Ignazio di Loyola e Filippo Neri, di Hugo Rahner S.J.

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 30 /01 /2010 - 22:55 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito www.oratoriosanfilippo.org un articolo scritto da padre Hugo Rahner, fratello del più famoso Karl. Hugo Rahner S.J. (1900-1968) lo pubblicò nel 1956, all’interno della miscellanea tedesca edita in occasione del IV Centenario della morte di S. Ignazio di Loyola. La traduzione integrale in italiano - apparsa, a cura dalla Congregazione dell’Oratorio di Roma, nei “Quaderni dell’Oratorio” - è stata eseguita dal marchese Giovanni Incisa della Rocchetta (1897-1980), rettore dell’Oratorio Secolare di Roma e curatore, assieme allo storico Nello Vian e a padre Carlo Gasbarri C.O., dell’opera in tre volumi “Il primo processo canonico per San Filippo Neri”.
Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Per altri testi su San Filippo Neri e sui Maestri dello Spirito, cfr. su questo stesso sito la sezione Maestri dello Spirito.
Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2010)



Sono stati canonizzati insieme il 12 marzo 1622 eppure quando vivevano erano tanto differenti (e felicemente differenti) che si è sempre di nuovo tentati di misurare, facendo appunto il confronto di questi due uomini di Dio, lo spazio grandiosamente vasto nel quale può realizzarsi l’unico comune ideale della santità cristiana(1).

Il fondatore dell’Ordine dei Gesuiti ed il fondatore dell’Oratorio di Roma: ad un primo sguardo sono di nature talmente opposte e gli ideali delle loro istituzioni, o, per meglio dire, le loro realizzazioni nella storia della Chiesa sono tanto lontane fra loro, che un confronto, di primo acchito, può sembrare quasi artificioso o risuscitare qualcosa di quei malumori politico-curiali che negli anni dei preparativi della canonizzazione regnavano fra la casa professa del Gesù e l’Oratorio della Vallicella (2) e che ancora fremevano, quando, nell’epoca barocca, si discuteva con serietà erudita la questione, se, di fatto, Ignazio avesse un giorno sollecitato Pippo Buono ad entrare nella Compagnia di Gesù, ed avesse dovuto subire da lui un allegro rifiuto, o se, invece, la cosa non si fosse svolta così, che Filippo avesse pregato d’essere ammesso, ed Ignazio cortesemente ma seriamente avesse detto di no(3).

E quando si sa questo, ci si può immaginare che Ignazio e Filippo, col sorriso che, sulla terra, era proprio di ambedue, guardassero giù verso quella Roma tanto poco illuminata, l’allegro Filippo ed Ignazio “il piccolo spagnolo che zoppicava un poco ed ha occhi tanto lieti” (4). Ed appunto immaginando questo incominciamo a comprendere che questi due santi, nonostante tutti i contrasti, formano gruppo fin dalla loro vita ed esistenza terrena e si rassomigliano in una comune profondità.

S’incontrarono a Roma, sicuramente, già in quel terribile inverno di fame 1538-1539, quando i compagni d’Ignazio raccoglievano gli infermi ed i poveri nella casa Frangipani e li distribuivano poi fra i vari ospedali della città (5). Allora Filippo conobbe Ignazio e Francisco de Xavier ed ancora parecchi anni dopo, nelle sue serate spirituali presso San Girolamo della Carità, dalle quali ebbe origine l’Oratorio, egli leggeva ad alta voce, con ardente entusiasmo, le lettere del Saverio dall’India (6).

Per tutti gli anni (1537-1556) trascorsi da Ignazio a Roma, Filippo (il quale, dal 1534 al 1595, per 60 anni del suo lavoro nella cura delle anime, ha benedetto quello stesso suolo di Roma) si mantiene legato di rispettoso amore col Magister spagnolo di Santa Maria della Strada ed ha spesso professato d’aver veramente imparato da Ignazio a conoscere la preghiera interiore (7) e di aver veduto sul volto di lui uno splendore misterioso; anzi, più tardi ha giudicato che nessuna pittura potesse rendere tale splendore.(8)

L’infallibile acuta percezione degli spiriti, che era in Filippo, vedeva in Ignazio ben oltre l’apparenza: e precisamente in queste profondità, che si nascondono, egli è uguale a magister Ignazio e perciò anche paragonabile a lui. Cerchiamo di afferrare, con rapido schizzo, questa uguaglianza nella diversità del loro essere umano e cristiano.

L’UOMO

Filippo Neri giunge a Roma quattro anni prima d’Ignazio, certamente verso la fine del 1533. Un giovane di diciotto anni, che non aveva la stessa esperienza del peccato che l’elegante ufficiale Iñigo de Loyola, ma era spinto dalla forza della “conversione” ad un amore fiammeggiante ed esclusivo per le cose di Dio.

Ciò significa, per Filippo, in primo luogo, un amore appassionato per la povertà, quell’ardito ripudio di tutte le sicurezze apparentemente prudenti della vita giornaliera, che era il compendio dell’evangelica sequela del Cristo anche per Iñigo de Loyola, da quando (1522) aveva lasciato la patria e la famiglia, per tutti gli anni dello studi fino al beato eremitaggio di Vicenza. Nel suo romitorio a piazza di Sant’Eustachio, Filippo abitava nel 1537, quando Ignazio
entrò in Roma. Di là fece un tentativo di studiare teologia alla “Sapienza”, forse ha assistito ad un paio di lezioni dei due compagni di Ignazio Fabro e Laynez, i quali vi insegnarono, dal 1537 in poi; e poiché egli seguì anche conferenze teologiche nel convento di Sant’Agostino, può darsi che egli abbia anche udito quelle prediche quaresimali del famoso Agostino Mainardi, dalle quali divampò la prima lotta in Roma contro i magistri parigini di Ignazio.

Ma fin da ora balena la profonda differenziazione fra Filippo ed Ignazio. Per lo spagnolo, fin dal fallito pellegrinaggio a Gerusalemme, l’idea direttrice era: per aiutare le anime, occorre studiare; per anni egli siede sui banchi delle scuole e la lotta fra l’arida metafisica e l’ardore mistico è sempre decisa a favore della “ratio”. Filippo mette presto da parte i libri. Mentre Iñigo si guadagna a Parigi (1535), con diligenza ferrea, il diploma di Magister, Filippo confessa: “Io non ho mai studiato molto e non ho potuto imparare molto, perché ero occupato alla orazione e ad altri esercizi spirituali”.(9)

Tutto lo spingeva colà, dove anche Ignazio era spinto con violenza (ma Filippo si abbandona con impeto mistico a quella urgenza, alla quale Ignazio cede temporaneamente, sempre sotto fortissimo controllo di se stesso): all’amore di Dio e alla preghiera solitaria. Talvolta Ignazio, durante gli studi a Parigi, cerca un compenso, nella mistica solitudine della cava di gesso a Montmartre (10) o nell’austero salmodiare dei Certosini.

Contemporaneamente Filippo è attratto nelle semidirute grotte delle Catacombe in mezzo alla dolce solitudine della campagna romana o ai vespri solenni
delle chiese stazionali. Poi esce dalla oscurità della propria preghiera nella luce delle vie di Roma, precisamente come Ignazio entra nelle stesse strade dell’Urbe, dopo la mistica illuminazione ricevuta alla Storta, a placidamente e sobriamente tastare il terreno per la ponderata e prudente riforma della Chiesa.

Presso Filippo, tutto è geniale improvvisazione, egli interroga soltanto il suo cuore amante, egli girella e passa davanti alle botteghe e si fa santo vagabondo di Dio, cerca di conquistare i giovani mercanti fiorentini e i ragazzi di strada romani “con tanto bel modo” (11) che nessuno può resistergli. Quanto il cielo dalla terra egli è lontanissimo da quella serietà circospetta, quasi direi un po’ pedantesca, colla quale, nella primavera del 1539 i “magistri” parigini, si riuniscono di notte per discutere come congregarsi in comunità religiosa, per organizzare l’opera di assistenza spirituale a Roma ed in tutto il mondo.

In fondo hanno la stessa mira lo spagnolo solennemente serio e l’allegro Pippo: far di nuovo Roma una città santa, nella quale, dal tempo del Sacco, si agita tanto di nuovo e di buono e che pure, secondo il giudizio spassionato di Ignazio, “è un suolo sterile e arido, sul quale lussureggiano i frutti cattivi” (12) e del quale, ancora, dopo sedici anni di duro lavoro, scriverà, una volta: “Noi raccogliamo qui qualche frutto per quanto Roma sia quella che è” (13).

Ma nella maniera nella quale essi iniziano e proseguono quest’opera di riforma, i due apostoli di Roma sono differenti fra loro quanto è possibile immaginare. Ignazio dà gli esercizi spirituali ad umanisti e cardinali, i suoi dotti confratelli insegnano alla Sapienza, le loro prediche si distribuiscono accuratamente per le più frequentate chiese della città (14). Filippo, invece, il quale non è ancora prete (soltanto nel 1551 si lascia ordinare) rimane sulla strada e fin da ora la sua cura d’anime è caratterizzata da quella inimitabile “familiarità e domestichezza” (15) che gli conquistava i cuori di tutti, sino a quelli dei papi e dei cardinali.

La vita d’Ignazio fino allora era una rinuncia progressiva a quanto di singolarità ascetiche gli era peculiare dal tempo della conversione e dai giorni di Manresa, e lunga fu la strada dal suo vestito da pellegrino di tela di sacco, fino alla “devozione al vestito ordinario”, che negli anni maturi egli definì come caratteristica della vera spiritualizzazione (16). Una ben lunga strada anche dalle sue proprie sante follie fino al primo progetto dello statuto dell’Ordine, nel quale i compagni della casa dei Frangipani con sorprendente arditezza diedero l’addio a tutto quanto fino allora si era considerato come caratteristica dell’ascesi “al digiuno, alle discipline, alla nudità del corpo e dei piedi, alle vesti di colore” (17), tanto arditi, che i cardinali ordinarono di omettere quelle proposizioni nella Bolla di fondazione dell’Ordine. Con ragione il biografo di Filippo dice: “Néanmoins il [Ignace] fonde l’avenir sur une abdication des excentricités de la vie mystique et sur la subordination rigoureuse des personnes au but” (18).

Ed ora comprendiamo meglio, perchè, in quegli anni, l’incontro di Ignazio con Filippo non potesse portare ad altra conclusione, che ognuno dei due riconoscesse più precisamente e più nettamente la propria peculiarità e la propria vocazione. Filippo era onestamente impressionato dalla nuova fondazione religiosa del Magister spagnolo e secondo una tradizione a dir vero non controllabile più esattamente, gli condusse anche un paio dei propri giovani seguaci (19).

Egli stesso però (e questa è certamente l’interpretazione esatta dei dati documentari) poteva soltanto rispondere con un allegro no al delicato invito di Ignazio di aggregarsi alla nuova comunità. Se, più tardi, Muzio Vitelleschi, generale dei Gesuiti, si appellò alla dichiarazione di Filippo, che egli avesse voluto entrare nella Compagnia di Gesù, ma Ignazio gli avesse rifiutato l’ammissione, tale detto di Pippo buono deve essere stato uno di quegli scherzi coi quali egli copriva gli abissi della propria umiltà derivanti da quel modo graziosamente scherzevole, secondo una citazione che fa Pietro Tacchi Venturi (20).

Ed Ignazio è pari a Filippo in questo sublime umorismo: da questo incontro che li separa ed al tempo stesso li unisce deriva quel detto scherzoso che Filippo è una campana sul campanile, che chiama col suo suono ad entrare nella chiesa, ma non vi entra essa stessa (21). No, questo Pippo non era fatto, né chiamato per divenire un figlio d’Ignazio, e la ragione fondamentale di ciò era semplicemente nella sua natura libera, nel suo umore nel senso più profondo di questo antico termine, nel suo cuore, che non si lasciava mai acchiappare.

Ma noi non possiamo fermarci a questo punto, nel quale le vie apostoliche dei due uomini della riforma romana si separano. Esistono, nell’interiorità di questi santi, regioni beatamente vaste, nelle quali essi erano insieme, come amici, e profondità, nelle quali essi sono sorprendentemente simili, ma appunto sempre con la differenza che Ignazio non lasciava mai prorompere i tratti “filippini” del proprio naturale, mentre il cuore di Filippo, quasi torrente senza freni, aveva il permesso di battere e di giubilare e piangere con felice noncuranza, per poi realizzare in tutto precisamente quanto
Ignazio perseguiva con la severa contentezza e col regolamento del proprio cuore: amare tutto in Dio ed in tutto Dio soltanto.

Proprio nel confronto di Ignazio con la natura molto meno complicata di Filippo riusciremo ad afferrare il più profondo della sua natura, che solitamente si nasconde ombrosamente. I contrasti sono quasi inconciliabili, già quando osserviamo quei due uomini nelle loro relazioni con gli uomini. Ignazio è taciturno, nemico d’ogni fumo e delle chiacchiere, sempre padrone di se stesso e sempre un po’ rigido e riconosce egli stesso (mostrando proprio con questo il grande distacco fra il suo sentire interno e il contegno esterno): “Chi misurasse lo amor mio da quello che io manifesto esteriormente, s’ingannerebbe di molto” (22).

Filippo ama parlare, è gioviale, amabilmente burlone, bonariamente brusco, perspicace, spiritoso. Può capitare che dia un pugno ad un suo penitente, che
dia uno schiaffo ad uno dei suoi ragazzi, con la gioviale osservazione: “Questo non era per te, ma per il diavolo in te” (23). Nessuno può resistere alla sua amabilità, quest’uomo delizioso lo si può pensare soltanto sempre “devotamente allegro”, per servirci d’una espressione di Goethe (24). L’inimitabile eleganza della sua natura, che pure conserva sempre l’autentico carattere popolare fiorentino è il segreto della sua cura d’anime.

Ma è stato proprio Pippo buono che ha visto sulla faccia d’Ignazio un riflesso d’una altrettanto inimitabile gioia ed ha, perciò, per la congenialità del cuore, scorto nello spagnolo qualcosa, che sentiva vivo in sé. Ed, in effetti, se interroghiamo gli altri uomini che convivevano con Ignazio, apprendiamo forse (per esempio dal diario portoghese, che il padre Luigi Gonçalvez da Câmara teneva negli ultimi anni della vita d’Ignazio) che il generale dell’Ordine, altre volte guardato con timida venerazione, “inchinava talmente verso l’amore, che egli era l’amore personificato e perciò era tanto amato da tutti quanti nell’Ordine, che ognuno per così dire si sentiva particolarmente amato da lui” (25). E quando qualcuno veniva a fargli visita, Ignazio gli dimostrava una gioia così ilare, che pareva volesse accoglierlo “nel mezzo dell’anima propria” (26). Precisamente quello che sentivano i giovani, che convenivano nella piccola cella di Pippo a San Girolamo e che egli rendeva felici con i primi suoni della poi tanto famosa musica dell’Oratorio.

Proprio quella musica, che Filippo, coll’istinto d’una musicalità, diciamo, celeste, poneva a servizio della cura delle anime, e che, al primo sguardo, lo fa apparire immensamente lontano da Ignazio e dal suo ideale per l’Ordine, proprio la musica ravvicina queste due anime nel loro profondo (27). Ignazio, il quale, fin dalla prima redazione della legislazione del proprio Ordine nel 1539, ha rinunciato del tutto ad ogni culto della musica liturgica, per quanto egli conosca esattamente l’importanza pastorale ed ascetica della musica (organa aut musicos canendi ritus… quae ad excitandas et flectendas pro ratione hymnorum ac mysteriorum animas fuerant inventa) (28), è, nel profondo dell’anima, della stessa mistica musicalità di Filippo.

Potrebbe essere un detto di Pippo questo che Ignazio annota un giorno nel proprio mistico diario: “Alla Messa, molte lagrime. E tutto ciò con un senso così profondo delle parole udite interiormente, che era come una somiglianza o un ricordo di parole o di musiche celesti” (29). Spesso va nella chiesetta di San Giuseppe della Pigna, per origliare il canto del vespro (30).

Nel tempo pasquale, l’austriaco Peter Schorner, deve cantargli qualcuno dei canti dell’alleluia della sua patria (31). E Luis Gonçalvez annota nel proprio diario: “Quello che più lo stimolava all’elevazione nella preghiera era la musica, il canto di argomento sacro, come vespri, Messe cantate e simili. Tanto che una volta, mi confessò, che, quando entrava in una chiesa, in cui si stesse cantando l’ufficio divino, egli, immediatamente, si sentiva tutto rapito fuori di sé (se trasportava totalmente de sy mesmo). E che questo giovava non solo all’anima sua, egli dice, ma gli serviva anche per guarire corporalmente. Così succedeva che, quando era malato e quando si sentiva scontento (estava com grande fastio) nulla lo consolasse come una pia canzoncina, che un confratello gli cantasse. Qualche rara volta, quando stava scontento nella propria stanza, andava a trovarlo il p. de Freux e suonava per lui il suo clavicordo, oppure un molto semplice e virtuoso fratello laico, il quale sapeva molti pii canti, gli cantava una canzone” (32).

In questa sfera di una umanità sublime rientra, nei due santi, anche il loro legame con la natura, nella quale essi trovano il divino. Alle stesse stelle scintillanti nel cielo di Roma guardano Ignazio dal balconcino della propria camera e Filippo dalla loggia fatta fabbricare espressamente alla Vallicella (33). Parrebbe scritto da questo Ignazio ebbro di stelle, quando Filippo ha poetato nel solo sonetto di lui che ci sia pervenuto: “Qual prigion la ritien ch’indi partire non possa e alfin coi pie’ calcar le stelle e viver sempr’in Dio e a sè morire?” (34). E così concordi, questi due esseri perduti in Dio amano la variopinta vita quotidiana della strada di Roma e degli uomini peccatori, perché anche qui trovano la solitudine del celeste, Filippo nel ridere dei suoi ragazzi chiassosi, Ignazio quando nel trambusto delle vie, vede andare tre persone in compagnia e sente immediatamente infiammarsi il cuore d’amore per la Santissima Trinità (35).

Oggi giorno non si può andare per le strade della vecchia Roma senza pensare a tutti e due: a Pippo, che, ogni giorno andava di fretta dalla Vallicella a San Girolamo, con la frotta dei suoi allegri ragazzi appresso; ad Ignazio, che dava lezioni di catechismo ai ragazzi nella strada alla Zecca, a Campo de’ fiori, presso la Rotonda. Deliziosi sono i ricordi dei vecchi, che nel processo per la beatificazione d’Ignazio rievocano ancora quei giorni.

Essi ci mostrano un Ignazio veramente “filippino”, uno sa dirci che don Ignazio gli ha tirato scherzosamente l’orecchio; un altro che “mi faceva carezze come a putti”, un terzo che egli non si scompose neppure quando i ragazzacci di strada gli tirarono appresso delle mele (36). Era quello stesso Ignazio che seppe rasserenare un uomo inconsolabile mediante un’allegra danza basca (37); era quello stesso Filippo il quale, persino davanti ai cardinali, aveva ballato una vera grottesca ed aveva intimato ad un fratello laico, che lo serviva, di deliziare ospiti di riguardo con un ballo contadinesco (38).

Perché erano veri santi ambedue, ambedue erano anche veri uomini. Ed ambedue erano perciò ripieni di quella serena ilarità celeste, che è il segno dell’autentica serietà cristiana. Presso Filippo era umorismo fiorentino, brioso, alle volte rabbioso o capriccioso. Presso Ignazio era silenziosa superiorità, che, all’inizio della conversione a Dio, spesso erompeva quasi da una sorta di disprezzo per gli uomini da parte di chi bene li conosceva. In ogni caso è una delle comunicazioni più caratteristiche fatteci da Pedro de Ribadeneira: “Il Padre, all’inizio della conversione a Dio, si sentiva spesso tentato di scoppiare in una risata alla vista di certe persone. A colpi di flagello scacciò da sé questo suo ridere e precisamente con tanti colpi per quante volte aveva anche solo appena sorriso di altri” (39).

Della stessa inclinazione ci informa ancora per l’anno 1555 il diario di Luis Gonçalvez ed insieme, come Ignazio avesse, per così dire, asceticamente tramutato quel sorridere degli altri, in un sorriso di compiacenza per le virtù o per i doni che arricchivano la persona che lo aveva provocato al riso (40). Lo si vede: l’ilarità di Ignazio era diversa da quella di Pippo. Per così dire è più acquisita, più cosciente, più atrabiliare. Ma essa è un tratto essenziale d’Ignazio maturo, è quella “allegria e facilidade religiosa, gravidade e prudencia”, che, secondo la testimonianza del portoghese p. Gonçalvez, Ignazio desiderava vedere nei propri figli (41). E così avveniva che nessuno più d’Ignazio si rallegrasse di uno scherzo azzeccato o d’una situazione comica: tali avvenimenti erano sempre per lui “una grande festa” (42).

IL MISTICO

Fraintenderemmo i due santi, se volessimo paragonarli solo nella loro amabile umanità. Ambedue sono dei mistici e l’irruzione prepotente del divino nei limiti del loro umano supera ogni misura. Lì accadono, nella loro vita, cose che noi non “comprendiamo” più. E nella parte dell’anima dove il divino incontra, per così dire, la membrana divenuta sottile come il fiato di una umanità trasfigurata, i fenomeni puramente spirituali e i fenomeni parapsicologici diventano tanto simili da scambiarli fra loro e si possono distinguere soltanto per una “discrezione degli spiriti”, della quale, in ultima analisi, dispone soltanto il mistico stesso.

Di qui il fatto sorprendente che tanto Filippo quanto Ignazio, ai quali toccarono i più alti doni mistici, sono pieni d’una spesso addirittura tagliente diffidenza contro questi fatti, nella persona propria ed in quelle degli altri. L’illusione è la regola, il dono soprannaturale è l’eccezione: questa è la sentenza conclusiva di Filippo43. Egli lo ha sperimentato nel caso della mistica illusa Orsola Benincasa (44) così come Ignazio lo ha sperimentato nella donna stigmatizzata di Bologna o nella spagnola Magdalena de la Cruz (45). Le massime di direzione spirituale, che i due santi hanno pronunciato soprattutto per la guida di pie donne, sono all’unisono perfetto (46).

Ambedue avevano un fiuto straordinariamente fine del divino e del diabolico nei confini delle profondità delle anime. Tanto più sorprendente è stabilire nei due santi la consonanza ed insieme anche la diversità delle loro esperienze mistiche: la differenzialità delle loro reazioni deriva appunto dalla differenza del loro naturale umano, e con ciò, della loro vocazione, nel campo immensamente grande della rappresentabilità dell’esistenza cristiana. Tentiamo di accennare un paio di questi fenomeni mistici.

Filippo Neri è un mistico dell’età moderna, nel quale rivive tutto quanto si è abituati a leggere soltanto alle volte dei Padri del deserto, i quali cercavano il proprio ideale nella “pazzia per amore di Cristo” (47). Egli è una figura mistica ascetica di somma perfezione, in veste di arlecchino per amor di Dio (48). Fin dai primi giorni della sua grazia mistica egli è quasi come scaraventato fuori da tutti i binari di quanto è puramente umano: il divino, l’amore, il fuoco interiore, la perdutezza nell’eterno che brucia il cuore, sembra esigano da lui, che tutto quanto è umano sia rovesciato, per così dire, che si rida cordialmente in faccia a tutto quanto è puramente ragionevole, e che proprio in quella pazzia si profili la dimostrazione visibile, che il divino è sempre del tutto diverso dall’apparentemente normale.

Questi che si camuffa da arlecchino sulle vie di Roma è, invece, un uomo profondamente serio. Egli di passare per matto si fa una vera gioia, egli si permette stravaganze che si perdonano solo a Pippo, usa parole, che atterriscono persino il santo cardinale Borromeo, foggia “sottites”, che suonano come pazzie, ma che invece devono solo coprire la timidezza da mimosa del suo amor di Dio. Stordisce in sacrestia il dolce terrore del mistero della Messa coll’allegro chiacchierare e col giocare con uccelli e cagnolini. Se i visitatori vengono a lui nella piccola stanza alla Vallicella, per ascoltare dalla bocca dell’uomo di Dio qualche cosa di elevato, egli è capace di celarsi dietro una mordacità quasi villana e di dire: “Voi, certo, vorreste che io prendessi una posa e sputassi parole edificanti?” (49).

Ed il suo addirittura trepido amore di Dio, la sua fiducia e la sua abissale chiaroveggenza dei misteri della grazia egli esprime con un paradosso apparentemente capriccioso che, ad approfondirlo, dà invece i brividi: “Quando guarirò”, disse un giorno durante una malattia, “allora voglio fare il voto di offendere sempre Iddio, perché io dalla sua bontà, mi aspetto che egli mi darà la grazia di non offenderlo mai” (50). “Io diffido Iddio dall’aspettarsi di compiere qualcosa di buono per mezzo di me”, ciò vale a dire: “io dispero di me stesso, ma confido in Dio, mi affido a Dio” (51).

Veramente, questo pazzo è perduto in Dio, egli vive quanto ha cantato nel suo sonetto: egli calca con i piedi tutte le stelle della ragionevolezza, perché, egli è già morto e vive soltanto più in Dio, perciò, per così dire, è sparito per lui il senso della distanza della Maestà divina. La sua orazione è un incessante “sforzare Iddio” (52) ed egli può dire a Gesù: “Signore, la ferita del tuo costato è grande, ma se tu non mi dai manforte, la farò più grande”. Spernere se sperni, questa ultima stoltezza, follia dell’uomo irremissibilmente perduto in Dio non è stata vissuta da nessuno come da questo Pippo buono, il quale, col suo riso matto, copre il tremendo mistero esplosivo (53).

Si ponga ora, accanto a questo arlecchino di Dio, l’Ignazio degli anni romani, che se ne va per le strade silenzioso e distinto, avverso nel più profondo del suo cuore, a tutto quanto è chiassoso e dà nell’occhio. Anch’egli ha commesso le sue pazzie per amor di Dio, da pellegrino e da pazzo bastonato, una volta, nell’Italia settentrionale fra la soldatesca spagnola e sotto i randelli dei frequentatori mondani dei parlatori di monache a Barcellona fra i quali cercava di mettere disciplina. Tutto ciò è superato da un pezzo.

Eppure fraintenderemmo la sua nobile umanità del tempo romano se non penetrassimo nelle profondità della sua anima ricca di grazie mistiche. Certo,
Ignazio l’ha compreso e l’ha afferrato con tutta l’acutezza della sua discrezione degli spiriti che si può afferrare e venerare la maestà di Dio uno e trino, anche (e forse persino più giustamente) con una vita ordinaria, col ritorno a quanto è giornaliero, nella “devozione del vestito non appariscente” (54). E questo per amor del servizio delle anime, per conquistare il mondo, che appartiene al Cristo, nella mistica della letizia del mondo (55).

Ma, al fondo del più intimo dell’anima sua, è rimasto vivo, tale e quale, il “tutt’altro”, pronto, in ogni momento, a sgorgare come lava dal ricettacolo artificiato della sua “quotidianità” assunta solo per amore della cura delle anime. E in ciò afferriamo un tratto “filippino” di Ignazio. Uno che lo conosceva bene, Diego Laynez, ce lo testimonia, nel primo saggio di una biografia di Ignazio, fin dall’anno 1547: “Ignazio, in realtà, è un dispregiatore del Mondo. Egli mi ha detto che, se dipendesse dalla sua inclinazione personale, non farebbe nessun caso d’esser tenuto per matto, girando, a piedi nudi, scalzo, mettendo in mostra la sua gamba storpiata o portando appese al collo delle corna. Ma, per amore delle anime, non ha reso noto nulla di questo” (56).

Qui Ignazio assomiglia a Filippo. La stessa cosa ci testimonia Pedro de Ribadeneira: “Egli diceva d’esser pronto, se ne andasse la salvezza delle anime, ad andare sempre scalzo e munito di corna, non si vergognerebbe, per l’utile degli uomini, di portare qualsiasi vestito ridicolo o spregevole, ed egli lo ha dimostrato, quando se ne è presentata l’occasione” (57).

A Roma, Ignazio ha, sempre, respinto questa “tentazione”, tutto rimase nascosto sotto il velo del non vistoso, non appariscente. La discrezione lo tiene, per così dire, sempre sospeso nell’abisso, nel quale, egli, ricco di grazie mistiche, vorrebbe precipitarsi, per annientarsi nel proprio nulla. Allorché Simon Rodriguez, il quale era meno versato in tale discrezione, scrisse ad Ignazio dal Portogallo delle “sante pazzie”, alle quali i suoi sottoposti si davano con entusiasmo, e che il vero gesuita deve essere un uomo divenuto pazzo per Cristo (loco por Cristo) (58), Ignazio rispose con molta comprensione per simili “locuras santas”, ma aggiunse che tutto si doveva “reducir a la mediocridad de la discretion” e questa saggia illuminazione si può comprendere soltanto col suo amore segreto per la follia della Croce.

Questo è l’autentico Ignazio, il quale silenzioso, non appariscentemente va ad una morte “quale la muoiono tutti” (59), ma del quale il p. Ribadeneira attesta che il suo desiderio era d’esser sotterrato, dopo la morte, in qualche luogo, in un letamaio, poiché egli stesso non era mai stato altro che spazzatura e letame” (60). Di questo Ignazio leggiamo nel “rotulus” del processo di canonizzazione, queste parole che si attagliano esattamente a Filippo: “Cupiebat omnibus ludibrio esse” (61). No, l’uomo di Loyola non è mai stato un amabile umanista e noi non avremmo compreso le sue profondità se volessimo esaltarlo soltanto come l’uomo saggio, proprio come un giorno, Goethe ha frainteso in modo abissale il suo Filippo Neri, quando lo ha detto “der humoristische Heilige” e quando lodò la massima di lui “spernere se sperni”, quale il principio “degli uomini superiori internamente più superbi e orgogliosi”. Questa invasione dell’uomo mistico in Filippo come in Ignazio ha spezzato il vaso umano dell’equilibrio dell’anima, non solo, ma anche della salute corporale. Ma in Filippo, per così dire, esso rimase in pezzi fino alla fine della sua vita, e le costole del suo lato sinistro ne sono un simbolo fatto corpo (62). In Ignazio, invece dopo gli anni del vivisezionamento mistico prende una forma di placidezza tranquilla e spiritualizzata, che sa subordinare anche il fiume di lacrime dell’orazione estatica alla “ragione” ed all’ordine dei medici.

In quello stesso anno 1544, nel quale Ignazio annota, giorno per giorno, nel diario mistico, le lagrime e gli ardori delle sue grazie d’orazione, Filippo è colto da quell’“invasamento soprannaturale”, che gli brucia il cuore e del quale egli non “guarisce” mai più. Da allora in poi esso fa parte della sua vita di ogni giorno: il tremore davanti al divino, il singhiozzare a Dio il dolce pianto, la rete d’amore che lo tiene avvinto (63). Quando (prete dal 1551) egli celebra la Messa, spesso diventa mortalmente pallido; per intima commozione morde coi denti l’orlo del calice, quando il Sangue veramente Sangue fumante del Signore lo inebria. Esausto, stramazza nella sacrestia; più tardi, in una cappelletta, impiega ore ed ore nella celebrazione della Messa; fino alla morte, quando i rottami della sua natura non stanno più insieme.

Le stesse cose accadono nell’Ignazio del 1544: qui, di nuovo, egli è interamente “filippino”. Proprio come Filippo, durante la celebrazione dei sacri misteri, egli è d’una sensibilità dolorosamente vigile, addirittura nervosa, al rumore e ad ogni disturbo dall’esterno ed, una volta, pensa seriamente ad affittare una camera in un’altra casa “per sfuggire al rumore” (64), così come ancora il vecchissimo Filippo si riserba, all’ultimo piano della casa presso la Vallicella, una stanza per celebrare, difesa contro tutti e contro tutto (65). Nessuna parola torna più spesso, nel diario di Ignazio, che “sollozo” (singhiozzo), “calor intenso”, che si comunica anche al corpo, “ardor en todo el cuerpo”, i capelli gli si rizzano, il petto gli si stringe, il sangue entra in sensibile agitazione. Spesso, esausto, cade in ginocchio e non riesce più a rialzarsi. Non può più parlare per i singhiozzi e per la “dulçura interior” (la dolcezza interna) (66).

Ma precisamente come, nella sua discrezione degli spiriti, egli aveva rinunciato alla follia, alla stoltezza, alla pazzia per Cristo, senza, con questo, rinunciare all’ardente desiderio di essa, così anche qui: in mezzo ai periodici riguardanti gli slanci mistici, sta scritto: “A causa dei dolori atroci, che io sentivo ad un occhio, in conseguenza del piangere, mi venne il pensiero: se io continuassi a celebrare la Messa, potrei perdere quest’occhio, mentre è pur meglio conservarlo” (67).

Con questa parola del “meglio”, si insinua qui, con ferma forza, nel fatto mistico, la discrezione e la ragionevolezza e proprio questo è caratteristico per Ignazio e per lo sviluppo della sua mistica come poco altro; qui si inserisce quella spiritualizzazione, che lo distingue da Filippo e della quale, negli ultimi anni della vita, confessò al suo confidente il p. Polanco: “Un tempo mi consideravo sconsolato se non riuscivo a piangere tre volte durante una santa Messa. Ma il medico mi ha proibito di piangere e io lo accettai come un comando dell’obbedienza. Da allora, senza lacrime, sento molto maggior consolazione” (68).

Certo, anche presso Ignazio fino al termine della vita sussiste la soggezione a gravi disturbi fisici nell’incontro con i divini misteri. Il p. Nadal depone: “Egli aveva sempre ardente desiderio di celebrare la Messa e vi provava tanta consolazione e per vero così straordinaria, che quando gli sopravveniva, subito ricominciava a soffrire del suo male di stomaco. Stette ammalato per quindici giorni, dopo che, a domanda della figlia di don Juan de Vega, ebbe celebrato tre Messe” (69). Ma anche qui Ignazio lascia intervenire sempre più vigorosamente la “ragione”; preferisce tralasciare la celebrazione della Messa per sfuggire alla scossa psichico-fisica “vehemens commotio” (70) ed è in verità, un detto “non filippino”, quanto è annotato in un ricordo del p. Codretti: “Ignazio, più tardi, celebrava soltanto più nelle domeniche e nelle feste, ob metum visionum” (71).

Ma, alla fine della vita, Ignazio è pieno di dolce spiritualizzazione, tutte le visioni, le lagrime e gli ardori d’un tempo sono lasciati dietro di sé, soltanto l’amore ardente e la contemplazione dello Spirito Santo. “Versatur in pure intellectualibus” dice di lui il p. Nadal (72). Ed il p. Ribadeneira attesta che Ignazio, già trasfigurato nell’attesa della morte, negli ultimi anni a Roma: “Egli sentiva di progredire sempre più e che il suo fuoco interno diveniva più ardente. E perciò non esitava, quando trascorreva a Roma gli ultimi anni della vita, di chiamare ora propria scuola primaria e proprio noviziato il tempo di
Manresa, che in altri tempi, per l’illuminazione meravigliosa aveva detto la propria Chiesa primitiva” (73).

Ciò nondimeno, questa differenziazione dell’evoluzione mistica presso Ignazio e presso Filippo non è l’ultima cosa, che noi possiamo dire a questo proposito. Tutto è giunto alla quiete, nel fondo mistico dell’anima, toccata una volta da Dio ed inguaribilmente ferita, per quanto il corpo possa ancora subire o meno le passioni; l’anima sta in misteriosa immediatezza davanti a Dio, percepisce i suoi immediati influssi (Ignazio ne ha parlato nelle regole, di difficile interpretazione, per la discrezione degli spiriti, nella seconda settimana degli esercizi spirituali) (74), ed è perciò sempre desta prontezza a prorompere nell’orazione ed a trovare Iddio in ogni cosa. Il cardinale Tarugi, uno dei maggiori discepoli di Filippo, disse una volta del proprio maestro: “Haveva l’oratione pronta: che, più tosto, era provocato dal spirito che bisognasse, con la meditazione, eccitare la fiamma” (75). In ciò stava anche uno dei segreti del successo della direzione spirituale nell’Oratorio: tutti sentivano che qui parlava uno che era pieno, saturo, di orazione e che ad ogni parola di Dio dava un nuovo timbro”.

Esattamente la stessa cosa attestano i discepoli d’Ignazio. Quando, una volta, uno di essi gli disse, che egli, nell’orazione mattutina si ricollegava sempre a quello che aveva riconosciuto nel giorno precedente, Ignazio gli rispose: “Ma io trovo l’orazione in tutto e dovunque voglio” (76). Spesso, lo sollevava a Dio, nel bel mezzo d’una conversazione ed, una volta, balbettò quasi fosse ebbro: “Or ora, per un istante, sono stato più in alto del cielo”, per poi ricoprire questa confessione con taciturna timidezza (77).

Il p. Nadal, che, meglio di ogni altro, conosceva i segreti mistici del p. Ignazio, scrisse più tardi di lui: “Trovava lo slancio da qualunque cosa, come per esempio, nel giardino, dalla vista d’una foglia d’arancio (ero presente io stesso), dalla quale fu stimolato a profonde considerazioni ed elevazioni sulla Santissima Trinità” (78).

Questa mistica presenza, questo, per così dire, ininterrotto potere di disporre del divino era comune ad Ignazio ed a Filippo, ed il santo fondatore dell’Oratorio, di questa meravigliosa scuola di preghiera, avrebbe potuto esattamente affermare quanto Ignazio disse, una volta, di se stesso: “Mi pare, che io non potrei assolutamente più vivere, se io non percepissi nell’anima una qualunque cosa che non ha origine in me stesso e che non è puramente umana, ma, anzi, viene soltanto da Dio” (79).

Quando Filippo vedeva sul volto d’Ignazio il riflesso di questa unione con Dio, “la bellezza interna dell’anima sua” (80), egli sospettava quanto i confratelli, nei due anni precedenti la morte del p. Ignazio percepivano in lui con timido amore. “Egli aveva la grazia di percepire la presenza di Dio in ogni cosa, in ogni azione, in ogni conversazione, con fine senso per lo spirituale. Sì, egli guardava quella presenza e perciò divenne contemplativus in actione. Egli usava tradurre ciò nel motto: Dobbiamo trovare Iddio in ogni cosa. Con profonda meraviglia e con dolce consolazione del cuore noi vedevamo che questa grazia, questa luce, che era nell’anima sua, era sparsa sul suo volto come un bagliore e si manifestava nella prudenza e nella decisione in tutte le sue azioni” (81).

I FONDATORI D’ORDINI

Ma questi due uomini, questi due mistici furono anche fondatori d’Ordini ed ambedue impressero alle loro fondazioni, indelebilmente, qualcosa della loro personalità. La loro somiglianza e la loro diversità continuano anche nella Compagnia di Gesù e nella Congregazione dell’Oratorio. Già la storia dell’origine delle due comunità è quasi riflesso della storia del cuore di Iñigo e di Filippo.

In primo luogo, la storia degli inizi della Compagnia di Gesù. I compagni che Iñigo a Parigi ha conquistati, sono, fin dal principio, dediti al loro maestro con una unione del tutto personale: simili, in questo, ai compagni che, più tardi, Filippo riunisce intorno a sé e lega a sé col fascino del suo cuore. I “magistri” parigini vogliono, appunto, solo seguire “il modo di vivere di Iñigo” (82), che egli ha loro posto innanzi negli Esercizi Spirituali.

Ma, fin dall’inizio, c’è qui anche un vigore nell’operare, che distacca nettamente gli inizi della Compagnia di Gesù e quelli della Congregazione dell’Oratorio: Iñigo non è soltanto il cuore, ma (al contrario di Filippo) anche la volontà della nuova comunità. Iñigo è l’uomo davanti agli occhi del quale, già negli Esercizi Spirituali, sta sempre la parola “regola di vita”, un uomo della netta ordinatezza, della “pianificazione”, dell’infallibile istinto per la gerarchia, per la subordinazione, per la potestà di comando.

Ciò diviene evidente da quando i compagni, nel 1539, si ritrovano a Roma per discutere il problema che alcuni decenni più tardi venne in discussione anche nella comunità degli Oratoriani: dobbiamo rimanere un libero gruppo di preti secolari, dediti all’apostolato, o dobbiamo riunirci in una famiglia regolare? Questa “deliberatio primorum Patrum” porta ancora per così dire tratti “filippini” in molte parti. Nella espressamente rilevata “pluralitas sentetiarum” (83), con la quale incominciano le vivaci discussioni, pulsa ancora il principio democratico, per così dire, della libera comunità dei fratelli di Parigi e di Vicenza.

Ma poiché tutti sono d’accordo, in forza degli ideali tratti dagli Esercizi Spirituali, di mettere a disposizione le loro vite, in sacrificio totale per il Cristo, per il suo Vicario in terra, immediatamente, dall’amorfo movimento degli spiriti, si cristallizza la risoluzione guidata da Iñigo: costituirsi in famiglia regolare, sotto l’obbedienza ad un superiore elettivo (84). Fra i motivi, che, in primo luogo, sembravano opporsi e che furono discussi minuziosamente, troviamo considerazioni che più tardi ritorneranno nelle discussioni dell’Oratorio alla Vallicella: la leggera diffidenza nella Chiesa di fronte a nuove fondazioni di Ordini e, soprattutto, il desiderio di conservare la massima libertà possibile nella cura delle anime che, per i figli di Iñigo, consisteva allora quasi esclusivamente nel catechismo ai ragazzi e nel servizio negli ospedali: precisamente quanto, anche per Filippo, fu sempre l’essenziale.

Nel circolo di Iñigo la decisione cadde a favore dell’obbedienza e la motivazione più profonda a suo favore è di nuovo addirittura filippina: “A favore dell’obbedienza, disse uno di noi: l’obbedienza produce gesta eroiche e sentimenti duraturi. Perché chi vive veramente sotto l’obbedienza, è pienamente pronto ad eseguire tutto quanto gli venga comandato, anche se fossero cose molto ardue, che suscitano beffe, risa e meraviglia presso i mondani, come, per esempio, se mi fosse ordinato di girare, per quartieri e per vie, nudo o vestito di abiti che diano nell’occhio. Anche se, in pratica, una cosa simile non fosse mai comandata, ognuno dovrebbe esser pronto a farlo, in quanto mortifica il proprio giudizio e la propria volontà” (85).

Da questo comprendiamo come (lo abbiamo già notato), ancora anni dopo, Simon Rodriguez potesse designare simili pazzie ascetiche “fondamenti del nostro Ordine”. Ignazio lo richiamò allora alla “mediocrità della discrezione”. Ma che, nel 1539, gli sia piaciuta l’esemplificazione della sua idea fondamentale dell’obbedienza quale ordinamento di vita, come la presentò uno dei suoi compagni, non c’è il minimo dubbio, se ricordiamo quanto egli stesso ha confessato di sé e del suo ardente desiderio di commettere pazzie per Iddio. Tanto più sorprendente (anche in considerazione delle primitive discussioni sulla fondazione dell’Ordine) la discrezione, con la quale egli prende il fatto, che, nella redazione della vera e propria bolla di fondazione del 27 settembre 1540, si sopprimono le proposizioni “antiascetiche”, che agli aveva accolte nella prima minuta dell’agosto 1539, per porre un argine, fin dal principio, in forza dell’obbedienza, colla discrezione dell’“ordinario”, alla brama di quegli eroismi della “pazzia per il Cristo”.

Il suo Ordine vive, da allora in poi, di questo interno equilibrio delle forze fra la croce ed il vivere giornaliero, fra la follia e la discrezione, fra il libero corso del comandamento dell’amore e l’obbedienza: e tutto è accompagnato e regolato dall’ideale dell’obbedienza considerata con inesorabile rigore, che garantisce la giusta mira allo scopo di ogni formazione delle anime e di ogni direzione spirituale. Non è forse ora del tutto comprensibile, che Pippo buono, tanto libero (il quale pure aveva tanto profonda intelligenza per tutte le pazzie per amor di Dio, e che realmente destava nei “mondani
beffe, risa e meraviglia”) non abbia avuto nessun desiderio di unirsi a questa comunità di “magister” Ignazio?

Le pazzie in onore presso questi preti di Santa Maria della Strada (essi avevano con lui in comune le canzonature dei ragazzi di strada, il popolo li chiamava collitorti e spazzatura ed escremento della città di Roma) (86) sarebbero state un godimento anche per Filippo. Ma egli, per tutta la vita, conobbe un solo principio: “Vivere suo arbitrio” (87). Ed egli lo sapeva: tale era la volontà di Dio, era la sua vocazione, nell’ampio paese della libertà dell’uomo cristiano. E perciò non aveva proprio nessun gusto per l’”ordine”, per la “regolamentazione” basca di “magister” Ignazio.

E se pure egli suonava la campana per lui, egli personalmente voleva restare libero e riunire intorno a sé, con libera, per così dire, capricciosa improvvisazione, quegli uomini, che trovasse abbastanza forti, per avere quella libertà. Così si formò, a poco a poco, intorno a lui, quasi da sé, quasi senza accorgersene, una piccola comunità, da quando, nel 1548, egli, con Persiano Rosa, aveva formato la cellula originaria del futuro Oratorio, in quei convegni di spontanea, ardente e tuttavia infinitamente semplice orazione, o nell’assistenza ai romei, alla Ciambella, presso le terme di Agrippa (88). E, da quando, nel 1551, era divenuto prete, la sua angusta camera presso San Girolamo della Carità divenne l’ambito beato della sua libertà e della sua ardente direzione spirituale. “Chacun y vivait à sa guise, isolé dans un petit appartement... Pas de table commune. Pas de supérieur… Pour son humeur et pour l’oeuvre à venir c’étaient les conditions idéales” (89).

Da San Girolamo il nostro sguardo va alla “casa professa” di “magister” Ignazio presso la piccola chiesa di Santa Maria della Strada, e, con questo sguardo, afferriamo quanto divergano ora le vie dei fondatori. Già prima dell’autunno decisivo 1551, nella cerchia di Filippo c’erano stati alcuni malintesi
relativamente agli “Ignaziani”, proprio perché questi, allora, ancora in modo invadente si occupavano degli stessi compiti caritativi e catechetici, ai quali si dedicava Filippo.

È vero, che si leggono anche i nomi di alcuni amici di lui, nella lista dei promotori della casa di Santa Marta, fondata da Ignazio (90). Ma nell’Oratorio di Filippo e di Persiano Rosa, che andava lentamente nascendo, non si aveva certo molta comprensione, per il progettare ed eseguire dell’opera di riforma di quella compagnia di Ignazio, progettare ed eseguire che miravano bensì allo scopo, ma apparivano pur sempre un po’ troppo rigidi. Senza dubbio, la si pensava come il francescano Fray Barberàn si esprimeva, nel 1546, nella sua querela a Paolo III contro la casa di Santa Marta: “Questi preti vogliono riformare il mondo intero” (91). In ogni modo, leggiamo, nel 1547 (o un po’ dopo) nel libello d’accusa (92) del domenicano fra Teofilo di Tropea “Contro i preti, li quali se fanno chiamare de la Compagnia de Jesu, o vero Reformati, o preti Theatini, o vero Illuminati, o vero Ignatiani”, di un certo prete Francesco da Arezzo, abitante presso San Girolamo, che egli era stato per un certo tempo, presso la comunità d’Ignazio e che poi, disilluso, l’aveva di nuovo lasciata (93).

Ora, questi è senza dubbio, Francesco Marsuppini, amico intimo di Filippo e, più tardi, suo venerato confessore (94). Evidentemente il Marsuppini trovò più di proprio gusto la cerchia piena d’intimità dell’Oratorio incipiente, che l’austera disciplina sotto “magister Ignazio” nella casa professa. Da ciò comprendiamo ancora una volta, anche perché Pippo, quasi istintivamente e con un amabile sorriso (è probabile) abbia rifiutato di unirsi ad Ignazio.

Dal 1551 in poi, le diversità fra gli ideali delle due congregazioni si fanno ancora più chiare. Il biografo di Filippo ha, con ragione, designato proprio quell’anno della ordinazione sacerdotale di Pippo e dell’inizio della sua vita a San Girolamo, quale un taglio nello sviluppo dell’Ordine dei Gesuiti (95). Ignazio ha finito di scrivere il proprio statuto dell’Ordine e lo presenta ai professi riuniti a Roma. Le bolle di papa Giulio III danno la sanzione canonica all’opera. Ignazio può ora veramente cedere a una tendenza “filippina” del suo intimo cuore e scrive, il 30 gennaio 1551, la sua famosa lettera di dimissioni, che però resta senza effetto (96).

Le attività del suo Ordine sono cresciute fino ad abbracciare tutto il mondo, a Roma stessa le opere d’un tempo, volte all’assistenza caritativa delle anime ed all’apostolato dei catechismi ai ragazzi, passano in secondo piano, mentre, al loro posto, sorgono ora il Collegio Romano ed il Collegio Germanico; educazione e culto delle scienze, teologia al Concilio di Trento e Missioni, fino al Giappone ed al Brasile, devono essere guidate ed ispirate.

Il numero e la formazione dei membri dell’Ordine richiedono rigorosissima concentrazione, ed Ignazio scrive la sua lettera sull’obbedienza (1553) e, proprio dal 1551 in poi, la corrispondenza del generale dell’Ordine cresce smisuratamente: quella, che era una volta una cerchia di amici, in dieci anni è diventata una vera monarchia, che tocca tenere in pugno fortemente e saggiamente.

Uomini, come, poniamo, Nicola Bobadilla, nonostante l’entusiasmo per il loro “magister” Ignazio d’un tempo, sentono questo mutamento come in contrasto ai beati inizi “democratici” dei primi tempi, e proprio quel Bobadilla, poco dopo la morte d’Ignazio, scriverà a papa Paolo IV: “Ignazio era finora padre e padrone assoluto e faceva quello che voleva” (97). Gli stessi più affezionati fra i figlioli del primo generale, come il Laynez ed il Polanco, avevano difficoltà, alle volte, a scoprire il cuore pieno d’amore e la raggiante bontà del padre, sotto la coperta dell’autoritario, che dava loro in cibo “pane duro e vivande da uomini fatti” (98).

Per quanto sussista ancora interamente il legame personale allo spirito di “magister” Ignazio, proprio in forza delle sue genialmente immaginate Costituzioni, il generale dell’Ordine Ignazio diviene, per così dire, sempre più “superfluo”, egli sparisce dietro l’opera sua, e si dilegua nella morte, con piena coscienza di non lasciare nessun “vuoto”. Proprio questa impressione è quella che manifestano i confratelli nelle loro lettere dopo la morte d’Ignazio, avvenuta il 31 luglio 1556. Così il fedele Polanco scrive al Ribadeneira, figlio prediletto di Ignazio: “Egli non ci ha convocati intorno a sé, per darci la benedizione, egli non ha nominato nessun successore e neppure nessun vicario, egli non ha dato nessun segno, come sogliono darne, alla loro morte, i Servi di Dio. No, perché egli voleva, proprio perché pensava tanto bassamente di sé stesso, che la Compagnia di Gesù non fondasse la propria speranza su nessun altro che il Signore Iddio” (99).

Filippo vide questo sviluppo della Compagnia di Gesù negli anni benedetti da lui passati a San Girolamo della Carità, dal 1551 in poi. Egli ha lealmente ammirato la Compagnia e leggendo le lettere di Francesco de Xavier dall’India, in lui e nei suoi amici sorse un ardente desiderio di collaborare a quell’opera grandiosa. Ma erano desideri, che non si adattavano all’anima di lui e perciò neppure alla sua divina vocazione. Il mistico monaco delle Tre Fontane, al quale ricorse per consiglio, gli disse: “Le tue Indie sono a Roma” (100).

Filippo tornò nella sua cameretta e visse, come prima, “suo arbitrio”. Nella casa professa vicino a Santa Maria della Strada non sarebbe stato a posto ed a persuadercene basta che leggiamo, accanto alle relazioni della vita deliziosamente libera presso San Girolamo, dove si pregava e ci si beava delle musiche degli Oratori, il regolamento di casa stabilito, negli ultimi anni della vita, dal generale Ignazio, amico dell’ordine, nel quale tutto era regolato, persino la forma comune delle scarpe (101), eppure tutto tendeva alla rigorosa formazione di uomini, che si potevano mandare nel Giappone o al Congo, senza che battessero ciglio. Di qui comprendiamo anche perché Ignazio sia stato così ferreamente contrario alle proposte di unire al proprio Ordine i Teatini o i Barnabiti (102), quei buoni Barnabiti di Milano che si sentirono tanto a loro agio e compresi nell’Oratorio di Filippo alla Vallicella (103).

E così proprio in confronto col sorgere e svilupparsi della Compagnia di Gesù, il lento formarsi, canonicamente, della vera e propria Congregazione dell’Oratorio di s. Filippo Neri è un’ultima prova della incommensurabile larghezza di ideali cristiani nella Chiesa una ed in vista dell’unica meta comune. Filippo visse più di vent’anni a San Girolamo, prima che, dal 1575 in poi, venisse in discussione l’idea della fondazione di una famiglia “organizzata” di preti secolari viventi in comune. Che differenza con la “deliberatio primorum Patrum” dei compagni d’Ignazio nel 1539!

In ogni modo per i confratelli della Vallicella, fin dall’inizio, una cosa è già stabilita: non si tratta in nessun modo della fondazione di un nuovo Ordine; non entrano in questione i voti. Anzi, presso Filippo, non ci fu mai una vera e propria, riflessa intenzione di fondazione (104). Egli è, in vero, e rimane, fino alla sua santa morte, il cuore della comunità, ma le deliberazioni per così dire lo travolgono, lo sommergono. Egli stesso prende appena parte alle lunghe sedute, perché, fra i suoi figli, sorge già la seconda generazione, che, cosciente, cerca una forma per la nuova comunità quale un “chiostro in mezzo al mondo” ed un “aureo mezzo” fra Ordine religioso e libertà. Per dieci anni, dopo l’inizio delle discussioni, egli persiste ad abitare, pertinace, e quasi un po’ contrariato, nella sua cella presso San Girolamo. Soltanto l’ordine del Papa lo costringe al trasloco alla Vallicella e Pippo, sempre uguale a se stesso, sa dare a questo trasloco la forma di un delizioso corteo di pazzi per amor di Dio (105). Quasi indispettito, respinge la questione, se non si debba dar forma di voto alla povertà della vita comune (106).

Lo sviluppo della Congregazione romana e la fondazione di Congregazioni fuori Roma, che egli deve dirigere quale padre nello spirito da tutti amato con venerazione, gli danno preoccupazioni, scrive di rado e poco volentieri lettere e, per quanto riguarda l’obbedienza, preferirebbe lasciar fare allo spirito ed arriva alla sublime massima (che bisogna gustare accanto alla lettera di Ignazio sull’obbedienza): “Se vuoi che ti si obbedisca, non dare ordini” (107). Soltanto molto tempo dopo la morte di Filippo (nel 1612), la Congregazione dell’Oratorio trova quella forma stabile, nella quale si poté conservare fresco il profumo dello spirito filippino. Perciò ha ragione il biografo di Filippo quando dice:“ Tratto per tratto, la Congregazione dell’Oratorio è il contrario delle celebre istituzione della Compagnia di Gesù” (108). Perché lo Spirito di Dio soffia dove vuole.

Quando, il 31 luglio 1956, ricorderemo la morte di Ignazio, il nostro sguardo andrà anche ai rilievi dorati dello splendido altare, sotto il quale egli riposa: in uno di quei rilievi è raffigurato Ignazio, mentre, con grande affetto, abbraccia il suo Filippo Neri (109). Nell’anticamera della stanzetta, nella quale Ignazio morì, è appeso un quadro, che rappresenta, fraternamente uniti, i due eroi della riforma romana. Essi furono canonizzati insieme, e, per sempre vicini, appartengono al regno dello Spirito. Perché essi, fin di quaggiù, con lo sguardo penetrante, che è proprio degli uomini di Dio, si sono riconosciuti l’un l’altro per uomini perduti nell’amore di Dio. Il nostro tentativo di afferrarli in questi abissi è stato goffo e incompleto. Consoliamoci con quanto scrisse, dopo un incontro con Filippo, il p. Oliver Manare, che ancora Ignazio aveva accolto alla propria scuola: “Il venerabile don Filippo Neri, il preposito dell’Oratorio, mi disse d’aver visto, un giorno, il volto del beato padre Ignazio inondato di splendore soprannaturale e che perciò egli era del parere che nessuna opera di pittura possa rappresentarlo così, come egli era in realtà” (110).

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NOTE AL TESTO
1 Per la vita di S. Filippo Neri usiamo la migliore biografia finora comparsa: LOUIS PONNELLE e LOUIS BORDET, Saint Philippe Néri et la société romaine de sons temps (1515-1595), Paris, 1929 (citata nel testo con la lettera P).
2 P 520 – Sui malumori, già al tempo di Francesco Borgia, cfr. P 264, 58.
3 P 54 s. e P. TACCHI VENTURI, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, II, I, Roma, 1950, pp. 300-304.
4 F N II 637 (Fontes Narrativi de Sancto Ignatio, 2 voll., Roma, 1943-51. Riedizione critica ed aumentata delle fonti contemporanee su Ignazio in Monumenta Ignatiana, 4, I).
5 G. SCHURHAMMER, Franz Xaver. Sein Leben und seine Zeit, I, Freiburg, 1955, p. 427 s. Sull’incontro di Filippo con Ignazio e Francesco Saverio, ibidem p. 481.
6 Monumenta Historica Societatis Jesu (M.H. - S.J.) – Epistolae S. Francisci Xaverii, I, 17; II, 5711 s. – P 163 s.
7 Acta Sanctorum Julii, VII, 532 (n. 588).
8 Monumenta Ignatiana (M.I.) IV, 2, 423 s.; IV, I, 513.
9 P 34 (Lui même confiait à Zazzara qu’il avait peu étudié, et qu’il n’avait pu apprendre, parce qu’il s’occupait de prières et d’autres exercices spirituels). Processo Canonico, f. 39 v. ; cfr. anche Tarugi f. 638 v. (Vat.).
10 M.I. IV, I, 524.
11 P 88.
12 M.I., I, I, 138; 143.
13 M.I. I, 7, 256.
14 G. SCHURHAMMER – Franz Xaver, cit., I, 397 s.; 407 s.
15 P 524.
16 F.N., I, 609.
17 M.I., III, I, 20; 30.
18 P 51.
19 P 54; SCHURHAMMER cit. I, 489 nota 4.
20 P. TACCHI VENTURI – Storia della Compagnia, cit. II, I, p. 303.
21 P 54; Acta Sanctorum Maii VI, 525.
22 F.N. I, 588.
23 P 91 (Proc. Can. f. 113).
24 Italienische Reise, Neapel 26 Mai 1787.
25 M.I. IV, I, 423.
26 F.N. I, 637; H. RAHNER – Ignatius von Loyola. Briefwechsel mit Frauen, Freiburg, 1956, p. 484.
27 C. A. KNELLER – Das Oratorium des heiligen Philipp Neri und das musikalische Oratorium: in Z.K.Th. 41 (1917), 246-282.
28 M.I. III, I, 19.
29 Diario di Ignazio, 11 maggio 1544 in M.I. III, I, 137.
30 F.N. II, 337.
31 M.H. S.J. – Litterae Quadrimestres IV, 328 e seg.; J. BRODRICK – Petrus Canisius, I, Wien, 1950, 384.
32 F.N. I, 636 e seg.
33 M.I. IV, I, 523; F.N. I, 376 e seg.; SCHURHAMMER, op. cit., I, 462.
34 P 525.
35 Diario di Ignazio, 19 febbraio 1544 in M.I. III, I, 101.
36 M.I. IV, II, 825, 828, 831.
37 N. LANCICIUS – Opuscula spiritualia II, Anversa, 1650, 639; SCHURHAMMER, op. cit., I, 397, nota 5.
38 P 93 (Proc. f. 388), 373 (RICCI, Vita…del p. P. G. Bacci accresciuta ecc. con l’aggiunta d’una breve notizia di alcuni suoi compagni per opera del rev. p. maestro Giacomo Ricci…, Roma, 1678).
39 Vita P. Ignatii Loyolae, V, 10 (ediz. di Colonia, 1602, p. 636).
40 F.N. I, 542.
41 F.N. I, 642.
42 F.N. I, 643; 656; 701; 703; 713; SCHURHAMMER, op. cit. I, 470.
43 P 530 e seg.
44 P 85-87.
45 F.N. I, 645 e seg.; M.I. IV, I, 407; F.N. II, 328 e seg.; B. WILHELM, Die Stigmatisierte in Bologna, in Zeitschrift für Aszese und Mystik, Innsbruck e Würzburg V, 1930, 176-178; H. HUONDER, Ignatius von Loyola, Köln, 1932 p. 298 seg.; H. RAHNER, Ignatius von Loyola Briefwechsel etc. cit. p. 28-30.
46 P 527; H. RAHNER op. cit. 14, 16 e seg., 23 e seg.
47 ST. HILPISCH, Die Torheit um Christi Willen in Z. für A. und M. VI, 1931, 121-131.
48 J. SCHMITZ, Lexicon für Theologie und Kirche, VIII, 1936, 232.
49 P 96. P.C. 129 v: “Che volete, che io mi metta in sussiego, et che si dica: questo è il padre Filippo, con sputar belle parole?... Se ci viene, io farrò peggio”. P.C. 388: “Non vedi, bestia, che diriano poi: ecco, messer Filippo è un santo”.
50 P 529 “Un jour qu’il est malade on l’entend declarer: Si j’en réchappe, je fais voeu de vouloir toujours offenser Dieu et il ajoute: Car j’attends de sa bonté qu’ill me fera la grâce de ne l’offenser jamais” (Archivio Roma. Fascicolo di alcuni ricordi cavati dalli processi n. 215) cfr. notes de Frédéric Borromée (Biblioteca Ambrosiana “Argumenta” riprodotto dal periodico “San Filippo Neri” 26 VII, 1923) qui contiennent un texte presque identique: “Il disait souvent: Je promets à Dieu de ne jamais faire de moi-même aucun bien; je désespére de moi-même, mais je me confie en Dieu”.
51 P 529 nota 7.
52 P 529 (Archivio Roma: “Scritture originali… - Alcuni ricordi et consegli del B. Filippo Neri, fondatore della Congregazione dell’Oratorio” n. 156); P 531 (“sforzare Iddio”: P.C. f 72, 188, 197, 284).
53 Il motto famoso per l’interpretazione che ne dà Goethe (cfr. Italienische Reise – Unterwegs 4-6 Juni 1787): “Spernere mundum, spernere neminem, spernere seipsum, spernere se sperni”, che finora si attribuiva a S. Bernardo, è di Ildeberto di Le Mans (Patrologia Latina 171, 1437).
54 F.N. I, 609; H. RAHNER, Ignatius von Loyola und das geschichtliche Werden seiner Frömmigkeit, Graz-Salzburg, 1949, pp. 60-62, 84.
55 K. RAHNER, Die ignatianische Mystik der Weltfreudigkeit in Z. für A. und M., Innsbruck und Würzburg, XIII 1937, pp. 121-137; B. SCHNEIDER, Der weltliche Heilige. Ignatius von Loyola und die Fürsten seiner Zeit in Geist und Leben XXVII (1954) pp. 35-58.
56 F.N. I, 140.
57 Vita P. Ignatii Loyolae, V, 2 (Köln 1602, p. 549).
58 M.H.S.I., Mon. Rodr. 548.
59 F.N. I, 768.
60 M.I., IV 2, 571, 851, 1009; Vita P. Ignatii Loyolae, V, 3 (Köln 1602, p. 562).
61 M.I., IV, 2, 571.
62 P 79-82.
63 P 79 “Vorrei saper da te com’ella è fatta questa rete d’amor che tanto abbraccia”.
64 M.I. III, I, 124.
65 P 467 e segg.
66 M.I. III, I, 88, 91, 93, 99 segg. Cfr. il testo tedesco presso A. FEDER, Aus dem mystichen Tagebuch des heiligen Ignatius von Loyola, Regensburg, 1922, pp. 39, 43, 46, 55, 57. V. LARRANAGA, Obras completas de San Ignacio, I, Madrid, 1947, 687 nota 10. H. RAHNER, in Z. für A. und M., Innsbruck und Würzburg, 10 (1935), 266.
67 M.I. III, I, 114. FEDER op. cit. p. 77.
68 F.N. I, 638 e segg.
69 F.N. II, 158. Cf. H. RAHNER, Briefwechsel, cit. p. 533.
70 F.N. II, 122.
71 M.I. IV, I, 573.
72 M.H.S.I. Mon. Nadal IV, 645.
73 M.I. IV, I, 353 segg.
74 Exercitia nn. 330 e 336: M.I. II, I, 528, 534.
75 P 34 segg. Extra Urbem f 27 «Fece, molti anni, vita come heremitica, mangiando cose grosse, frutti et pane, dormiva vestito per le chiese, et altri luoghi devoti, et haveva l’oratione pronta, che più tosto, era provocato dal spirito, che bisognasse con la meditazione, eccitare la fiamma». Cf. il giudizio del card. Tarugi sulla santità d’Ignazio: M.I. IV, 487 segg.
76 F.N. II, 122 segg.
77 F.N. II, 125.
78 F.N. II, 158.
79 M.I. IV, I, 470; F.N. 349
80 M.I. IV, 2, 425 segg.; 499. M.I. IV, I, 513.
81 Mon. Nadal IV, 651 segg. H. RAHNER in Z. für A. und M., Innsbruck und Würzburg, cit. 10 (1935) 203 segg.
82 F.N. I, 183; F.N. II, 82.
83 M.I., III, I, 2.
84 M.I. III, I, 4-7; Cfr. SCHURHAMMER, Franz Xaver, 1, 437 segg.
85 M.I. III, I, 6 segg.
86 M.I. IV, 2, 828; BENEDETTO PALMIO, Autobiografia, 14, cf. testo presso TACCHI VENTURI, Storia, I, 2 (1950) 247.
87 P 95, 317 segg.
88 P 58-62.
89 P 122.
90 P 54 nota 6. Testo dell’elenco presso TACCHI VENTURI, Storia, I, 2 (1950) 296-307. I nomi dei tre amici di Filippo e membri del futuro Oratorio che compaiono nell’elenco della Compagnia della Grazia, fondata da Ignazio per la casa di S. Marta, sono Enrico Pietra (TACCHI VENTURI 305, nota 5), Teseo Raspa (id. nota 6) e Prospero Crivelli (id. 306, nota 1). Sulla miracolosa guarigione di Prospero Crivelli per opera di Filippo cfr. P. 110.
91 M.I. I, 447; H. RAHNER, Briefwechsel, cit. 21 segg.
92 TACCHI VENTURI, Storia, I, 2 (1950) 278 data il libello fra il 1547 e il 1552.
93 Id. I, 2 (1950) 281. Non è pienamente sicuro che noi possiamo credere a questa notizia perché la relazione di fra Teofilo è piena di dicerie e di favole. In ogni caso fra Teofilo, il quale abitava presso S. Maria sopra Minerva, dove Filippo andava tanto spesso a pregare con i suoi amici, potrebbe in questo caso esser meglio informato. Al punto n. 7 del suo libello all’Inquisizione è detto: “Ancora sta uno prete de Arezo in Santo Hyeronimo, lo quale se domanda maestro Francesco d’Arezo, lo quale si è stato con loro. Quistui sa il cotto et il crudo, lo quale l’hanno fatto fare professione, cioè tre voti, et dopo, videndo quello che vide, se partio”.
94 P 57, nota 3; P 58.
95 P 144 segg.
96 M.I. I, 3, 303 segg.; cfr. L. von MATT e H. RAHNER, Ignatius von Loyola, Zürich-Würzburg-Wien, 1955, 289. La riproduzione dell’ultima pagina di questa lettera ivi tav. 201.
97 MHSJ, Mon. Nadal IV, 732 segg.; TACCHI VENTURI, id. II, 2 (1951) 543.
98 F.N. I, 588; M.I. IV, I, 424; F.N. I, 87, 673.
99 M.I. IV, 2, 21.
100 P 164.
101 M.I. IV, I, 483-490.
102 M.I. IV, I, 439 segg. Per l’unione con i Teatini cfr. M.I. I, 6, 84; MHSJ Chron. Pol. III, 182. Per l’unione con i Barnabiti cfr. la lettera di Ignazio a Mons. Girolamo Sauli in M.I. I, 4, 495 segg. e l’insistente domanda di Sauli in M.I. I, 4, 497 segg.
103 P 264 segg.
104 P 268 segg.
105 P 353.
106 P 327.
107 P 317.
108 P 58. Il paragone fra la prassi della preghiera degli Esercizi dell’Oratorio con gli Esercizi spirituali di Ignazio (P 273 segg.) sembra non riuscito in tutto felicemente.
109 Una riproduzione presso CH. CLAIR, La vie de Saint Ignace de Loyola, Paris, 1891, 310. Per un arazzo della chiesa del Gesù con una simile rappresentazione dei due santi amici cfr. PIO PECCHIAI, Il Gesù di Roma, Roma, 1952, p. 203.
110 M.I. IV, I, 513.