Fiducia e sapienza: è l'arte del riparare, di Fabrice Hadjadj
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Il Centro culturale Gli scritti (24/1/2016)
Avevamo un ferro da stiro, classico, elettrico: non era più uno di quei ferri di ghisa piena che si mettono a scaldare sulle braci del focolare, ma un apparecchio di marca Calor, attaccato a una presa di corrente. Quando smise di funzionare, mia moglie pensò di farlo riparare. Il venditore le rispose che, al costo della riparazione, era meglio prendere il nuovo modello a vapore… – “Vapore” sarebbe la parola d'ordine del seguito. Perché, tre o quattro anni più tardi, quando a sua volta questo ferro si guastò, di nuovo si ripeté la stessa scenetta e mia moglie tornò a casa con quella che si chiama una “centrale a vapore”. Era un ferro collegato a un grosso serbatoio d'acqua che gli serviva da base e che permetteva, secondo la pubblicità, di “dimezzare il tempo di stiratura”.
Quando la mia dolce e cara metà volle porre rimedio al primo malfunzionamento di questa centrale – dopo due anni di uso e già di usura, e soprattutto giusto appena dopo la scadenza della garanzia, le raccomandai, visto il prezzo, di considerare ancora la possibilità di una riparazione. Quella volta lei ritornò a casa con il “Fashion Master” della ditta Miele. Concepito dai predicatori delle “pieghe zero” questo arnese non possedeva soltanto un serbatoio più largo e più design: era integrato a un'asse da stiro “attiva” che soffiava vapore da sotto, così che la camicia, stretta in mezzo come in un pressing, non poteva che appiattirsi.
Purtroppo, con la mia abitudine a pensar male, sentivo che quella meraviglia doveva la sua invenzione alla logistica del consumo e dello scarto. Nella sua morsa di vapore, essa schiacciava la sua avversaria: la cultura della riparazione. Certo, nel “Fashion Master” si dispiega qualcosa dell'ingegnosità umana. Ma, come osserva Matthew Crawford nel suo Elogio del carburatore, riparare è più difficile che innovare ed è anche più umile e al tempo stesso più grande.
Riprendendo l'osservazione di Aristotele: «Compito della medicina non è il produrre la salute, bensì solamente il favorirla al massimo grado», Crawford commenta: «Le attività di manutenzione e di riparazione, che si tratti di veicoli o di corpi umani, sono molto diverse dalle attività di fabbricazione o di costruzione a partire da zero. […] Medici e meccanici non sono i creatori degli oggetti sui quali intervengono. […] Nel loro lavoro quotidiano essi devono accettare il mondo come un'entità che non dipende da loro, e conoscono molto bene la differenza tra l'io e il non io. Essere un “riparatore”, è forse anche una forma di cura contro il narcisismo».
L'arte di riparare esige una disposizione cognitiva e al tempo stesso morale: «Essere attenti, come in una conversazione, e non semplicemente assertivi, come in una dimostrazione». A differenza del costruttore, il riparatore si pone in un orizzonte di ricettività a un'organizzazione che lo precede. Così, il suo modo di operare è esemplare per l'ecologia.
Lo è anche per quest'Anno della Misericordia. Trovo nel mio dizionario che “riparare” un tempo voleva dire specialmente «sposare una ragazza il cui onore è stato compromesso». Ciò rinvia all'obbligo di “riparare i propri torti”, certo, ma ci ricorda anche che la riparazione nel seno dell'Alleanza è il cuore dell'attività divina. Il Creatore avrebbe potuto giocare invece la carta dell'innovazione: far sparire la creatura peccatrice e crearne un altra, più promettente.
Il segno della sua Onnipotenza è quello di essere Redentore – o Riparatore, e cioè di trarre qualcosa di buono da un vecchio mascalzone – come me… Perché, per quanto mi riguarda e con mia grande vergogna, fino adesso ho lasciato a mia moglie tutto il peso della stiratura, e bisogna, quest'anno, che impari a servirmi del “Fashion Master”.