Il primo secolo dopo Beatrice, di Amin Maalouf, lancinante romanzo sul dramma del mondo contemporaneo. Appunti di Andrea Lonardo
- Tag usati: amin_maalouf, distopia, scritti_andrea_lonardo
- Segnala questo articolo:
Presentiamo sul nostro sito alcuni appunti scritti da Andrea Lonardo sul lancinante romanzo di Amin Maalouf, Il primo secolo dopo Beatrice. Sul fenomeno del crescente squilibrio fra maschi e femmine, dovuto alla selezione operata in alcuni paesi del mondo, leggi, su questo stesso sito “Hidden gendercide”, il nuovo olocausto.
Il Centro culturale Gli scritti (25/3/2011)
«Ormai la Storia non sarebbe più stata scritta dai generali, dagli ideologi e dai despoti, ma dagli astrofisici e dai biologi. L'umanità appagata non avrebbe avuto altri eroi che gli inventori e gli intrattenitori».
Così Amin Maalouf, scrittore libanese, nel suo profetico romanzo Il primo secolo dopo Beatrice, pubblicato nel 1991 (edizione italiana, Bompiani, Milano, 2001). Protagonista e voce narrante del romanzo è un entomologo, che cerca nel corso della vicenda di opporsi alla diffusione di una sostanza capace di facilitare la nascita di figli maschi.
Egli descrive in uno straordinario flashback narrativo gli eventi che hanno portato il mondo a dividersi in due blocchi invalicabili, nord e sud del mondo.
Sul finire del secondo millennio - racconta il narratore - tutto sembrava andare per il meglio. La scienza, il progresso, le scoperte, sembravano spingere l’umanità verso un futuro radioso.
«Ho avuto caro il secolo della mia giovinezza, i suoi ingenui entusiasmi, le sue candide paure all’avvicinarsi del millennio, ancora e ancora l’atomo, e poi l’epidemia e quelle spade di Damocle sopra i poli. È stato un grande secolo: per me è stato il più grande, forse l’ultimo “grande”; è stato il secolo di tutte le crisi e di tutti i problemi; oggi, nel centenario della mia vecchiaia, si parla soltanto di soluzioni. Ho sempre pensato che il Cielo avesse inventato i problemi, e l’Inferno le soluzioni. I problemi ci fanno vacillare, ci malmenano e ci sconvolgono: ci fanno uscire da noi stessi. Disequilibrio salutare: sono i problemi che provocano l’evoluzione di tutte le specie, ed è attraverso le soluzioni che si fermano e si estinguono. È stato forse un caso se il peggiore dei crimini di nostra memoria ha assunto il nome di “soluzione”, con l’aggiunta di “finale”?» (Il primo secolo dopo Beatrice, pp. 10-11).
Niente sembrava lasciar prevedere la catastrofe:
«Eppure la fine del millennio era stata grandiosa. Un’ebbrezza nobile, contagiosa, travolgente, messianica.
Tutti credevamo che la Grazia avrebbe progressivamente toccato la terra intera, che tutte le nazioni avrebbero ben presto potuto vivere nella pace, nella libertà e nell’abbondanza. Ormai la Storia non sarebbe più stata scritta dai generali, dagli ideologi e dai despoti, ma dagli astrofisici e dai biologi. L’umanità appagata non avrebbe avuto altri eroi che gli inventori e gli intrattenitori.
Per molto tempo, io stesso ho nutrito simili speranze. Come tutti quelli della mia generazione, avrei alzato le spalle se qualcuno mi avesse predetto che tanti progressi morali e tecnici si sarebbero dimostrati reversibili, che tante vie di scambio si sarebbero di nuovo chiuse, che tanti muri avrebbero potuto risorgere, e tutto ciò a causa di un male onnipresente eppure insospettato.
Per quale odioso inganno del destino il nostro sogno è stato smantellato? Come siamo giunti a ciò?» (Il primo secolo dopo Beatrice, p. 11).
Il racconto ci presenta l’incontro inatteso della voce narrante con Clarence, colei che diverrà la madre di Beatrice. La penna di Maalouf è, come sempre, abilissima nel tratteggiarlo:
«Ricordo di avere posato lo sguardo prima di tutto sulle sue labbra, barche di un color rosa tramonto, protese verso un punto lontano, come in certi affreschi egizi. Poi di averne contemplato le spalle: sono le spalle che fanno l’eleganza delle braccia, del collo, del busto, della pelle; sono le spalle che determinano l’andatura, la postura, il portamento del capo, l’armonia d’insieme dei movimenti e delle forme - in una parola, la bellezza. La mia visitatrice portava uno chandail di angora bianco, felpato eppure luminoso, che ricadeva sulla parte alta delle braccia, contornando le spalle che apparivano altere, lisce, brune e nude. Offerta pudica: le spalle denudate con grazia mi ispirano sovente una focosa tenerezza, la voglia di accarezzare all’infinito e il desiderio di abbracciare.
A dispetto di tutto ciò che ho appena scritto, non mentirei affatto affermando che la bellezza di Clarence ha influenzato assai poco il seguito dei nostri rapporti. Non che io sia - o sia mai stato - insensibile all’estetica: mio Dio, no! Ma mi seduce durevolmente soltanto l’intelligenza del cuore: provvidenziale se vestita di bellezza, patetica se ne è spoglia?» (Il primo secolo dopo Beatrice, p. 23).
Il narratore, mentre matura il suo amore ricambiato per Clarence, vive al contempo la dimensione dell’amicizia come qualcosa di intangibile. Nemmeno la sua amata può entrarvi:
«Non ricordo che Clarence abbia mai incontrato André Vallauris, l’amico che mi era più vicino, ma in un amicizia che non avrebbe potuto accettare nessuna intrusione, neppure quella delle donne che amavamo» (Il primo secolo dopo Beatrice, p. 41).
E nell’amicizia esiste una fecondità misteriosa:
«Penso che per tutta la durata della nostra amicizia io ho “deposto” delle idee nelle orecchie di André, come ci si scarica di un peso o come si lascia cadere un seme in un campo di famiglia. Nella sua testa non si perdeva niente. Tutto progrediva, e quando mi imbattevo di nuovo nella mia idea, essa aveva acquistato radici e rami – spesso si era anche raffinata, diventando difficile da riconoscere» (Il primo secolo dopo Beatrice, p. 44).
Con Vallauris egli come costretto a ripartire ogni volta da ciò che era stato seminato:
«Cortese, amichevole, e tuttavia implacabile. Fin dall'infanzia, ogni volta che mi regalava un libro, presumeva che prima dell'incontro successivo l'avessi letto attentamente. “Lentamente”, si raccomandava, “e senza sottolineare con la matita: ci si scarica troppo spesso con uno scarabocchio da quello che dovrebbe restare piantato qui”. E appoggiava fortemente l’indice sulla fronte. Avrebbe facilmente capito che nell’intervallo non avevo sfogliato null’altro. “Se in vent’anni avrai letto – ‘letto’ come dico io - quaranta libri veri, potrai guardare in faccia l'universo”» (Il primo secolo dopo Beatrice, p. 48).
André aveva allora 71 anni:
«Ho spesso criticato nei miei simili la propensione a considerare le altre classi d’età come casi particolari, restando ciascuno, per quanto gli concerne e a qualsiasi età, il caso generale, il caso permanente della normalità. È una cosa che critico, contro la quale insorgo e protesto, ma devo ammettere che non sono al riparo da questo errore» (Il primo secolo dopo Beatrice, p. 51).
I due si accorgono che è stata introdotta in commercio non si sa bene come e da chi una sostanza che funziona come una contraccezione selettiva, che favorisce la nascita dei maschi e impedisce quella delle femmine. Senza che l’opinione pubblica se ne accorga, cresce così silenziosamente anno dopo anno uno squilibrio nelle nascite di bambini e bambine. Alla voce narrante ed a Clarence nasce invece finalmente Beatrice, la bambina che aspettavano.
Mentre il narratore, André, Clarence e pochi altri si dedicano ostinatamente alla ricerca di mezzi per ostacolare il processo selettivo che sta portando alla diminuzione della nascita di figlie femmine nel mondo, emergono nei dialoghi del romanzo riflessioni sulle enormi potenzialità, di bene e di male, presenti nella ricerca scientifica:
«“Non si sarebbe dovuto intervenire prima per tagliare corto con una ricerca che tendeva palesemente verso risultati disastrosi?”
“Sono cose che si dicono dopo; sul momento, nessuno scienziato ha piacere che le autorità, qualunque esse siano, vadano a ficcare il naso tra le sue provette. Il nostro giovane amico te lo confermerà. E poi, la ricerca in se stessa non è da mettere in discussione. Non si tolgono mica le ruote a un'automobile per evitare che slitti. E molto più semplice cambiare il modo di guidare”.
“Lasciatemi prendere un esempio nel mio campo. C’è stato, tra i miei colleghi, un uomo che ha dedicato vent’anni della sua carriera per creare varietà di mele più pesanti, sempre più pesanti, ma senza sapore e di valore nutritivo minore di quelle che abbiamo l’abitudine di consumare. Il solo merito era quello di fare guadagnare più denaro ai coltivatori meno seri. Un’altra collega, una veneziana, alla fine di trent'anni di prove, è riuscita a raddoppiare il volume di una certa varietà di riso, concentrandone contemporaneamente il tenore di vitamine. Così oggi quasi duecento milioni di esseri umani hanno migliorato la loro alimentazione, grazie a lei. Questi due ricercatori hanno studiato sugli stessi libri e utilizzato le medesime scoperte fondamentali e le stesse tecniche. Soltanto non ne hanno fatto un identico uso”» (Il primo secolo dopo Beatrice, p. 61).
Accorgendosi che la situazione precipita ed intuendo le pericolose ripercussioni che il fatto desterà nella storia del pianeta, i due cercano di sensibilizzare l’opinione pubblica:
«Bisogna immaginare l’opinione pubblica come un personaggio corpulento che dorme. Ogni tanto si sveglia di soprassalto, e allora devi approfittarne per soffiargli nell'orecchio un’idea: ma la più semplice, la più concisa possibile, perché già si stira, si gira dall’altra parte, sbadiglia e si riaddormenta, senza che tu possa trattenerlo né risvegliarlo. Allora ti metti ad aspettare, perverso, che il suo letto sia fatto a pezzi» (Il primo secolo dopo Beatrice, p. 85).
L’avanzare della crisi, senza che nessuno faccia qualcosa per rallentarla, pone in evidenza la situazione dell’intero globo:
«Non è forse il paradosso della nostra cultura il fatto che, diventando padrona dello spazio, sia diventata schiava del tempo? In Africa, a questo proposito ci si sente meno padroni e meno schiavi - se uno riesce a evadere da se stesso» (Il primo secolo dopo Beatrice, pp. 87-88).
Soprattutto il rapporto fra società civile e media è ormai corrotto:
«“I tuoi colleghi non fanno altro che rispecchiare...”
“Proprio così! I media riflettono quello che dice la gente; la gente riprende quello che dicono i media. Riusciremo mai a stancarci di questo abbrutente gioco di specchi?”» (Il primo secolo dopo Beatrice, p. 100).
Quando poi scoppiano le prime improvvise rivolte, soprattutto nel sud del mondo, quando ci si accorge che lo squilibrio fra maschi e femmine comincia a modificare le aspettative di vita delle popolazioni, ci si comincia a rendere conto del tempo perduto:
«Tra due pericoli - uno immenso, ma lontano e imprecisato; l’altro meno mortale, ma più vicino -, non è forse umano che ci si preoccupi principalmente del secondo?
Oggi è facile lanciare invettive e anatemi. È facile dimostrare, a cose fatte, che il Nord, lasciando che la sciagura crescesse smisuratamente nel Sud, ha compromesso la sua prosperità e la sua sicurezza, mentre il Meridione, scatenandosi contro il Nord si è condannato alla regressione. A quell’epoca, ognuno voleva sfuggire rapidamente e al minor costo possibile ai pericoli immediati» (Il primo secolo dopo Beatrice, pp. 104-105).
La voce narrante, insieme al suo gruppo ed a Clarence, man mano che la situazione diviene più grave, cercano di sensibilizzare tutti sulla questione, perché si interrompa l’utilizzo di quel farmaco che altera le nascite:
«Vallauris mi aveva trasmesso una certa lucidità; ma il nome pomposo di “Rete dei Saggi” non deve generare illusioni. Per quale prodigio avremmo potuto impedire i cataclismi? Chi eravamo, se non una fragile associazione di nostalgici di un avvenire diverso? Che cosa facevamo, a parte parlare, scrivere, parlare ancora, monotoni predicatori di una domenica senza fine? Eppure coloro che hanno conosciuto quell'epoca non possono avere dimenticato quel vecchio sublime che fu Emmanuel Liev, il suo grosso naso, le sue orecchie che sembravano ali di pipistrello, ma soprattutto la sua voce che parlava contemporaneamente a tutti e a ciascuno. Era diventato una sorta di “nonno universale”, che rassicurava persino quando cercava di spaventare. Per me è difficile valutare con distacco il suo ruolo o quello della “Rete”: mi piace credere che non furono trascurabili. D’accordo, era stata necessaria una congiuntura speciale di eventi - processo, violenze, statistiche allarmanti - perché finalmente nascesse in Europa, e nel Nord del mondo, una sensazione di urgenza, l’avviso di un rivolgimento. Ma non credo di prendermi eccessive libertà nei confronti dei fatti affermando che la maggior parte delle decisioni assunte dalle autorità dell'epoca furono ispirate da membri del nostro gruppo» (Il primo secolo dopo Beatrice, p. 105).
Avvenne che il nord del mondo, con una campagna di informazione efficace, riuscì finalmente ad arrestare la crescita dello squilibrio demografico. Ma scioccamente nessuno si occupò di ciò che intanto accadeva nel sud del mondo. Anzi alcuni intellettuali cominciarono a sostenere che il processo avrebbe portato ad una diminuzione dei matrimoni e, conseguentemente, delle nascite e questo non avrebbe potuto che giovare al sud del mondo che, a loro dire, aveva la sovrappopolazione come primo problema da risolvere. Solo la “Rete dei Saggi” si oppose a queste teorie, intravedendo i pericoli cui si stava andando incontro:
«“Credi ai fantasmi?” “No!” avevo replicato, offeso all’idea che avesse potuto credermi permeabile a stupidaggini di quel genere. “Ebbene, hai torto. Non sto parlando dei cadaveri con gli unghioni che vagano sonnambuli attorno ai cimiteri. Parlo delle idee che ritornano, anch’esse fornite di grosse unghie sanguinolente. Ne incontrerai a tutte le età della vita, e ti sarà ancora più difficile distruggerle dal momento che sono già morte”» (Il primo secolo dopo Beatrice, p. 111).
Finalmente Emmanuel Liev viene invitato a pronunciare pubblicamente un discorso a nome della Rete dei Saggi:
«“Siete disposti a scusarmi se non inizio con le formule di rito? Non le conosco, ed è troppo tardi perché le impari; perciò mi accontenterò di rivolgermi a voi con un epiteto di cui: ciascuno dovrebbe sentirsi onorato: ‘Uomini di buona volontà!’
Emmanuel parlò per nove minuti, senza appunti e senza esitazioni davanti a una platea silenziosa fino al raccoglimento. Il suo intervento era diffuso in diretta in quasi tutti i paesi del mondo. Oggi, a distanza di tempo, mi sembra ancora un modello di acutezza e lucidità, ma non privo di una certa speranza.
“Su questa terra siamo numerosi”, disse.
“Alcuni diranno: ‘Troppo numerosi’. Io non la penso così. D’altronde, non credo nemmeno che si debba moltiplicarsi all'infinito. Trovo addirittura penosa questa ‘rivendicazione di culle’ con la quale le popolazioni sottomesse talvolta cercano di scuotere il giogo di minoranze dominanti.
Numerosi, sì, e probabilmente cresciuti troppo in fretta. Eppure, se gli otto miliardi di nostri simili annegassero contemporaneamente nel Mediterraneo, sapete di quanto crescerebbe il livello dell’acqua? Di un decimo di millimetro! Si fratelli miei, figli miei prediletti, tutti insieme noi siamo - tutti noi, uomini e donne dei sei continenti - uno strato sottile, un infimo strato di carne e coscienza sulla superficie del mondo. C’è chi parla di saturazione? Se la terra è satura, lo è delle nostre avidità, dei nostri egoismi, delle nostre esclusioni, dei nostri pretesi ‘spazi vitali’, ‘zone di influenza’ o ‘di sicurezza’, e infine delle nostre futili indipendenze.
“Nel corso del secolo passato, il nostro pianeta s’è diviso tra un Sud che recrimina e un Nord che esaspera. C’è chi si è rassegnato a vedere in questo una banale realtà culturale o strategica. L’odio non resta indefinitamente una realtà banale. Un giorno, con qualche pretesto, si scatena, e allora scopriamo che nulla - dopo cento, mille, duemila anni -, nulla è stato dimenticato: nessuno schiaffo, nessuno spavento. Trattandosi di odio, la memoria attraversa il tempo e si nutre di qualsiasi cosa, talvolta persino dell'amore.
“Poche dottrine nel corso della storia hanno saputo sradicare l’odio: per lo più si sono accontentate di spostarlo da un oggetto all’altro. Verso il miscredente, lo straniero, l’apostata, il padrone, lo schiavo, il padre. Beninteso, l’odio non si chiama ‘odio’ se non quando lo vediamo negli altri: quello che è dentro di noi ha mille nomi diversi. Oggi l’odio ha preso la forma di una sostanza pericolosa, frutto di ricerche legittime, frutto di quelle stesse indagini scientifiche che ci permettono di combattere le malformazioni e i tumori, frutto di quelle stesse manipolazioni genetiche che ci consentono di migliorare e moltiplicare le risorse alimentari. Ma si tratta di un frutto perverso, che ha rivelato a ciascuno i suoi istinti peggiori. Da millenni, miliardi di esseri umani si sono lamentati per la nascita di una figlia e rallegrati per quella di un figlio. E improvvisamente, qualche tentatore si è presentato per dire: ‘Ecco qua, la vostra speranza può trasformarsi in realtà’. Da millenni, ci sono popoli, etnie, razze, tribù che sognano di annientare coloro che hanno il torto imperdonabile di essere diversi. Ed ecco che un tentatore dice loro: ‘Tenete questo, potete decimarli senza essere né visti né riconosciuti’.
“Mi capita - sono sicuro che perdonerete queste elucubrazioni di un vecchio -, mi capita di pensare che il paradiso terrestre descritto nelle Sacre Scritture non sia un mito dei tempi passati, ma una profezia, una visione del futuro. Da qualche decennio sembrava che l’uomo stesse costruendo quel paradiso: mai prima aveva saputo padroneggiare a tal punto la materia, la vita, le energie della natura. Si prometteva di vincere la malattia; un giorno, forse, avrebbe sconfitto l’invecchiamento e la morte. Le mie parole non sono quelle di un miscredente: se la scelta fa scomparire il Dio del ‘Come?’ è per far apparire più nitidamente il Dio del ‘Perché?’. Sì, quello non scomparirà. Lo credo capace di dare all’uomo tutti i poteri, anche quello di controllare la vita e la morte, che non sono altro che fenomeni naturali. Sì, credo che Dio sia capace di renderci partecipi - noi, le sue creature - della creazione. Quando modifico i geni di un pero ho la profonda convinzione che Dio me ne abbia dato la capacità e il diritto. Ma ci sono i frutti proibiti. Non si tratta ingenuamente del sesso o del sapere, come pensavano i nostri antenati: i frutti proibiti sono più complicati, più difficili da individuare, ed è la nostra saggezza più che le nostre credenze che potrà indicarceli.
“Per quanto abbia i capelli bianchi, per quanto si possa pretendere che io sia saggio e sapiente, confesso di non sapere dove si collochino con precisione i limiti da non superare. Probabilmente alcuni nel campo dell' atomo, altri magari in quello delle manipolazioni del cervello o dei nostri geni. Ma ciò che mi è possibile individuare in modo più sicuro, se così posso dire, sono i momenti in cui l’umanità corre rischi mortali per se stessa, per la sua integrità, la sua identità, la sua sopravvivenza. Sono momenti in cui la scienza più nobile si mette al servizio degli obbiettivi più vili.
“Si sono verificati avvenimenti inquietanti, ma non sono niente in confronto a quanto si prepara. Parlo soppesando accuratamente le parole: certe disgrazie non potranno più essere evitate. Dobbiamo esserne consapevoli e cercare di sfuggire al peggio.
“Esistono al mondo migliaia di città, milioni di paesi, dove il numero delle femmine continua a diminuire. Secondo alcuni, il fenomeno dura da quasi vent'anni. Non è mia intenzione parlarvi di quelle creature alle quali una spregevole discriminazione ha impedito di venire al mondo. Non è più questo il problema. Vi esporrò le mie angosce in termini crudi, ma è proprio in questi termini che il problema si porrà: penso alle orde di maschi che si aggireranno per anni alla ricerca di compagne inesistenti; penso alle folle rabbiose che si formeranno e cresceranno e si scateneranno, rese dementi dalla frustrazione - non solo sessuale, perché saranno frustrati anche rispetto a qualsiasi opportunità di avere una vita normale, una famiglia, un focolare, una prospettiva. Riuscite a immaginare le riserve di rancore e violenza chiuse in quegli esseri che nulla potrà soddisfare o calmare? Quali istituzioni resisteranno? Quali leggi? Che ordine e che valori?
“Sì, un po’ dappertutto si sono già verificati scoppi di violenza. Ma non si trattava ancora della violenza che nasce dalla rabbia. Era la violenza di esseri inquieti, che non hanno ancora vissuto direttamente la frustrazione: che hanno avuto una famiglia e si sono rallegrati di avere dei figli, degli eredi. Protestano, si agitano perché sono preoccupati per l’avvenire delle loro comunità, ma la loro inquietudine è sotto controllo, perché non vivono il dramma sulla loro pelle, perché si rivoltano ciecamente contro un male che l'umanità non ha ancora conosciuto e che perciò risulta vago, ipotetico. Domani arriveranno le generazioni del cataclisma, le generazioni di uomini senza donne: saranno generazioni amputate di qualsiasi avvenire, generazioni permeate di indomabile rancore.
“Ho avuto tra le mani un rapporto confidenziale su una metropoli mediorientale. Oggi sono censiti un milione e mezzo di maschi e meno di trecentomila femmine di età inferiore ai diciassette anni. Non oso nemmeno immaginare cosa saranno le strade di quella città tra un anno - tra due, tra dieci, tra vent'anni... Per quanto io spinga lontano il mio sguardo, non vedo che violenza, follia e caos.
“Per calcoli meschini, cinici, per l’incontro maledetto tra tradizioni vetuste e scienza perversa, il pianeta che è la nostra patria e l’umanità che è la nostra nazione stanno per attraversare la più grave zona di turbolenza della storia - e senza nemmeno la scusa del destino o di un flagello di Dio.
“È ancora possibile impedirlo? Adesso possiamo soltanto tentare di attenuarne gli effetti. Se si adottassero tutti gli accorgimenti necessari, se tutte le nazioni del Nord e del Sud, dimenticando i rancori e superando le differenze, si mobilitassero come dovrebbero fare per una guerra; se, a partire dai prossimi mesi si cominciasse a riequilibrare le nascite, abbandonando i pregiudizi distruttori; se si canalizzassero tutte le energie frustrate verso qualche opera titanica, grandiosa, creatrice, gratificante e umanizzante; se, senza eccessi di violenza, si riuscisse a conservare un briciolo di coerenza e ordine negli scambi tra i continenti, allora forse la barca che ci trasporta non affonderebbe. Sarebbe squassata dalla tempesta, danneggiata, ma forse avrebbe la possibilità di evitare il naufragio”.
L’oratore fece un passo come per lasciare la tribuna poi tornò indietro pensieroso, confuso ed esitante, per ripetere questa sola parola: “Forse”» (Il primo secolo dopo Beatrice, pp. 118-122).
Ma ormai era troppo tardi. Improvvise rivolte scoppiarono innanzitutto a Maiputo e poi in diverse città del sud del mondo, dove furono massacrati non solo tutti gli stranieri, ma anche tutti i signori locali, tutti i governanti di quei paesi:
«Nella realtà atroce del secolo della mia vecchiaia, nulla poteva dirsi impensabile, imprevedibile, inevitabile, e questo già cinquanta o ottant’anni prima: eppure niente è stato pensato, niente è stato previsto, niente è stato evitato» (Il primo secolo dopo Beatrice, p. 136).
Nella Rete dei Saggi non si gioiva alla notizia della progressiva scomparsa di tanti dittatori, massacrati nelle rivolte. Infatti i loro stati precipitavano poi nel caos, poiché non era stato preparato alcun passaggio a nuove forze capaci di gestire l’emergenza:
«Qualche anno prima, una tale scomparsa non avrebbe suscitato tra di noi che un legittimo sollievo; da giovani, avevamo vissuto periodi euforici, durante i quali i moloch venivano abbattuti uno dopo l’altro, e il fatto di veder cadere quei birilli mostruosi ci rallegrava. Ma il tempo ci aveva cambiati: avevamo imparato a temere maggiormente il caos del dispotismo; dopo Naiputo c'erano stati troppi disastri, ne erano risultate troppe barbarie e troppe regressioni, perché il cambiamento ci potesse entusiasmare, perché gli slogan ci appagassero. Sarebbe ridicolo domandarsi se ero io a invecchiare oppure se fosse la Storia: la risposta, comunque, non mi appare ancora evidente» (Il primo secolo dopo Beatrice, p. 148).
Naiputo apparteneva al Rimal, uno degli stati più ricchi del sud. Alla morte del suo capo, il paese era precipitato in un caos inarrestabile:
«Ricordo di avere incontrato un universitario rimaliano che arrivava persino a rimpiangere il tempo in cui si parlava ancora di “missione civilizzatrice”; perlomeno ancora si ammetteva – non foss’altro in teoria – che il globo intero poteva essere civilizzato.
A suo parere era più pericoloso “l'atteggiamento che consiste nel proclamare che tutto il mondo è civile, per definizione, e allo stesso modo, che tutti i valori si equivalgono, che tutto ciò che è umano può dirsi umanista, e che di conseguenza ciascuno deve seguire l'inclinazione iscritta nelle sue radici”.
Quel giovanotto mascherava la rabbia con un freddo velo di cinismo: “In altri tempi, subivamo il razzismo del disprezzo; oggi, subiamo il razzismo del rispetto. Indifferente alle nostre aspirazioni, intenerito dalle nostre difficoltà. La sopravvivenza più vile, la mutilazione più degradante diventano ‘eredità culturale’. Ognuno ha il secolo che merita!” Questi erano i sentimenti di numerosi rimaliani, soprattutto della classe più istruita» (Il primo secolo dopo Beatrice, p. 149).
Infine, i due mondi divennero incomunicabili. Nessuna persona varcava più le frontiere fra il nord ed il sud del mondo. I due mondi, rinchiusi e separati, precipitarono progressivamente verso un impoverimento economico e culturale.
E, ripensando all’accaduto, la voce narrante, il padre di Beatrice, si prepara a morire.