Leopardi: il quasi nulla e l’infinito, di Davide Rondoni
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Riprendiamo dal sito www.meetingrimini.org la trascrizione della relazione tenuta da Davide Rondoni il martedì 22 agosto 2006. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (13/2/2010)
[...] Cosa succederà questa mattina, quindi cosa succede ogni volta che uno accetta di leggere un testo di poesia o, comunque, un testo d’arte, cioè un testo in cui le parole non sono messe lì per definire o per comunicare in maniera strumentale delle cose, o per convincerti di un’opinione, o per portarti da una parte, ma sono messe lì perché la tua vita stessa parli?
Cosa succede tutte le volte che si accetta il confronto con un testo, ma anche con un ascolto in cui le parole, come diceva Dante, vengono usate per provare a dire qualcosa che non si sa? Perché nella poesia, come in ogni parlare autentico, succede che le parole si tendono verso qualcosa che ancora non sanno del tutto.
[...] C’è un modo di parlare che noi abbiamo imparato da don Giussani, innanzitutto, che non è un problema di stile, ma è che ci siamo trovati ad ascoltare molto spesso un uomo che, quando parlava, di Gesù Cristo o di altre cose, si vedeva che parlava andando verso quella cosa, non volendola spiegare, non possedendola e dandola nelle parole come se le parole fossero dei pacchettini che portano dentro qualcosa, ma un parlare in cui le parole si tendono a mettere a fuoco più quello che ti sta a cuore, quello che ti ha colpito, quello che ti colpisce.
Questa è un’esperienza che facciamo tutti del linguaggio poetico, se non altro quando ci si innamora o quando uno ha dei figli. Quando uno ha una presenza amata, difficilmente la chiama in maniera anagrafica: “Ti amo, Rossi Luisa”. Uno comincia a dire: “ti amo, cavallino mio”, “ti amo, dromedario mio”, dopo, l’inventività… Uno con le parole cerca di mettere a fuoco quello che in quella presenza lo attrae, l’affetto di cui si parlava ieri, ti colpisce e ti attrae. L’arte nasce così.
Allora, cosa succede quando accettiamo di metterci di fronte a un testo che ha questa caratteristica? Non è un articolo di giornale in cui ti viene detta un’opinione o ti viene chiesto al massimo un assenso a questo genere, di opinione, ideologico, al massimo. Ma ti viene chiesta un’altra cosa. Cosa succede? Cosa dovrebbe succedere? Cosa può succedere?
Questa è una piccola premessa di metodo che, scusate, mi permetto, per poi leggere qualcosa di Leopardi. Un grande poeta del nostro tempo che si chiama Joseph Brodsky, un esule russo morto qualche tempo fa, ritirando il Nobel per la letteratura - quando il Nobel era ancora una cosa abbastanza seria - ha detto una frase: la letteratura, la poesia, a cosa serve in fondo? Cosa succede? Qual è il contributo che la poesia e la letteratura danno al vivere normale che è in mezzo a tanti interessi, a tante altre cose? Che vuol dire? Perché è ragionevole, comunque, aver anche il tempo per leggere, per fare un’esperienza come quella che stiamo facendo adesso o per quella che ti fanno fare a scuola, perché ha senso? Visto che non si guadagna niente, visto che nessuno ti dà dei premi, più di tanto, per farlo, visto che sembra non servire a niente? L’arte, a cosa serve?
Lui usava questa espressione: “Serve a salvare il volto non comune”. Lo diceva uno che veniva via dai totalitarismi e quindi riconosceva una funzione anche di salvezza individuale della libertà che l’arte ha sempre avuto. Oggi, siamo in un altro tipo di totalitarismo, per certi aspetti. Un totalitarismo di altro segno.
Oltre a questo, cosa vuol dire “salvare il volto non comune”? Vuol dire, se ci pensate, che quando uno legge, come faremo, L’infinito di Leopardi, cosa accade? Accade da un lato che sei commosso, sei emozionato, sei mosso da qualcosa che appartiene alla vita del signor Leopardi, che ha avuto l’urgenza, a un certo punto, di scrivere L’infinito. Quindi, vai a toccare qualche cosa che è suo, è proprio di lui e di nessun altro: nessun altro ha scritto L’infinito.
Non è che ti commuovi per la biografia del signor Leopardi, tant’è vero che lui non ti dà la sua biografia da leggere, non gli interessa che tu sappia che era figlio di Monaldo o che abbia scritto altre cose. Dice: “guarda questo testo, guarda questa poesia, tocca quello che di non comune c’è nella mia vita, che non è appena la mia biografia, le notizie su di me, ma è qualcosa di più profondo, che è mio più profondamente”.
Per leggere una poesia, non occorre essere esperti della vita dell’autore, altrimenti l’autore ti avrebbe dato la sua biografia, da leggere. Quindi, da una parte tocchi qualcosa che non è comune in lui, qualcosa di non comune suo, ma dall’altra parte cosa accade, in questo teatro che è la lettura?
La lettura è come un teatro in cui ciascuno deve fare la sua parte. L’autore fa la sua, ma la lettura è il momento vero della scena e devi entrare in scena anche tu. La poesia non è quella cosa che è scritta qua nei libri, la poesia è quella cosa che succede quando tu la leggi. L’arte, Michelangelo, non è quella cosa che è nell’archivio della storia dell’arte. Michelangelo è quella cosa che succede quando tu lo guardi. Quindi, nella scena, nel teatro della lettura, c’è lui, c’è qualcosa di non comune che è suo, e poi ci sei tu.
C’è il fatto che tu, quando leggi L’infinito di Leopardi, ti commuovi per qualcosa che è della tua vita, risenti la tua vita, ha rilievo qualche cosa che non è comune a nessun altro della tua esistenza, risenti più te stesso. L’esperienza dell’arte, quando la facciamo - e per fortuna accade di farla ancora, il Meeting è anche una grande educazione, un grande invito a farla, con i concerti come quello di ieri sera, bellissimo, o come le cose che potete incontrare nel programma di questi giorni.
Perché è bella, perché ci piace, l’arte? Mica perché siamo degli intellettuali, mica perché ci piacciono i libri! Ma perché si fa, nel teatro della lettura e dell’esperienza dell’arte, questa esperienza di qualcosa di non comune che è mio, insomma risenti più te stesso. Per questo la lettura di un autore come Leopardi necessita solo di una cosa: né che tu sia esperto di letteratura, né che tu sia esperto della vita del signor Leopardi, né che tu sia esperto di lingua italiana in generale, perché sei laureato in lettere. Occorre una cosa sola: che tu sia disposto a mettere te stesso dentro questo teatro, cioè che tu sia disponibile a un rapporto, come accade con gli amici. L’unica cosa che occorre è che tu sia disponibile.
Perché, come diceva un grande critico siciliano, l’interpretazione è come un’amicizia, l’interpretazione di un testo è come un’amicizia infinita. Così, come di un amico o della tua donna non diresti mai: “a te ti ho capita tutta, è tutto chiaro”, perché vorrebbe dire che il rapporto è morto e tu, da un rapporto così scappi, perché ti senti morire in un rapporto così, perché tu hai qualcosa di segreto, sempre, sempre! Così anche in un testo non c’è un’interpretazione che finisce dicendo: “beh, adesso abbiamo capito!”. Dopo duecento anni, vuoi che non abbiamo capito Leopardi? Dopo settecento anni, siamo ancora qui a darcela con Dante? Perché l’interpretazione è come un’amicizia infinita, in cui si continua a inseguire quel segreto proprio della persona o dell’opera. Occorre solo questo per leggere.
Per questo nel nostro movimento non c’è mai stato un invito alla lettura come un’attività per qualcuno, per gli intellettuali o per i chierici, ma per tutti. L’arte è qualcosa per cui non occorre una previa preparazione. Quando io sento dire: “Ma io non posso ascoltare Mozart perché non sono esperto di musica classica”, è come uno che si tirasse fuori da un rapporto possibile, perché Mozart non vuole degli ascoltatori esperti di musica classica, vuole te. Poi l’esperto vedrà delle cose che tu, con l’esperienza, potrai vedere, come con l’amicizia. Se tu sai che una certa ragazza viene da Saludecio, invece che venire dal collegio delle Orsoline di Parigi, capirai che allora, quando cammina, cammina in un certo modo, non in un altro, ma questo è un problema di esperienza, cioè vedrai delle cose in più, ma non è una prevenzione.
L’infinito. Pensate che Leopardi pensava che questa non fosse una grande poesia. Addirittura nella prima edizione delle sue opere non la voleva mettere. Perché lui pensava di diventare un poeta famoso per “Sopra il monumento di Dante”, “All’Italia”, per i canti epici, per i canti civili. Tant’è vero che girava l’Italia nelle accademie a leggere quelle poesie, perché lui pensava che quella era la sua grande poesia e L’infinito la considerava una cosetta da poco. L’arte è fatta di queste fortunose smentite. Come Van Gogh, che non ha mai venduto un quadro, non ce l’ha mai fatta e adesso vale un sacco di soldi. È una roba libera, l’arte, per fortuna!
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare….
C’è una corrispondenza che l’uomo avverte, che Leopardi avverte, tra questi interminati silenzi, questo infinito. Non so se siete mai stati sul colle di Recanati. Tu non lo vedi e dici: “Mah, sarà l’infinito!”, le Marche, non l’infinito. Uno vedeva le Marche da lì fino al mare, però la corrispondenza è tra questa infinità a cui il panorama lo richiama e qualcosa che lui ha dentro. E questo gli fa sovvenire l’eterno. L’eterno non è un’immaginazione. È qualcosa di cui la realtà ti parla, il panorama delle Marche ti parla, te lo ricorda, te lo rammenta, ti rammenta qualche cosa di cui sei fatto dentro.
E Leopardi dice “il naufragar m’è dolce in questo mare”, non dice ”capire”, “m’è dolce”, non dice “saperlo”, “m’è dolce”. Dice “naufragare”, dice, un verbo che fra l’altro usa anche Dante spesso, “naufragare”, cioè una partecipazione. A questo infinito in qualche modo mi consegno: è una partecipazione, non è una comprensione intellettuale. Son fatto per naufragarci dentro. Nel pensiero vedo queste cose, me le fingo, dal latino “le vedo”. Sono fatto per naufragar all’infinito.
Leopardi, che chances ha avuto, che chances aveva in questo canto, in queste cose che dice qui, di provare a perpetuare questo stato? Questo lo dice molto bene anche Ungaretti, nel suo saggio su Leopardi. L’infinito è come se fosse uno stato di sentimento momentaneo, qualche cosa che ti fingi, appunto, che vedi a un certo punto perché la realtà te lo richiama e sembra che la cosa che puoi fare è quello di provare a permanere in questo stato, naufragarci dentro, in qualche modo finirla lì. Come uno che dice: “È così bello che vorrei finisse tutto adesso”. È una menzogna, in un certo senso. È quello che uno vorrebbe, ma non accade. Non riesci a permanere in quello stato, vorresti naufragarci dentro, però poi, dopo, tua madre ti chiama da dietro i colli e ti dice: “Giacomo, è pronta la pasta, vieni a mangiare”, poi succede qualche cosa, la vita va avanti. Non si riesce a stare in un certo stato.
C’è una grande polemica - questo lo dico solo per i letterati, non vorrei fare una lezione di letteratura, oggi - una polemica molto interessante tra Eliot e Valery. Perché Valery diceva che la poesia serve per garantire un certo stato, e questo lo pensano in tanti, di fatto. Voi pensate a una certa moda che c’è delle mostre d’arte, come se l’arte ti garantisse di rimanere in un certo stato, di sentimento. Invece Eliot diceva: “No, l’arte non è fatta per darti un certo stato di benessere sentimentale, di sentirti nell’infinito. L’arte è fatta per esprimere il vero della vita”. Ma Leopardi, appunto, coglie questo fatto: sarebbe bello naufragar nell’infinito, sarebbe bello rimanere in questo naufragio. Ungaretti, infatti, dice: “La possibilità che ha Leopardi, è di perdurare sentimentalmente”.
Ma l’infinito, questo senso dell’infinito ti afferra, ti prende a un certo punto e poi ti lascia. Questo ricordarti di essere fatto per l’eterno, lo sappiamo tutti, ci succede e poi ci lascia. Ci succede di fronte a una donna bella, di fronte a un panorama come quello, di fronte a qualsiasi cosa può accadere, ci prende per un attimo, ma non riusciamo a starci. La Bibbia dice che l’uomo è un abisso fatto per l’abisso, “abissus abissum invocat”, “l’abisso chiama l’abisso”, e Leopardi questo lo dice: “Io sono fatto, ho dentro un abisso che chiama l’abisso, ho un infinito che chiama l’infinito. Son fatto per questo”. Ma la sensazione di partecipare, di parteciparvi, di potere naufragare in questo, di poter compiere il mio viaggio - il naufragio è una parola drammatica, naufragare non è arrivare, è come perdersi dentro - è un’illusione di un attimo, poi ci lascia. “Abissus abissum invocat”.
Leopardi, più avanti, scrive un’altra poesia su cui vorrei fermarmi. La scrive molti anni dopo. Però prima vi leggo la frase dello Zibaldone che ha dato il titolo all’incontro, così capite perché questo “quasi nulla” è attratto dall’infinito. E’ una frase del ’23, lo stesso anno in cui Leopardi stava scrivendo le Operette morali, cioè l’opera in cui, in qualche modo, calcifica, anche in una forma filosofica precisa, il suo pensiero negativo sulla realtà. Però, nello stesso anno, nello Zibaldone, scrive questa frase: “Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e la nobiltà dell’uomo – quindi, non solo l’intelletto, ma la sua dignità - che ’l poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza, quando egli considerando la pluralità dei mondi si sente essere infinitesima parte di un globo che è minima parte ed uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo - gli astrofisici che stanno parlando in questi giorni: siamo una pulce nell’universo -. Quando l’uomo considera tutto questo e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, profondamente sentendola e interamente riguardandola si confonde quasi con lui e perde quasi se stesso nel pensiero dell’immensità delle cose e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza. Allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà”.
Uno scrittore è difficile che usi le parole a caso, “con questo atto, con questo pensiero”. Riguardando la piccolezza con questo atto e con questo pensiero, dimostriamo la nostra nobiltà, la nostra maggiore nobiltà. Un’altra frase, sempre dello Zibaldone, dice che esiste un senso del bello, esiste un senso del vero. Il vero è una cosa che devi sentire e dice Leopardi: “Ne devi sentire la persuasione”. Cosa vuol dire questo, detto in parole più povere? Non esiste il vero oggettivo e il vero per me, non esiste la verità oggettiva e la verità per me. La verità o è per te o non esiste, o ne senti la persuasione, il senso, oppure non puoi dire che è verità. Per questo, l’atto di sentirsi piccolezza, di confondersi quasi col nulla, non è per una verità oggettiva dell’intelletto ma è qualcosa che ti riguarda, che senti per te.
“Il canto notturno del pastore errante” è un testo del ‘29, ‘30, un po’ di anni dopo L’infinito. Sono successe tante cose nel frattempo, tra cui il fatto che Leopardi ha lavorato molto sulla poesia di Petrarca, curando anche un’edizione. Petrarca è un grande poeta ed è il primo grande poeta rammaricato della letteratura italiana. Mentre Dante è uno che si innamora di Beatrice e segue questo innamoramento fino a portarlo alla verità di questo fatto, Petrarca è uno che scrive canzonieri perché si rammarica di un amore che gli era successo. Mi sono innamorato di Laura, era meglio se non succedeva. Il canzoniere è un grande canto rammaricato, tant’è vero che inizia dicendo: il mondo è una fregatura.
Leopardi si forma su Petrarca, come quasi tutta la letteratura italiana. Più su Petrarca che su Dante, e quindi è dentro un’episteme, direbbero i filosofi, è dentro una filosofia del mondo che vede nel mondo, nella vita, una sorta di fregatura, di cui devi un po’ rammaricarti. Persino l’essersi innamorato di Laura, per Petrarca, è qualcosa che era meglio non succedesse. Questo lo dico perché, nelle radici del pensiero e del sentimento di Leopardi, queste cose hanno agito, e non solo nella forma della sua poesia. Scrive petrarchescamente, fa canzoni allargando la canzone petrarchesca.
Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Allora era come dire: canto notturno dello zingaro più perso del mondo. Il pastore errante era una figura che veniva trattata nei saggi del tempo come una figura mitica. Era il pastore afgano, probabilmente di queste nuove regioni che allora si scoprivano, era il canto dell’ultimo uomo scoperto, insomma. De Santics, che sicuramente non era un grande cattolico, dice che questo pastore errante è come Abramo. Io direi diversamente, ma è la stessa scia: questo canto è come se fosse un salmo della nostra modernità. Potreste leggere il salmo 8 della Bibbia e questo canto come due cose che si parlano:
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
È l’idea che l’uomo naturale, l’uomo perso, afgano, o l’uomo naturale di cui parlava la filosofia sensista del ‘700, l’uomo non evoluto, l’uomo che si accontenta di quello che trova, non ha desideri e quindi non ha complicazioni nella vita. Dice Leopardi: forse la tua vita, luna, è come quella del pastore. Si alza, lavora, va a letto e basta. Non c’è di più, “altro mai non ispera".
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Bellissima questa analogia: il mio corso breve e il tuo grande corso. I poeti, se non altro, e Dante in questo è il più grande, erano gente che aveva questa coscienza di sé, almeno ogni tanto, di non essere appena come un puntino che vada da corso Vittoria a via Italia; no, ma che questo piccolo movimento coincidesse e corrispondesse a tutto il movimento dei cieli. Non sei solo tu che ti muovi da casa tua al tuo ufficio, da casa tua a scuola, ma c’è tutto il mondo che si sta muovendo con te, sei dentro un movimento generale.
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Il vecchierello lo copia proprio da Petrarca. È un’immagine presa da Petrarca ed è un’immagine della vita dell’uomo che è la nostra vita. Passiamo la vita che è fatta di momenti vari, non è sempre caldo, non è sempre freddo, non va sempre bene, non sempre male, è una vita varia, c’è un po’ di tutto. Corriamo, aneliamo, varchiamo torrenti, stagni, momenti paludosi, cadiamo, risorgiamo. Tutto questo movimento, dove arriva? A che cosa è volto? "Abisso orrido immenso ov’ei precipitando il tutto obblia". Lo zero, l’oblio, la cosa peggiore del mondo non è, per esempio, quando si rompe un’amicizia, un amore. Non è la rottura, la cosa peggiore, è l’oblio, è che lui ti dimentichi. L'oblio, l’abisso orrido: tutto sembra volto lì, tutto questo affaticarsi, correre, anelare, tutto sembra precipitare. “Vergine luna tale è la vita mortale”, e uno dice: è finita, è finita la poesia, basta, cosa vuoi dire di più? Basta, chiudila qui. E invece c’è come uno strano movimento, che è il movimento del quasi nulla, che sembra tendere al nulla ma è quasi, non è comprensibile. Nel nulla l’uomo è quasi nulla e questo quasi è come una frontiera, un gancio che lo tiene dall’altra parte. Infatti riprende... Nasce l’uomo.. bisogna riprendere, c’è come un movimento...
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Questo non è vero. Leopardi non ha avuto figli, per esperienza questo non lo può dire. Tuo figlio appena nato non lo consoli, appena nato gli dici buongiorno, benvenuto. Questa è una menzogna.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura
Perché da noi si dura?
Pensate a quanti oggi dicono: è meglio non far dei figli perché vengono in un mondo brutto. E infatti la natalità cala. Non per chissà quale motivo strano, cala perché la gente pensa che il mondo sia brutto, che non c’è niente di bello nella vita e allora perché devo fare dei figli, per consolarli?
Intatta luna, tale
È lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Sentite che insistenza! Vuol dire che la ragione non si accontenta di quella chiusura di prima. “Tu sai, tu certo”. Questa ripetizione è una insistenza che cresce, "tu sai, tu certo". Sentite che bello "a qual suo dolce amore rida la primavera". Bellissimo! Io non lo so, ma tu lo sai a quale amore ride la primavera che fa fiorire gli alberi. A cosa ride la natura, io non lo so, ma tu lo sai forse, sai a chi giovi l’ardore, a che procacci l’inverno con i suoi ghiacci.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Mi è venuto in mente che una volta, andando in montagna con mio figlio più grande che allora aveva pochi anni, tre, lui mi fa ad un certo punto la domanda che fanno tutti i bambini: "Babbo, che sono quelle?". “Bartolomeo, sono delle montagne". "Cosa fanno le montagne?". "Le montagne fanno le montagne". Cosa fa la montagna?, chiede il bambino, cioè la ragione ancora aperta, curiosa della vita. "Che fa l’aria infinita?", chiede il poeta che ridà credito all’esperienza, alla realtà, "che fa l’aria infinita e quel profondo infinito seren? che vuol dire questa solitudine immensa e io che sono?". “Io che sono” non è una domanda di identità psicologica. Io che sono, di che cosa sono fatto: la domanda dell’uomo non è innanzitutto scientifica. Mi perdonino gli amici scienziati ma, come diceva Rimbaud, la scienza è troppo lenta per me. La prima domanda non è che cosa è, non mira a scomporre la cosa con l’analisi, la prima domanda è: che cosa fa, che scopo ha, che movimento c’è in questa cosa, a cosa serve? Dove sta andando? Il bambino non chiede che cosa è la montagna, nel senso analitico della scienza. Chiede cosa fa, qual è l’azione di questa cosa, qual è lo scopo di questa cosa. E io che sono? Qual è lo scopo del mio essere, il movimento del mio essere? Non come sono fatto, qual è la mia psiche, qual è il mio carattere, ma: che cosa mi fa?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.
Questo è un punto dove arrivano molti poeti. Anche Montale ci arriva. Come dire, io non so cosa serve tutto questo, a me la vita è male, però forse qualcun altro lo può. È così irriducibile il desiderio d’infinito della ragione, di capire e di comprendere la natura delle cose, l’infinito che nelle cose mi chiama, che uno arriva a sostenere che forse io no, non posso arrivarci, ma qualcun altro sì.
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Ecco il grande protagonista, il tedio. È il grande protagonista della vita moderna e il poeta dice: forse la greggia, secondo la filosofia del tempo, la greggia, l’animale non sente il tedio. Non è vero che l’uomo è come la greggia, dicevo all’inizio, c’è uno svolgimento in questa poesia. Non è vero che l’uomo non sente questo desiderio di infinito, l’uomo lo sente. Il fatto che questo desiderio rimanga incompiuto è la causa del suo tedio, del fatto che la vita può venire a noia. Diceva l’altro giorno Giancarlo: se non c’è la risposta, cominci a sentire l'assenza come una presenza cattiva. Se la vita non ti corrisponde, la cominci a sentire cattiva, cioè noiosa, ti tedia, come diranno poi i grandi poeti, Baudelaire, Eliot. Il mondo non finirà in uno schianto ma in un lamento, in una noia. Noi abbiamo il senso della fine nella nostra vita, non quando abbiamo il colpo, la tragedia, ma quando c’è la noia quando c’è il tedio.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.
Anch’io seggo sopra l’erba, all’ombra, faccio come te, ma un fastidio m’ingombra la mente. All’inizio abbiamo visto il poeta che, sedendo e mirando, guardava l’infinito. Qui, sedendo, non ha più pace. Eppure non ha di che lamentarsi, eppure la vita non gli va bene lo stesso. Non avrei da lamentarmi - dice - ma c’è qualcosa che mi punge. Molto della scienza del nostro tempo e della filosofia del nostro tempo arriva, come qui fa Leopardi, a invidiare gli animali, a dire: l’ideale dell’uomo è essere come un animale.
E qui sorge l’utopia. Siccome non sono contento come un animale, forse allora la mia nobiltà non è nel sentir la piccolezza che c’è nella domanda. Forse la mia nobiltà, la mia dignità è di volar sulle nubi. Forse, se potessi sviluppare una natura che non sono più io, (Icaro, l’Apollo 12), se potessi avere io le ali e annoverare le stelle ad una ad una, e come il tuono errar di giogo in giogo, prendere l’aeroplano dalla Malpensa e arrivare a New York in poche ore, sarei più felice. Se sviluppassi delle attitudini così, forse più felice sarei, dolce mia greggia, più felice sarei, candida luna. Ma Leopardi dedica solo tre versi a questa utopia. L’uomo pensoso sa che non tiene. L’ideologia dell’uomo su se stesso tiene poco, quattro versi, non di più.
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.
Torna l’opzione negativa, torna la scelta negativa che Leopardi fa: negare questo risorger continuo della domanda. La poesia è paradossale, ripete quanto già detto nelle prime righe: che bisogno c’è di ridirlo così tanto? Don Giussani racconta che leggeva Leopardi e se lo ripeteva a memoria quando tornava dall’aver fatto la comunione in seminario, forse perché non sopportava certe giaculatorie un po’ untuose del seminario. Mi sono sempre interrogato su questo fatto, tant’è vero che la poesia che leggiamo adesso, e con cui finiamo, è come un gran commento al vangelo di Giovanni.
Però mi colpiva questo fatto che lui raccontava di sé: cosa vuol dire che lui, dopo la comunione, si dicesse Leopardi? Non è appena un’invenzione geniale di una mentalità laica, non clericale come era quella di Giussani, dice di un’altra questione, dice che lui, toccando la cosa più certa, più cara che aveva, l’Eucarestia, la sottoponeva alla verifica del dramma di Leopardi. La certezza non cresce perché la riaffermi in maniera meccanica o la ridici e te ne convinci, ma la ripetizione della certezza è nella sua verifica.
Che Gesù Cristo sia il senso del mondo, per cui il partecipare a Lui mi salva, deve poter reggere di fronte a questa poesia di Leopardi, deve poter verificare se stessa di fronte a questa cosa. Questo è un invito straordinario a non aver paura di niente, a non aver mai paura di verificare. Diceva ieri Giancarlo che don Giussani, a differenza di altri, non ha mai avuto paura dei desideri, non ha mai avuto paura che la vita verificasse la certezza.
Alla sua donna. Anche questa è una poesia del ‘23, quindi degli anni in cui Leopardi fissa la sua filosofia negativa. Insisto sulle date, non per pignoleria filologica, ma perché quello che ci consegna Leopardi è una sorta di contraddizione, è un dramma aperto, è il quasi nulla, appunto.
Noi non abbiamo il problema di cristianizzare Leopardi, abbiamo il problema di essere cristiani leggendo Leopardi e che questa lettura faccia giustizia a Leopardi, comprenda Leopardi più di altri. Si capisce la differenza? Noi non abbiamo la preoccupazione di metter il cappello a Leopardi, a Mozart per dire: “È dei nostri”. Non ce ne frega niente, è un problema di Leopardi, del buon Dio.... Non abbiamo il problema di mettere l’etichetta, come fanno gli intellettuali, noi abbiamo il problema di essere veri noi nel leggere una cosa, e questa cosa qui, come dicevo all’inizio, il teatro che descrivevo all’inizio, rende più vera la lettura, più vera che il problema di mettere l’etichetta.
Per questo, il fatto di notare la coincidenza tra il sistemare un pensiero negativo e l’urgenza di queste domande, dice, a mio avviso, qualcosa di più vero di Leopardi che non leggere Leopardi come opzione negativa. C’è l’opzione negativa, ma il più profondo di Leopardi, il più vero di Leopardi, è questo dramma continuo risorgente, è questa domanda che lui riconsegna continuamente, a cui lui dà una risposta.
Non è che non c’è una risposta da parte sua, altroché, se c’è; ma quello che mi consegna è la domanda più ancora che la risposta, è l’urgenza alla domanda. Questa è una poesia antiplatonica, è una poesia che, ed è vero, non ci sta al fatto che la verità è delle idee, è di un altro mondo. Non puoi fare l’amore con una donna con il cannocchiale, con la verità, con la bellezza. “Cara beltà”: devi avere una rapporto per cui puoi dire “Cara”, devi poter dire caro al bello, al vero, basta sapere chi c’è di là.
Cara beltà che amore
Lunge m'inspiri o nascondendo il viso,
Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
O ne' campi ove splenda
Più vago il giorno e di natura il riso;
Forse tu l'innocente
Secol beasti che dall'oro ha nome,
Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorte avara
Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara?
Viva mirarti omai
Nulla speme m'avanza;
S'allor non fosse, allor che ignudo e solo
Per novo calle a peregrina stanza
Verrà lo spirto mio. Già sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s'anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria, così conforme, assai men bella.
Fra cotanto dolore
Quanto all'umana età propose il fato,
Se vera e quale il mio pensier ti pinge,
Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora
Questo viver beato:
E ben chiaro vegg'io siccome ancora
Seguir loda e virtù qual ne` prim'anni
L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
E teco la mortal vita saria
Simile a quella che nel cielo india.
Per le valli, ove suona
Del faticoso agricoltore il canto,
Ed io seggo e mi lagno
Del giovanile error che m'abbandona;
E per li poggi, ov'io rimembro e piagno
I perduti desiri, e la perduta
Speme de' giorni miei; di te pensando,
A palpitar mi sveglio. E potess'io,
Nel secol tetro e in questo aer nefando,
L'alta specie serbar; che dell'imago,
Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago.
Se dell'eterne idee
L'una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l'eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
O s'altra terra ne' superni giri
Fra' mondi innumerabili t'accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella
T'irraggia, e più benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d'ignoto amante inno ricevi.
Leopardi è uno che sta seduto, sempre. Questo è stato il problema di Leopardi, era seduto, era sempre lì a sedere, non gli è successo qualcosa che lo abbia invitato a partecipare pienamente alla vita. Io ho curato un’antologia di scritti sull’amore di Leopardi e fa tenerezza, nel senso vero della parola, nel senso profondo della parola, vedere questo ragazzo che si innamora della cugina, seconda cugina, che viene a giocare a carte, tanto era la fame di qualche cosa che lo invitasse alla vita.
e mi lagno
Del giovanile error che m’abbandona;
E per li poggi, ov’io rimembro e piagno
I perduti desiri, e la perduta
Speme de’ giorni miei; di te pensando,
A palpitar mi sveglio. E potess’io,
Nel secol tetro e in questo aer nefando,
Potremmo dirlo anche noi: potessi io nel secolo tetro, in questo secolo duro:
L’alta specie serbar; che dell’imago,
Poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.
Sentite a quale urgenza arriva. Anche se non ci sei, permettimi almeno di immaginarti; che non vada via, in questo secolo tetro e duro e buio, il vederti, l’immaginarti almeno. Che domanda, che culmine di domande, altro che chiusura negativa! Anche se tu non ci sei, che io ti possa almeno immaginare.
Se dell’eterne idee
L’una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l’eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
O s’altra terra ne’ superni giri
Fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella
T’irraggia, e più benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d’ignoto amante inno ricevi.
Se tu rimani ignota, anch’io sono ignoto. Cosa c’è di peggio di rimanere un ignoto amante? Tutto il pensiero di Leopardi, e sfido chiunque a leggere lo Zibaldone due volte, come ho fatto io, o l’opera. Chi legge l’opera di Leopardi capisce che il fuoco dell’opera di Leopardi era come fare ad amare se stesso, come avere amor proprio, come poter sentire in qualche modo la propria dignità. Rimanere ignoto amante è la cosa suprema come tensione, e lo smacco più grande, è la cosa più degna di un uomo, perché se ami, continui ad amare anche se rimani ignoto, desideri anche se non sai dov’è, anche se non sai dove trovarla in questo momento. La più grande dignità, ma anche la più grande pena, è essere quasi nulla, è confondersi quasi con il nulla. Amare se stessi è possibile, quando qualcuno sbuca nell’orizzonte della tua vita e ti dice tu, e quando tu, a questo tu, puoi cominciare a rispondere, perché la cosa bella della vita è poter essere l’amante di qualcuno.
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