Le vite degli altri, di Florian Henckel Von Donnersmarck (2006): un film da non perdere (di A.L.)
Cosa succedeva nella DDR, la Germania Orientale, nel 1984 (cioè solo 20 anni fa)? Cosa accadeva, quindi, in tutti i paesi del blocco sovietico?
E’ l’agente della STASI Gerd Wiesler, in codice HGW XX/7, che ci guida in questa scoperta dolorosa.
La spersonalizzazione, la sistematica demolizione della dignità della persona, che ha caratterizzato quel mondo è resa dal regista non solo quando ci mostra l’agente in azione con le persone che deve spiare, ma, ancor più, quando ci mostra la vita “privata” dello stesso Gerd Wiesler. L’anonimato della sua vita, delle case e dei luoghi pubblici, delle sue relazioni – delle non relazioni – è solo uno specchio della realtà nella quale tutti si sono rassegnati, in quel contesto, a vivere.
C’è una sola via d’uscita all’inizio del film: il suicidio. Albert Jerska, che non può più essere regista di teatro a motivo delle sue opinioni non allineate a quelle del regime, si toglie la vita.
L’articolo che Georg Dreyman deciderà di scrivere e far pubblicare a Berlino Ovest, dall’altra parte del muro, non riguarderà la corruzione, l’ingiustizia, il sistema di controllo ossessivo instaurato dalla STASI, ma parlerà dell’infelicità. Denuncerà che non è più possibile avere le statistiche ufficiali dei suicidi nella DDR, perché quella percentuale sarebbe risultata la più alta d’Europa, preceduta solo da quella di un altro paese comunista, l’Ungheria.
La denuncia che il regime non può accettare, la più difficile da ammettere, è che i suoi cittadini non sono felici; anzi, essi perdono il gusto della vita. Spento in loro il desiderio del bene, l’anelito della carità, la ricerca di Dio, è il senso stesso della vita che vacilla.
Una piccola sequenza del film, accennata con quella discrezione che caratterizza i grandi film, apre uno squarcio sulla condizione dei preti e delle parrocchie durante il periodo comunista, quando per via telefonica vengono impartiti gli ordini riguardanti la vita di una piccola comunità cristiana.
Un sistema che vuole tutto controllare, che incoraggia a tradire, distrugge alla radice la fede, quella in Dio, ma, insieme, quella dell’uomo nell’uomo. E’ la fiducia che scompare. Ogni persona, anche la propria amata, è una possibile delatrice. La parola, la comunicazione in profondità, lo scambio delle idee si fa rarefatto. L’ombra della sfiducia avvolge la vita. I suicidi della DDR denunciano che non è possibile vivere dove la fiducia è scomparsa. E’ la fede/fiducia/fedeltà il grembo vitale della felicità, della possibilità di cercare un senso per poterlo condividere con altri.
Ma non solo Gerd Wiesler ci spalanca un mondo infernale. Egli vi discende. Ed il suo sguardo sull’uomo si trasforma in tenerezza e carità.
Una battuta pronunciata nel film - Le persone non cambiano così facilmente, succede solo nelle commedie – indica quel centro vivo che è la conversione personale. Christa-Maria Sieland, la compagna del giovane scrittore, non avrà questo coraggio di cambiare vita, il giovane scrittore Georg Dreyman ed ancor più Gerd Wiesler potranno modificare parzialmente il corso della loro storia – cosa può la libertà dell’uomo, sola, senza la grazia?
La gratitudine verso “i buoni amici” sarà la cifra finale, straordinaria e consolante, che sarà lasciata agli spettatori del film.
Una battuta del film recita:
Sai cosa diceva Lenin dell’Appassionata di Beethoven? “Se continuo ad ascoltarla non finirò la rivoluzione”. Può qualcuno che ha ascoltato, veramente ascoltato, questa musica essere davvero una cattiva persona?
Ma più dell’arte, è la musica dell’animo umano che scalda il cuore gelido di Gerd Wiesler e, con il suo, il nostro.