Ammore e malavita dei Manetti bros convince più della Gomorra di Roberto Saviano che dimentica la bellezza di Napoli e della sua gente. Breve nota di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Per altre recensioni, cfr. la sezione Cinema.
Il Centro culturale Gli scritti (18/2/2018)
«Don Vincenzo (Buccirossi) e Donna Maria (Gerini) reggono una sgangherata cosca camorristica e organizzano, come in 007 Si Vive Solo Due Volte, la falsa morte del boss per sfuggire alle famiglie rivali, ma vengono traditi da Ciro (Giampaolo Morelli), uno dei loro due killer di fiducia (l’altro è Carmelo, un sorprendente Raiz ex-Almamegretta), che invece di fare fuori l’infermiera (Serena Rossi), suo primo amore, che ha sgamato involontariamente l’inciucio, fugge con lei tra sparatorie e parodie, coreografie (di Luca Tomassini) e canti (di Nelson), battute e gags». Così Il Manifesto[1] riassume la trama di Ammore e malavita dei Manetti bros.
Ebbene il film di Antonio e Marco Manetti convince più dei film e delle fiction di Roberto Saviano. Quest’ultimo, seguendo il cliché della camorra come unica chiave di lettura della città di Napoli e della sua periferia, dimentica l’ironia napoletana così come il bene e la capacità di gioire della vita che caratterizzano la cultura napoletana.
Racconta Marco Manetti:
«Quella sul Gomorrismo è più un’osservazione sulla realtà che non sul cinema, non ci occupiamo specificamente della serie televisiva o del film, quanto piuttosto del fatto che attraverso quella serie, il libro e il film, Napoli venga rappresentata e recepita come se ci fosse la camorra e basta, come se il suo contenuto estetico fosse Scampia, invece che il suo bellissimo golfo o il suo immenso patrimonio culturale e artistico. Questa mitologia non nasce, o non nasce solo, dal cinema, ma anche, soprattutto direi, dalla cronaca e dalla letteratura e quindi l’osservazione non riguarda il solo cinema, ma la vita»[2].
Ammore e malavita sceglie il filo dell’ironia per raccontare della camorra, dell’amore e di Napoli. Tale modalità si addice all’allegria tipica del buon vivere napoletano che, anche dinanzi alle tragedie, sa riconoscere la bellezza della vita.
Non sembra nemmeno corretto parlare del film come di un musical. Le diverse canzoni cantate dai protagonisti, che sbocciano inattese nella trama vorticosa, conferiscono piuttosto un ulteriore tratto di paradossalità ad un film che è tutto giocato sul registro del surreale.
Altri autori – dal grandissimo Mihaileanu di Train de vie (ma, in fondo, ogni suo film) al grande Roberto Benigni (con La vita è bella) – sono entrati nella tragedia con il sorriso dell’ironia.
Similmente si muovono i Manetti bros, riuscendo a parlare del bene, senza nascondere il male.
Alla resa dei conti, il loro film appare ben più realista e consono a Napoli del compiaciuto noir sempre spietato e senza via d’uscita di Saviano e della sua Gomorra.
Il bene appartiene alla realtà della vita e con esso il sorriso: spegnerlo ad ogni piè sospinto vuol dire alterare la realtà più di quanto la alteri lo stile surrealista di Ammore e malavita.
Note al testo
[1] Giulio Vicinelli, Carlo Buccirosso e Claudia Gerini in "Ammore e malavita". Un’intervista a Marco Manetti, in Il Manifesto, 7/10/2017.
[2] Marco Manetti, in Giulio Vicinelli, Carlo Buccirosso e Claudia Gerini in "Ammore e malavita". Un’intervista a Marco Manetti, in Il Manifesto, 7/10/2017.