di Gesù, ma mostra che c’è un legame strettissimo fra i suoi due libri e fra
le due storie che si raccontano in essi. E’ lo stesso Gesù che ha voluto la Chiesa e per questo
rifiutare la Chiesa vuol dire rifiutare Lui. Gli apostoli hanno capito chiaramente questo legame. Capite bene
come questo accenno meriterebbe ben altro spazio, ma non è questo il momento ed il luogo. Vi basti come
stimolo alla riflessione.
Seconda premessa: nel capitolo 20 degli Atti, nel capitolo che ora leggeremo – e precisamente al versetto 5
- cominciano le famose “sezioni-noi” degli Atti. Se prima Luca diceva “Paolo fece
questo”, “Pietro fece quest’altro”, da questo punto in poi comincia a dire: “Noi
partimmo, noi andammo”, segno letterario evidente che da questo momento in poi l’autore degli Atti
viaggia insieme a Paolo. Mentre prima tutto era raccontato in terza persona, ora si usa la prima persona plurale,
il “noi” (da qui, chiaramente questa denominazione di “sezioni-noi” che gli studiosi
usano nel commentare gli Atti). Guardiamo allora il cambiamento che avviene con il versetto 5, dove per la prima
volta compare il “noi”:
4Lo accompagnarono Sòpatro di Berèa, figlio di Pirro, Aristarco e Secondo di
Tessalonica, Gaio di Derbe e Timòteo, e gli asiatici Tìchico e Tròfimo. 5Questi
però, partiti prima di noi ci attendevano a Troade; 6noi invece salpammo da Filippi dopo i
giorni degli Azzimi e li raggiungemmo in capo a cinque giorni a Troade dove ci trattenemmo una settimana.
Questa “sezione-noi” continua fino a Roma. Quindi Paolo giunge a Roma accompagnato
dall’autore degli Atti. Paolo e l’autore degli Atti camminano insieme e quest’ultimo ha visto,
da qui in poi, le cose che sono accadute. Saltiamo alcuni versetti ed arriviamo a 20,16:
16Paolo aveva deciso di passare al largo di Efeso per evitare di subire ritardi nella provincia
d'Asia: gli premeva di essere a Gerusalemme, se possibile, per il giorno della Pentecoste.
Siccome Paolo era stato tre anni ad Efeso, la gente gli voleva molto bene e lui voleva molto bene a loro. Sapeva
che, se fosse passato di là, sarebbe stato trattenuto a lungo per i saluti. Decide allora di non passare
per la città, perché per lui è importante andare a Roma. Deve prendere questa benedetta nave
ed andare ad annunziare il vangelo anche nella capitale dell’Impero Romano di allora, fino al cuore del
mondo di allora (per questo gli Atti usano l’espressione “fino agli estremi confini della
terra”, At 1,8).
Non si ferma ad Efeso, ma sbarca qui a Mileto e si fa raggiungere da Efeso dagli anziani - anziano in
greco si dice “presbitero”, la parola che darà origine alla parola “prete”, ed i
primi “preti” erano appunto i presbiteri, gli anziani della comunità. Paolo chiama quindi i
preti, gli anziani di Efeso, per parlare loro.
17Da Milèto mandò a chiamare subito ad Efeso gli anziani della Chiesa.
18Quando essi giunsero disse loro: «Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo
giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: 19ho servito il Signore con tutta
umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei.
Vedete come la predicazione cristiana all’inizio è stata molto osteggiata. Avviene nel primo periodo
della storia cristiana il contrario di quello che avverrà in seguito, quando il cristianesimo, purtroppo,
perseguiterà a volte l’ebraismo. Noi dobbiamo riconoscere delle colpe gravi – ed il Papa ci
è maestro in questo - per come abbiamo trattato l’ebraismo nei secoli successivi, ma nei primi
secoli avviene esattamente il contrario. C’è una persecuzione – attenti bene, non da parte di
tutti gli ebrei, ma dei capi delle sinagoghe – contro i cristiani e Paolo ha dovuto con molte lacrime e
molte prove essere sottoposto a continui attacchi, anche a rischio della stessa vita.
20Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare
a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case, 21scongiurando Giudei e Greci di convertirsi a
Dio e di credere nel Signore nostro Gesù.
Qui sono interessanti questi due particolari. Innanzitutto Paolo predica in pubblico - non ci sono ancora le
chiese, chiaramente! - predica in pubblico nelle sinagoghe fino a che ce lo fanno stare. Poi lo cacciano e lui
inizia a predicare nella scuola di Tiranno, ad Efeso, e poi nelle case. Le persone invitavano altri nelle loro
case e Paolo spiegava loro il cristianesimo.
Il secondo aspetto che merita di essere sottolineato è che è proprio questo il messaggio cristiano:
convertirsi a Dio è uguale a credere nel Signore Gesù Cristo. Sono due espressioni di fatto
identiche: arrivare fino a Dio, vuol dire accogliere Colui che Dio ha mandato, vuol dire diventare parte con
coloro che accolgono il Signore Gesù.
22Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là
mi accadrà. 23So soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono
catene e tribolazioni.
Paolo sa che non va a fare un viaggio di piacere, ma dice: “Sicuramente anche lì, come lo Spirito mi
ha annunziato, succederanno altri problemi”.
24Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia
corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della
grazia di Dio.
Questa espressione la ritroveremo nella lettera a Timoteo, questa idea che la vita è come una corsa che
bisogna correre fino in fondo e arrivare alla meta. L’importante non è partire, arrivare a
metà strada, ma bisogna arrivare alla fine di questa corsa, concluderla. Bisogna arrivare al momento della
morte a dare testimonianza al Signore Gesù.
25Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato
annunziando il regno di Dio.
Se vi ricordate quando, in un incontro a S.Melania vi ho fatto un’introduzione al Vangelo di Luca, vi ho spiegato che Luca sottolinea
spesso che Gesù “passa” in mezzo al popolo. E quando Gesù “passa”,
quello è l’ “oggi” della salvezza. Anche quando Gesù è rifiutato, Luca
dice: “Gesù, passando in mezzo a loro, se ne andò” (Lc 4). E’ il kairòs,
la “grande occasione”, il momento che bisogna afferrare, quando Gesù ti parla – e quando
la Chiesa ti parla - tu devi dire: “Sì, divento cristiano”. Paolo è passato in mezzo a
loro e questi anziani hanno accolto questa grande occasione per divenire cristiani.
26Per questo dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che
si perdessero, 27perché non mi sono sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà
di Dio.
Questa è una espressione ancora una volta molto forte. A volte siamo noi ad essere colpevoli del fatto che
un altro non crede, per la testimonianza scadente che diamo, altre volte è, invece, come qui, il mistero
del Male che si manifesta, come abbiamo visto altre volte insieme, commentando la figura di Giuda. E’
inutile costruire sempre giustificazioni. A volte l’altra persona non ha nessuna voglia – oppure
siamo noi per primi che non ci vogliamo convertire.
Paolo dice: “Fate quello che volete, ma rendetevi conto che non è colpa mia se avete rifiutato
questo messaggio. Non vi è interessato, è un problema vostro, ve la vedete voi con Dio. Io ce
l’ho messa tutta per annunziare il vangelo!”
28Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come
vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. 29Io so che
dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; 30perfino di
mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé.
31Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra
le lacrime ciascuno di voi.
Questo è molto bello. Paolo è uno che inizia le cose, però poi arriva un momento in cui le
passa ad altri, anche perché lui invecchia. Efeso ci ricorda il tema della continuità. Non
sempre è chiesto alla stessa persona, allo stesso catechista, allo stesso prete, alla stessa suora di
portare avanti un compito per tutta una vita, ma può essere giusto e bene affidarla, consegnarla,
spogliandosene. Ci sono momenti nei quali si deve decidere come può continuare una esperienza, come deve
essere portata avanti ancora, con una vera libertà di spirito.
32Ed ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di
concedere l'eredità con tutti i santificati.
Il Cardinale Martini è venuto qui, prima di salutare la Diocesi di Milano, ha fatto proprio qui in Turchia
l’ultimo pellegrinaggio diocesano, come ci ha spiegato la guida poco fa, proprio per poter dire anche lui:
“Questo è il mio saluto” e “Io vi affido al Signore” - l’uomo sa di non
essere per sempre il custode della vita degli altri - “E vi affido alla parola della sua Grazia”.
Martini ha sempre fatto notare che da un lato la Parola di Dio è affidata a noi - ci viene data la Parola
di Dio che è Gesù ed è anche la Bibbia - perché sia donata agli altri, ma è
anche vero il contrario, poiché siamo noi che restiamo affidati a questa Parola. E’ questa Parola
che sempre ci parla, sempre ci rinnova. Pensate alla Messa che da duemila anni ci dona la Parola di Dio. Noi
siamo affidati a quella Parola che sempre ci salva.
33Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno.
34Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie
mani.
S.Paolo ha sempre lavorato, non ha mai avuto elemosine, si è sempre pagato la vita, lavorando con le
proprie mani.
35In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli,
ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia nel dare che nel
ricevere!».
Questa è un’espressione bellissima usata da Gesù. Pensate, non c’è nei vangeli.
Pure S.Paolo l’ha sentita da un apostolo o da un’altro discepolo di Gesù. Sapete che nei
vangeli non sono state scritte tutte le cose che Gesù ha detto e ha fatto. Quelle che ci sono sicuramente
sono state dette e fatte da Gesù, ma ce ne sono altre e questa è una delle espressioni famose di
Gesù conservate al di fuori dei vangeli. Sono chiamate gli agrapha, i “detti non
scritti”, le parole che Gesù ha detto, ma non sono state scritte nei vangeli. Paolo qui riferisce
una frase di Gesù, è un pezzo di vangelo che troviamo negli Atti: “Vi è più
gioia nel dare che nel ricevere”. Salutando gli anziani di Efeso, Paolo lascia loro questo messaggio,
questa parola di Gesù.
36Detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò. 37Tutti scoppiarono
in un gran pianto e gettandosi al collo di Paolo lo baciavano, 38addolorati soprattutto perché
aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave.
C’è questo momento di saluto. Lo baciano, piangono. Poi lo accompagnano alla nave e Paolo, da
Mileto, parte per Gerusalemme e da lì ripartirà per Roma.
Leggiamo alcuni brani delle lettere a Timoteo di S.Paolo. Sono delle lettere molto belle, molto ricche e anche
molto divertenti. Ci sono aspetti e temi particolari - alcuni che si prestano anche a molte discussioni, come per
esempio alcuni passi sulle donne - che vanno riletti, come Efesini, collocandoli nel contesto storico nel quale
sono state scritte le lettere. Le lettere a Timoteo sono dette trito-paoline, insieme alla lettera a Tito,
da alcuni autori che ritengono non siano di mano di Paolo stesso, ma appartengano ad un terzo stadio, dopo le
lettere sicuramente paoline e dopo quelle che potrebbero essere di una seconda mano – dette perciò
deutero-paoline. Le sette lettere sicuramente paoline sono: I Tessalonicesi, I e II Corinti, Filippesi, Galati,
Romani, Filemone. Le lettere agli Efesini, ai Colossesi e la II Tes. sono dette deutero-paoline, perché
secondo molti studiosi, rappresentano una tappa diversa rispetto alle lettere sicuramente autentiche. Molti
termini sono gli stessi delle prime sette lettere, ma queste lettere si segnalano anche per alcune
particolarità linguistiche e per alcune tematiche nuove. Potrebbe allora averle scritte un discepolo di
Paolo, cosa che spiegherebbe la continuità ed, insieme, le novità. Le lettere trito-paoline sono
attribuite ad una terza mano, successiva ancora alle deutero-paoline. Un caso a parte è, ancora, la
lettera agli Ebrei, che costituisce una entità a sé. Le lettere trito-paoline sono dette anche
lettere pastorali perché ci parlano di una situazione della Chiesa dove non sono più
direttamente gli Apostoli a guidarla, ma ci sono già i primi vescovi loro successori, i primi pastori da
loro nominati, scelti direttamente dagli Apostoli. E le lettera a Timoteo e Tito affrontano appunto i problemi
“pastorali” che costoro si trovano ad affrontare. Sono scritte chiaramente da Roma. E’ il luogo
di origine. Si afferma in esse che Paolo sta per concludere la sua corsa – fra poco lo vedremo - e manda
questi scritti a Timoteo dicendogli come si deve comportare e chiedendogli di venirlo a salutare a Roma. E’
questo anzi il fine che traspare: chiedere a Timoteo di venire a Roma, prima della morte di Paolo. Ma la
destinazione è proprio quella di Efeso; infatti ci sono due passaggi nei quali si parla di Efeso.
Cominciamo leggendo da 1Tm 1,3:
3Partendo per la Macedonia, ti raccomandai di rimanere in Efeso, perché tu invitassi alcuni
a non insegnare dottrine diverse 4e a non badare più a favole e a genealogie interminabili, che
servono più a vane discussioni che al disegno divino manifestato nella fede. 5Il fine di questo
richiamo è però la carità, che sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede
sincera. 6Proprio deviando da questa linea, alcuni si sono volti a fatue verbosità,
7pretendendo di essere dottori della legge mentre non capiscono né quello che dicono, né
alcuna di quelle cose che danno per sicure.
Cosa è successo probabilmente ad Efeso? Che sulla fede chiara, limpida, in Gesù morto e risorto,
alcune persone, probabilmente degli gnostici, hanno cominciato a fare delle speculazioni, hanno cominciato
a dire: “Ma io ne so di più, io so qual è la via più giusta di quella che seguono gli
altri” e hanno costruito “favole e genealogie interminabili”, sovraccaricando di miti la
limpidezza e la semplicità del linguaggio evangelico. Questo, vedremo, ritorna continuamente. Siamo in un
periodo in cui la fondazione della Chiesa è già stata fatta da lungo tempo e c’è il
problema di come mantenere la giusta linea, perché su una realtà essenziale si sono introdotte
fantasie inventate da persone che ne dicono di tutti i colori. In 2Tm 1,18 di nuovo si parla di Efeso e si
dice:
17Anzi, venuto a Roma, mi ha cercato con premura, finché mi ha trovato. 18Gli
conceda il Signore di trovare misericordia presso Dio in quel giorno. E quanti servizi egli ha reso in Efeso, lo
sai meglio di me.
Le lettere parlano di Efeso, perché Timoteo è stato scelto da Paolo, per esser vescovo di Efeso ed
esercitare lì il ministero episcopale.
Vi sottolineo brevemente solo alcuni aspetti essenziali di queste lettere, il primo dei quali è il
riproporre che Cristo è il cuore della fede e che nella sua fede è promessa la salvezza a tutto il
mondo, a tutti gli uomini. C’è il brano bellissimo di 1Tm 2,1-3. E’ uno dei grandi brani che
insegnano a noi cristiani a pregare anche per chi non crede in Gesù Cristo, a pregare per gli atei, per
gli ebrei, per i musulmani. E, prima ancora, a pregare per i governanti.
1Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e
ringraziamenti per tutti gli uomini, 2per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché
possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità.
Che si preghi anche per i re, per i governanti, per i politici. I cristiani all’inizio pensavano che
sarebbe arrivata subito la fine del mondo, man mano che passa il tempo si accorgono che la storia continua, gli
imperatori cambiano, i governanti si avvicendano. Allora Paolo dice: “Pregate il Signore per i vostri
governanti, perché siete legati a loro”. Pensate l’importanza di insegnare ai figli ed ai
nipoti la competenza in politica, il leggere i giornali - sapete che questa è una realtà importante
nel cammino cristiano. Noi aderiamo a Cristo, però poi chiediamo a tutte le persone di partecipare della
polis, della vita politica. C’è questa consapevolezza che se i governanti si comportano bene tutto
il popolo può vivere meglio la sua vita. Il brano continua poi:
3Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, 4il
quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. 5Uno
solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù,
6che ha dato se stesso in riscatto per tutti.
Notate la forza di queste espressioni: qui si dice che il desiderio di Dio. Il disegno di Dio è di
salvare tutti gli uomini. Come può avvenire questo noi non lo sappiamo, però noi sappiamo
che Dio è partito da questo desiderio! Questo è una roccia, un punto fermo della nostra vita, anche
dinanzi a chi è ateo, a chi non accetta il cristianesimo. Noi sappiamo che Dio ha questo desiderio. Questo
aiuta molto secondo me anche a capire l’idea di Purgatorio, che molti vorrebbero togliere. In realtà
l’idea di Purgatorio è la coscienza che veramente una persona si deve purificare del male che ha
fatto in questa vita. La dottrina del Purgatorio prende sul serio se tu hai creduto o non hai creduto, se hai
amato o non hai amato, se sei andato a messa o non ci sei andato, però prende anche sul serio la
realtà che Dio è più grande del bene e del male che tu hai fatto in Terra. C’è
un’aggiunta di Grazia che Dio dà e questo è legato a questa grande professione: Dio vuole che
tutti gli uomini siano salvi. Il cristianesimo, confrontandosi con tutto il mondo - pensate con che sguardo noi
dobbiamo guardare il mondo, gli uomini - deve percepire ed annunciare il desiderio di Dio di salvare tutti gli
uomini. Questo quanto ci porta fuori da un’ottica chiusa, legata solo a chi è già cristiano,
a chi già si conosce, a chi già va in parrocchia! A partire dal disegno di Dio si vede tutta quanta
la vita in un certo modo. Nella 2Tm 2,11, c’è l’altro famoso brano:
11Certa è questa parola:
Se moriamo con lui, vivremo anche con lui;
12se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo;
se lo rinneghiamo, anch'egli ci rinnegherà;
13se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele,
perché non può rinnegare se stesso.
Notate: qui appare il grande peccato dell’apostasia. Il rinnegare la fede è veramente una cosa
gravissima. Evidentemente c’erano delle persone che avevano ricevuto la fede cattolica e poi
l’avevano rifiutata. Mentre S.Paolo è molto comprensivo verso chi manca di fede. La fede deve essere
grande, deve essere forte. Se però noi manchiamo di fede, Cristo resta fedele. E’ un invito molto
grande, di nuovo, a guardare all’immensa misericordia di Cristo che guarda a tutti quanti noi. Su questa
fedeltà di Cristo si misura la fedeltà degli uomini. Tutto in queste lettere ci invita a vedere lo
scorrere del tempo, di un tempo lungo, e della corrispettiva fedeltà e perseveranza che ci è
richiesta. Innanzitutto è interessante - e questo pone anche la domanda se veramente queste lettere sono
state scritte da S.Paolo – vedere come, nell’inizio della seconda lettera a Timoteo, si parla dei
nonni, dei genitori e dei nipoti. Ci sono già tre generazioni di persone che sono cristiane.
Leggiamo 2Tm 1,5:
5Mi ricordo infatti della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in
tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te.
C’è la coscienza che questa fede ha attraversato le generazioni: la nonna, la madre, ed è
arrivata a Timoteo. Questa è una realtà molto grande, quella della fecondità che trasmette
la vita di generazione in generazione. Da un lato noi dobbiamo incoraggiare - ognuno di noi sa che nelle famiglie
non sempre è facile avere bambini e che ci sono persone che hanno difficoltà ad avere figli –
a riscoprire che c’è una fecondità spirituale, che non c’è solo la vita fisica
trasmessa da chi ha avuto un figlio, ma anche la vita di fede che passa attraverso le generazioni, la vita
trasmessa attraverso il dono della Grazia. Ma d’altro canto tutto questo ci riporta proprio
all’importanza anche e soprattutto della trasmissione della vita stessa, attraverso i figli ed i nipoti, di
generazione in generazione. Di sicuro noi in questo cogliamo anche l’importanza dell’educazione dei
nipoti. Se non ci sono figli e nipoti spesso si crea uno squilibrio nella vita delle persone. Mi diceva una
persona che mi parlava di altri, descrivendoli a suo modo, poiché non avendo ancora avuto nipoti e non
aveva perciò molto da fare in casa, in famiglia: “Certo quelle lì non sono mai disponibili,
perché hanno da fare con la loro famiglia”. Ed io rispondevo tra me e me: “E meno male! Penso
che il problema sia proprio quello, che tu non abbia niente da fare”. Alcune persone che vivono in maniera
ossessiva certi problemi religiosi, se avessero figli e nipoti da curare, subito si calmerebbero e
ricomincerebbero a ragionare! C’è allora questa grazia che è fisica e spirituale,
dell’essere genitori e dell’essere nonni. Notate bene: non è solo la paternità fisica o
l’essere nonni, non è solo il curarsi della propria discendenza. Ma è l’avere cura dei
figli dei figli, dei figli e dei nipoti anche delle altre famiglie. Questo ti porta subito sul terreno della
realtà e della trasmissione della fede. Ti apre, sblocca i circuiti chiusi che talvolta si creano. Ti
smuove il desiderio che le nuove generazioni siano cristiane, che questa fedeltà al vangelo attraversi le
generazioni. Tu sei in gioco con la tua vita perché realmente questa fede sia sempre la stessa e sia
sempre nuova, perché anche l’ultimo nato possa capire che quella fede è anche per lui. Vi
faccio un esempio anche della mia vita di prete. Per me è evidente, lo so bene ormai. Voi vedete che ad
alcuni non importa niente dell’oratorio. Ma non appena diventano nonni, l’oratorio diviene per loro
importantissimo. Per alcune persone sembra che la parrocchia sia divisa in due: la Chiesa da un lato e
l’oratorio e lo spazio per i bambini e per i giovani dall’altro. Alcuni da vent’anni non vanno
in oratorio, perché entrano direttamente in chiesa. Ma appena hanno un bambino, un nipotino, che lo
frequenta subito se ne occupano, si accorgono se il parco dei giochi è fatto bene oppure no. Basta che hai
un piccolo da curare e subito i tuoi orizzonti si ampliano a considerare altri aspetti della vita di una
parrocchia che non siano semplicemente quelli celebrativi. E’ un piccolo esempio ma ti fa capire
l’unità della trasmissione della fede.
Vi leggo ora altri brani. Il prossimo è molto divertente ma anche terribile, S.Paolo riflette e spiega a
Timoteo che dopo un po’ di tempo bisogna passare dalla semplice ricezione della fede all’annunzio del
vangelo. Servono dei lunghi anni durante i quali uno si forma, però poi bisogna cominciare a dare. Pensate
di nuovo all’immagine di Artemide degli Efesini, questa divinità dai molti seni ai quali tutti
vengono a succhiare! Ed all’immagine di d.Pierangelo Sequeri per ironizzare su quell’idea di Chiesa
dove si viene sempre a chiedere, sempre ci si lamenta, sempre si vuole un cibo migliore, proprio come ci si
rivolge a quelle divinità orientali dai seni smunti, e non viene mai il tempo di cominciare a dare, ad
impegnarsi, perché chi arriva per la prima volta trovi qualcosa per essere nutrito a sua volta. Leggiamo
2Tm 3,1-7
1Devi anche sapere che negli ultimi tempi verranno momenti difficili. 2Gli uomini
saranno egoisti, amanti del denaro, vanitosi, orgogliosi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, senza
religione, 3senza amore, sleali, maldicenti, intemperanti, intrattabili, nemici del bene,
4traditori, sfrontati, accecati dall'orgoglio, attaccati ai piaceri più che a Dio,
5con la parvenza della pietà, mentre ne hanno rinnegata la forza interiore. Guardati bene da
costoro! 6Al loro numero appartengono certi tali che entrano nelle case e accalappiano donnicciole
cariche di peccati, mosse da passioni di ogni genere, 7che stanno sempre lì ad imparare, senza
riuscire mai a giungere alla conoscenza della verità.
Qui si riferisce a delle donne, ma si può allargare in generale a tutti. E’ terribile questo brano!
Che cosa prende in giro qui Paolo? C’erano delle situazioni nelle quali alcune persone volevano
continuamente ricevere delle cose, istruzioni, ecc., ma non passavano mai a dire: “Adesso questa fede ce
l’ho ed è il momento di cominciare a giocarla”. C’è questo modo diretto, molto
duro, di apostrofare queste persone: “Stanno sempre lì ad imparare, senza mai giungere alla
conoscenza della verità!”
Poi, al cap. 2,2, si vede l’esigenza di donare ad altri ciò che si è ricevuto, perché
anche le altre persone siano in grado, a loro volta, di donarlo ad altri. Pensate ai ragazzi della parrocchia ai
quali stiamo chiedendo di diventare aiuto-catechisti. Un catechista comincia ad un certo punto a promuovere altre
vocazioni, comincia a dire: “Va bene, io so farlo, lo faccio; però chi lo farà con me, chi lo
farà dopo di me?”
E Paolo dice così a Timoteo (2Tm 2,1)
1Tu dunque, figlio mio, attingi sempre forza nella grazia che è in Cristo Gesù
2e le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali
siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri.
Capite? Questo non viene detto subito, all’inizio. Con queste lettere siamo in un momento successivo. Paolo
ha già trasmesso a Timoteo; ora gli dice: “Fa attenzione anche tu, figlio mio. Anche tu sii in grado
di capire a chi puoi dire delle cose perché a loro volta quelle persone continuino a fare questo
passaggio, di bocca in bocca, come è già avvenuto negli anni passati”.
Poi c’è un altro brano dove, sempre con la franchezza assoluta tipica di queste lettere, si affronta
il tema delle vedove: 1Tm 5,3. Evidentemente sono morte delle persone. Evidentemente del tempo è
passato dal primo annunzio, al punto che persone che si sono sposate hanno già perso i loro mariti o le
loro mogli. Cosa fare allora? La Parola di Dio è viva anche quando noi saremo nella condizione di vedovi,
di vedove! La Parola di Dio spinge ad essere cristiani in ogni età della vita. Sapete che il nostro tempo
tende a dire che in alcune situazioni di vita non esiste più la vita, che alcune età della vita non
sono più importanti. In questa lettera a Timoteo invece si parla di tutto questo e si sottolinea appunto
questo aspetto. Paolo scherza su questo: ci sono persone che sono veramente vedove e sono ancora più
disponibili per annunziare il vangelo, altre che invece vogliono risposarsi. Allora lui dice che le une sono vere
vedove, le altre lo sono per modo di dire. Non le disprezza, dice però che queste persone hanno ancora un
altro desiderio.
3Onora le vedove, quelle che sono veramente vedove; 4ma se una vedova ha figli o nipoti,
questi imparino prima a praticare la pietà verso quelli della propria famiglia e a rendere il
contraccambio ai loro genitori, poiché è gradito a Dio. 5Quella poi veramente vedova e
che sia rimasta sola, ha riposto la speranza in Dio e si consacra all'orazione e alla preghiera giorno e notte;
6al contrario quella che si dà ai piaceri, anche se vive, è gia morta.
7Proprio questo raccomanda, perché siano irreprensibili. 8Se poi qualcuno non si
prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è
peggiore di un infedele.
Notate la forza con cui vengono dette queste cose. Addirittura la vedovanza, come nella figura di Santa Melania
che divenuta vedova si consacrò come monaca, può diventare occasione per una nuova scoperta della
preghiera, della carità. Però bisogna sempre avere la grande cura della propria famiglia, dei
propri figli, dei propri nipoti, della vita delle persone che sono affidate a noi.
Ancora leggiamo il versetto 13, divertente e terribile, dove si parla delle vedove che non si vogliono consacrare
e aspirano a risposarsi.
13Inoltre, trovandosi senza far niente, imparano a girare qua e là per le case e sono non
soltanto oziose, ma pettegole e curiose, parlando di ciò che non conviene. 14Desidero quindi
che le più giovani si risposino, abbiano figli, governino la loro casa, per non dare all'avversario nessun
motivo di biasimo.
Poi si parla dei preti e dei diaconi ai quali vengono dati consigli analoghi. Sapete che a quei tempi,
all’inizio della Chiesa, gli sposati accedevano al sacerdozio e addirittura all’Episcopato,
mentre oggi, anche nella Chiesa ortodossa, se uno non è celibe non può diventare vescovo. Nella
Chiesa antica questo divieto ancora non c’era. Sicuramente Gesù non era sposato ed ha invitato al
celibato. Paolo non era sposato, però altri Apostoli lo erano, Giovanni sicuramente non era sposato,
Pietro, invece, sicuramente è stato sposato - ce lo dicono i Vangeli che raccontano l’episodio in
cui sua suocera viene guarita da Gesù. Vediamo allora 1Tm 3,1
E' degno di fede quanto vi dico: se uno aspira all'episcopato, desidera un nobile lavoro.
Questo lo cito spesso ai seminaristi. Tutti criticano i seminaristi dicendo loro: “Voi aspirate
all’episcopato e questo è male”. Io dico che non è sbagliato, ma uno che vuole
diventare vescovo sappia che aspira ad un lavoro, e ad un lavoro difficile. Non va a godersi la gloria; se in
quella città poi le cose vanno male la responsabilità è sua. Alcuni vogliono diventare
vescovi, ma non vogliono andare in alcune Diocesi: lì è troppo piccolo, lì ci sono pochi
preti, lì il clero non è colto, lì c’è la mafia, lì c’è la
camorra, lì c’è poca gente, lì non c’è l’università. In
realtà le lettere invitano a desiderare di avere il carisma grande dell’episcopato, ma solo
perché un nobile lavoro, è un lavoro per Dio. E, se ci sono i problemi, è compito del
vescovo risolverli!
2Ma bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta,
(cioè se è vedovo non può sposarsi una seconda volta.)
sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare,
(anche questo dico sempre ai seminaristi: “Guardate che bisogna saper spiegare bene il vangelo)
3non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso
(il vescovo non può essere una persona che si arrabbia per ogni sciocchezza)
non attaccato al denaro. 4Sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con
ogni dignità, 5perché se uno non sa dirigere la propria famiglia, come potrà aver
cura della Chiesa di Dio? 6Inoltre non sia un neofita, perché non gli accada di montare in
superbia
(non sia uno che si è convertito da poco, perché appunto non si insuperbisca).
Sintetizzando: queste lettere ci fanno riflettere, pensare, alla fede nella sua continuità che attraversa
tutta la nostra vita e le generazioni che si susseguono. Ci fanno vedere il rapporto tra la fedeltà di Dio
e la fedeltà nostra. Noi cominciamo a credere, noi, all’inizio, cominciamo a sapere che Dio è
grande, buono, e che ci ha mandato il Figlio. Noi poi scopriamo la sua fedeltà e la scopriamo in tanti
cambiamenti della nostra vita. Cambiano tante cose, la nostra età, i ragazzi passano dal liceo
all’università, dall’università al lavoro. Poi dalla giovinezza all’età
adulta, alla famiglia, all’essere genitori e poi nonni. Si accrescono le generazioni che credono. E’
un invito, allora, a pensare in che maniera questa fedeltà di Dio resti fedeltà in tutto ciò
che avviene oggi come ieri – e come avverrà domani - e come noi, in ogni situazione, in ogni
realtà, in ogni età, possiamo continuare a dire che realmente questa è la verità, la
vita, la salvezza, la gioia e la grazia. Paolo ha davanti degli esempi che sono quelli dei suoi tempi, delle
situazioni della Efeso di allora. Molte cose non sono più così come erano allora, ma lo stesso, per
noi, c’è un invito a pensare la fede nei decenni, nella continuità, nel tempo.
Vediamo ancora 2Tm 4,6ss.:
6Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di
sciogliere le vele. 7Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la
fede. 8Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà
in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione.
Ecco che Paolo ci parla del suo martirio. Non solo ad Efeso le cose sono cambiate, le generazioni si sono
succedute, ma lui stesso è cambiato. Non sappiamo se lui o un suo segretario, o una terza persona, un
discepolo, abbiano scritto queste lettere. Chiunque egli sia riprende, però, le parole che abbiamo
ascoltato a Mileto sul “correre la corsa”.
Notate, Paolo ha fatto tantissima strada, però in realtà sa che manca a lui, ancora, il momento
decisivo, la testimonianza decisiva. Sapete che il martirio è una realtà fondante: un
martire diventa automaticamente santo in nome di Cristo. Ma è difficile pensare all’ultima parte
della propria vita in terra. Pensavo alle tante persone che negli anni abbiamo accompagnato nell’ultimo
tratto della loro vita, al mistero di quella che si chiamava “la buona morte”. Ricordo sempre con
affetto sr. Amedea, che io ho confessato fino alla fine. Da un certo momento in poi - era molto anziana - diceva
le preghiere per morire in grazia di Dio. Lei voleva che così come aveva testimoniato Cristo da giovane,
così il suo ultimo passaggio fosse una testimonianza di grazia per quelli che le erano intorno.
Soprattutto c’è, in Paolo, questa espressione grandissima: “Ho conservato la fede”. Un
episodio, di segno opposto, che mi ha molto colpito, quando è successo il fattaccio che riguardava
Milingo, poi fortunatamente rientrato è il dialogo con un vescovo che, parlando di questa cosa, mi diceva:
“E’ veramente una cosa squallida, triste, non tanto che uno vada a quell’età a mettersi
con una donna, e nemmeno tanto che si sia fatto irretire al punto da farsela scegliere da altri, ma la cosa
peggiore è che ha perso la fede, che sia finito in una setta non cattolica”. Il fatto che un vescovo
cattolico pensi, anche solo per un istante, che la salvezza si trovi in una setta e non nella Chiesa e nel
vangelo! La cosa più triste non è il peccato morale, affettivo, che ha commesso, ma che un uomo che
ha vissuto per Cristo, faccia questa scelta. Per fortuna, poi, come sapete, è rientrato nella Chiesa. Il
vescovo che mi raccontava era colpito da questo punto e citava proprio questa frase. “Non ha conservato la
fede!”. S.Paolo, invece, dice a Timoteo, da Roma: “Io sto per morire a Roma”. Paolo è
stato, secondo alcuni, forse, due volte prigioniero a Roma: una prima volta, condotto in libertà vigilata,
dopo il suo essersi appellato a Cesare, poi, dopo aver fatto altri viaggi – forse, secondo questi studiosi,
è anche tornato ad Efeso – è tornato l’ultima volta a Roma per morire martire. Le
parole che scrive a Timoteo, si riferiscono non solo alla morte, ma alla morte cruenta, che sta per avvenire in
un contesto di persecuzione e di martirio.
Vediamo un ultimo brano, di tenore differente, ma bello e significativo:
9Cerca di venire presto da me, 10perché Dema mi ha abbondonato avendo preferito
il secolo presente ed è partito per Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia.
11Solo Luca è con me. Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il
ministero. 12Ho inviato Tìchico a Efeso. 13Venendo, portami il mantello che ho
lasciato a Troade in casa di Carpo e anche i libri, soprattutto le pergamene.
Probabilmente ha bisogno in questo ultimo tratto della sua vita di alcune cose che gli servono e prega Timoteo di
potergliele portare. Paolo ha bisogno dei suoi libri. Certo il vangelo è tutto per lui, ma è
bello che chieda anche di avere ancora a disposizione i suoi libri per potersene servire. Il cristiano non
disprezza, ma sa anzi servirsi, della sapienza scritta. E’ la carità intellettuale, che ama
attraverso l’educazione e la formazione della persona umana.
Se leggete da soli le lettere per intero, troverete altre cose particolari e divertenti. Si parla, ad esempio,
del vino e si dice che bisogna bere del vino, perché a chi beve solo acqua viene mal di stomaco. Ci
sono dei passi in cui Paolo parla dei cibi, poiché alcuni disprezzano alcuni alimenti, dicendo che ai
cristiani è lecito mangiare tutto, purché si prenda con la benedizione, con il ringraziamento di
Dio – il cristianesimo è l’unica religione che dice all’uomo che non ci sono cibi o
bevande proibite, è la religione della libertà anche in questo! Paolo parla anche del
matrimonio, laddove alcuni lo vietano. Paolo spiega che tutto ciò che Dio ha fatto è buono
purché lo si prenda con rendimento di grazie. Si dice, anche, che l’esercizio fisico è utile
a poco, che è meno utile dell’esercizio spirituale. Insomma sono solo stimoli perché voi
stessi leggiate per intero le lettere “pastorali”.