I progressi dell'ecumenismo, di J. Ratzinger. Una lettera del 1986 alla «Theologische Quartalschrift» di Tubinga
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Riprendiamo da J. Ratzinger, Chiesa, Ecumenismo e Politica, Ed. Paoline, 1987, pp. 131-137, una lettera dell’allora cardinale Joseph Ratzinger. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (5/4/2015)
N.B. de Gli scritti: la traduzione in italiano è estremamente «letterale» e si vede che una maggiore aderenza alla lingua italiana avrebbe facilitato la lettura e la comprensione.
La «Theologische Quartalschrift» ha pubblicato nel 1986, sotto la direzione del prof. M. Seckler, un quaderno circa lo stato dell'ecumenismo. Io fui gentilmente invitato a parteciparvi. Questa lettera è il mio tentativo di risposta all'invito
Stimatissimo e caro signor collega Seckler!
Lei mi ha invitato a tracciare per la Theologische Quartalschrift un quadro di ciò che io penso a riguardo dei progressi dell'ecumenismo. Non mi è facile rispondere a una domanda così enorme a causa del tempo purtroppo limitato. Lo farò ma ovviamente in maniera lacunosa e insufficiente. D'altra parte io vedo sempre più chiaramente che abbiamo bisogno di propositi nuovi sul tema delle prospettive ecumeniche e, nonostante tutti i ripensamenti, non vorrei dir di no al Suo invito.
Mi consenta anzitutto un breve sguardo all'indietro lungo la strada percorsa negli ultimi vent'anni. Situare l'oggi mi sembra indispensabile per poter vedere il domani. Quando il Concilio Vaticano II gettò basi nuove nella Chiesa cattolica per l'attività ecumenica, c'era già stato un lungo processo di comuni ricerche, che aveva portato alla maturazione di alcune idee che si sono quindi potute rapidamente mettere in pratica. Durante questa fase, in cui tutto d'un tratto si resero possibili novità così importanti e inaspettate, parve fondata la speranza per una fine rapida e completa della divisione. Ma quando ciò che era diventato possibile da dentro venne tradotto in forme ufficiali, dovette necessariamente subentrare una specie di quiete. Per coloro che avevano di persona conosciuto fin dagli inizi il processo ecumenico, o che vi avevano anche collaborato, un simile momento era prevedibile, perché essi sapevano bene dove le soluzioni erano in vista e dove, invece, i confini erano ancora invalicabili. Invece, per coloro che stavano al di fuori, questo momento causò una grande delusione; furono inevitabili le imputazioni di colpa e furono facilmente rivolte alle autorità ecclesiastiche.
Subito dopo l'attenuarsi del primo slancio conciliare, era affiorato il contromodello dell'ecumenismo «di base», il quale mirava a far sorgere l'unità «dal basso» se non era possibile farla discendere dall'alto. In questa concezione è giusto che l' «autorità» nella Chiesa non può realizzare nulla che non sia prima maturato nella vita della Chiesa, quanto a intelligenza ed esperienza di fede. Dove, però, non si faceva riferimento a questa maturazione, ma si andava affermando una divisione della Chiesa in «chiesa di base» e in «chiesa ministeriale», non poteva certo emergere una nuova unità di qualche rilievo. Un ecumenismo di base di questo genere crea alla fine soltanto dei gruppuscoli, i quali dividono le comunità, e tra loro stessi non realizzano un'unità più profonda, nonostante una propaganda comune di ampiezza mondiale. Per un certo lasso di tempo parve che le tradizionali divisioni delle chiese sarebbero state superate mediante una divisione nuova e che si sarebbero in futuro trovati contrapposti, da una parte dei cristiani «impegnati» in senso progressista e, dall'altra, dei cristiani «tradizionalisti», che avrebbero ambedue fatto adepti nelle diverse chiese finora esistenti. In tale ottica nacque allora il proposito di omettere del tutto dall'ecumenismo le «autorità», perché un eventuale accostamento o perfino unione su questo piano non avrebbe che rafforzato l'ala tradizionalista della cristianità e si sarebbe impedita la formazione di un cristianesimo nuovo e progressista.
Simili idee oggi non sono ancora del tutto spente, ma sembra tuttavia che il tempo della fioritura sia ormai alle spalle. Un'esistenza cristiana, che si definisce quanto all'essenza secondo i criteri dell' «engagement», è troppo labile nei suoi confini per poter alla lunga creare unità e generare solidità in una vita cristiana comune. Le persone perseverano nella chiesa non perché vi trovano feste comunitarie e gruppi di azione, bensì perché sperano di trovarvi le risposte a domande vitali indispensabili. Tali risposte non sono state escogitate dai parroci o da altre autorità, ma vengono da un'autorità più grande e sono fedelmente mediate e amministrate, semmai, dai parroci. Gli uomini soffrono anche oggi, forse ancora più di prima; non basta ad essi la risposta che viene dalla testa del parroco o da qualche «gruppo attivistico». La religione penetra oggi come sempre in profondità nella vita degli uomini per attingervi un punto di assoluto e, a tanto, serve solo una risposta che viene dall'assoluto. Là dove i parroci o i vescovi non appaiono più come i mediatori di quanto è assoluto anche per essi, ma hanno solamente da offrire le loro proprie azioni, è allora che diventano una «chiesa ministeriale» e, come tali, superflui.
Voglio dire con tutto ciò che la stabilità del fenomeno religioso viene da zone che non possono essere attinte dall'«ecumene di base» ed inoltre che la ricerca di assoluto segna anche i confini di ogni operazione «autoritativa» nella chiesa. Ciò significa che, portatrici di azioni ecumeniche, non possono venir considerate né una «base» isolata, né un'«autorità» isolata; un'azione ecumenica reale presuppone l'intima unità tra l'azione delle autorità e l'autentica vita di fede della Chiesa.
Qui io vedo uno degli errori fondamentali del progetto Fries-Rahner. Rahner pensa che i cattolici seguiranno senz'altro l'autorità; è un presupposto della tradizione e della struttura del cattolicesimo. Di fatto le cose non sono essenzialmente diverse tra i protestanti; se l'autorità decide l'unità e si impegna a sufficienza per essa, non verrà a mancare neppure qui l'obbedienza docile delle comunità. Per me questa è una forma di ecumenismo d'autorità, che non corrisponde né alla concezione cattolica né a quella evangelica di Chiesa.
Una unità operata da uomini non potrà essere logicamente che un affare iuris humani. Non attingerebbe per principio l'unità teologica intesa da Gv 17 e non potrà essere di conseguenza neppure una testimonianza del mistero di Gesù Cristo, ma parlerà unicamente a favore dell'abilità diplomatica e della capacità compromissoria dei responsabili della trattativa. E già qualcosa, ma non tocca il piano veramente religioso, di cui si tratta appunto in fatto di ecumenismo. Anche le dichiarazioni teologiche di consenso rimangono di necessità sul piano dell'intelligenza umana (scientifica), la quale è in grado di approntare certe condizioni essenziali per l'atto di fede, ma non concerne l'atto di fede in quanto tale. Nella prospettiva dell'avvenire mi sembra quindi importante riconoscere i limiti dell'«ecumene contrattuale» e non aspettarsi da essa più di ciò che può dare: avvicinamento su importanti aspetti umani, ma non l'unità stessa. A me sembra che si sarebbero potute evitare certe delusioni, se tutto ciò si fosse tenuto chiaramente presente fin dal principio. Così invece molti, dopo i successi dei primi anni postconciliari, hanno concepito l'ecumenismo come un compito diplomatico secondo categorie politiche. Come da buoni intermediari ci si aspetta che appunto si addivenga dopo un certo tempo a un accordo per tutti accettabile, così si è potuto credere di attendersi tutto ciò dall'autorità ecclesiastica in questioni di ecumenismo. Ma in tal modo si domandava troppo a una simile autorità. Ciò che essa ha potuto fare dopo il Concilio si fondava su un processo di maturazione che non era stato da essa compiuto, ma aveva solo bisogno di essere tradotto nell' ordinamento esterno della chiesa.
Ma, stando così le cose, che cosa dobbiamo fare? In vista di una risposta mi è assai di aiuto la formula che Oscar Cullmann ha coniato per tutta la discussione: unità attraverso pluralità, attraverso diversità. Certamente la spaccatura è dal male, specie quando porta all'inimicizia e all'impoverimento della testimonianza cristiana. Ma se a questa spaccatura viene a poco a poco sottratto il veleno dell'ostilità e se, nell'accoglimento reciproco della diversità, non c'è più riduzionismo, bensì ricchezza nuova di ascolto e di comprensione, allora la spaccatura può diventare nel trapasso una felix culpa, anche prima che sia del tutto guarita.
Caro signor collega Seckler, verso la fine degli anni da me trascorsi a Tubinga, Lei mi diede da leggere un lavoro compiuto sotto la sua guida, lavoro che esponeva l'interpretazione agostiniana della misteriosa sentenza di Paolo: «E' necessario che avvengano divisioni tra voi» (1Cor 11,19). Il problema esegetico dell'interpretazione di 1Cor 11,19 non è in discussione qui; a me sembra che i padri non avevano gran torto a trovare in questa annotazione localizzata un'affermazione aperta sull'universale, ed anche H. Schlier pensa che si tratti per Paolo di un principio escatologico-dogmatico (Th WNT, I, 182). Se è legittimo pensare in questa direzione, assume un peso speciale l'affermazione esegetica secondo cui il δεĩ biblico rinvia sempre in qualche modo a un agire di Dio, cioè a una necessità escatologica (così per es. Grundmann, Th WNT, II, 22-25). Ma allora ciò significa che, se le divisioni sono anzitutto opera umana e colpa umana, esiste tuttavia in esse anche una dimensione che corrisponde a disposizioni divine. Perciò noi le possiamo trasformare solo fino a un certo punto con la penitenza e la conversione; ma quando le cose sono arrivate al punto che noi non abbiamo più bisogno di questa rottura e che il δεĩ viene a cadere, questo lo decide tutto da sé il Dio che giudica e perdona.
Sulla strada mostrata da Cullmann noi dovremmo per prima cosa cercare di trovare unità attraverso diversità, cioè a dire: assumere nella divisione ciò che è fecondo, disintossicare la divisione stessa e ricevere proprio dalla diversità quanto è positivo; naturalmente nella speranza che alla fine la rottura smetta radicalmente d'essere rottura e sia invece solo una «polarità» senza contraddizione. Ma quando ci si protende troppo direttamente verso quest'ultimo stadio con la fretta superficiale del voler fare tutto da sé, si approfondisce la separazione invece di sanarla. Mi permetta di dire il mio pensiero con un esempio molto pratico. Non è stato forse in tanti modi un bene per la Chiesa cattolica in Germania e altrove il fatto che sia esistito accanto alla Chiesa il protestantesimo con la sua liberalità e la sua devozione religiosa, con le sue lacerazioni e la sua elevata pretesa spirituale? Certo, ai tempi delle lotte per la fede, la spaccatura è stata quasi soltanto contrapposizione; ma poi sono cresciuti sempre di più elementi positivi per la fede in entrambe le parti, un positivo che ci permette di comprendere qualcosa del misterioso «è necessario» di San Paolo. Giacché, viceversa, ci si potrebbe immaginare un mondo unicamente protestante? O non è forse vero che il protestantesimo in tutte le sue affermazioni, e proprio come protesta, è del tutto riferito al cattolicesimo, al punto che senza di questo sarebbe quasi impensabile?
Scaturisce di qui un duplice movimento per l'azione ecumenica. Una linea dovrà essere quella di una ricerca per trovare tutta l'unità; per escogitare modelli di unità; per illuminare opposizioni in ordine all'unità. Non solo nelle discussioni dotte, ma soprattutto nella preghiera e nella penitenza. Ma accanto a tutto ciò dovrebbe sorgere un secondo spazio operativo, il quale presuppone che noi non sappiamo l'ora e non la possiamo sapere, l'ora quando e come l'unità si realizza. A tanto vale davvero e in tutta serietà il detto di Melantone: «ubi et quando visum est Deo».
In ogni caso dovrebbe risultare chiaro che l'unità non la facciamo noi (come non facciamo noi la giustizia con le nostre opere) e che inoltre non possiamo tuttavia rimanere con le mani in mano. Ciò che qui importa è di accogliere sempre daccapo l'altro in quanto altro nel rispetto della sua alterità. Possiamo essere uniti anche come divisi.
Questa specie di unità, per la cui crescita continua possiamo e dobbiamo impegnarci, senza collocarla sotto la pressione troppo umana del successo e della «meta finale», conosce molte e varie strade ed esige molti e vari impegni. Anzitutto è importante trovare, conoscere e riconoscere le unità che già ci sono e che non sono davvero piccola cosa. Il fatto che leggiamo insieme la Bibbia come parola di Dio; che ci è comune la professione di fede, formatasi negli antichi concilii in base alla lettura della Bibbia, in Dio uno e trino, in Gesù Cristo vero Dio e uomo, del battesimo e della remissione dei peccati, e che ci è quindi comune l'immagine fondamentale di Dio e dell'uomo: tutto ciò dev'essere sempre nuovamente attualizzato, pubblicamente testimoniato ed approfondito nella pratica. Ma comune a noi è pure la forma fondamentale della preghiera cristiana ed unico tra noi pure l'essenziale comandamento etico del decalogo, interpretato nella luce del Nuovo Testamento. All'unità di fondo della confessione di fede dovrebbe corrispondere una unità di fondo operativa. Si tratta dunque di rendere effettiva l'unità che già sussiste, di concretizzarla e di ampliarla. Appartengono a questa istanza naturalmente forme molteplici di incontro a tutti i livelli (autorità, teologi, credenti) e forme di attività comune; tutto ciò dev'essere attuato in esperienze concrete e ulteriormente sviluppato, a quel modo che già avviene in notevole misura, grazie a Dio.
All'«unità attraverso diversità» potrebbero e dovrebbero aggiungersi certamente azioni di carattere simbolico, per tenerla costantemente presente nella coscienza delle comunità. Il suggerimento di O. Cullmann quanto alle collette ecumeniche meriterebbe d'essere richiamato alla memoria. L'uso del pane dell'eulogia presente nella Chiesa d'oriente potrebbe essere utile anche per l'occidente. Dove la comunità eucaristica non è possibile, questo pane è un modo reale e corporeo di essere accanto nell'alterità e di «comunicare»; di portare la spina dell'alterità e al tempo stesso cambiare la divisione in una preghiera reciproca.
Appartiene a quest'«unità attraverso diversità» anche la volontà di non voler imporre all'altro ciò che (ancora) lo minaccia nel centro della sua identità cristiana. I cattolici non dovrebbero cercare di spingere i protestanti al riconoscimento del papato e della loro comprensione della successione apostolica; l'inserimento della parola nello spazio del sacramento, e nell'ordine giuridico definito dal sacramento, appare evidentemente ai protestanti un attentato alla libertà e alla non manipolabilità della parola, e noi questo dovremmo rispettarlo. Viceversa, i protestanti dovrebbero evitare di spingere la chiesa cattolica all'intercomunione a partire dalla loro idea della "Cena" dal momento che per noi il doppio mistero del Corpo di Cristo - Corpo di Cristo come Chiesa e Corpo di Cristo come specie sacramentale - sono di un unico sacramento, e togliere la corporeità del sacramento dalla corporeità della Chiesa significa a un tempo distruzione della chiesa e del sacramento. Questo rispetto per ciò che rappresenta per le due parti la necessità della divisione, non allontana l'unità; è un presupposto fondamentale per essa. Da questa rispettosa remora interiore, davanti al «necessario» che non è stato inventato da noi, maturerà molto più amore e anche molta più vicinanza che non da una forma di sollecitazione violenta, che crea ripulsa e alla fine rifiuto. E questo rispetto non solo non impedirà, di conseguenza, la ricerca di una comprensione maggiore in questi spazi centrali del problema, ma avrà per suo frutto una maturazione tranquilla e una gratitudine gioiosa per tanta vicinanza, nonostante il misterioso «necessario».
Immaginiamo che i concetti appena accennati non piaceranno a molti. Credo che una considerazione dovrebbe in ogni caso essere evitata: che tutte queste non siano che delle idee stagnanti e rassegnate, o addirittura un rifiuto dell'ecumenismo. E' molto semplicemente il tentativo di lasciare a Dio quello che è affare unicamente suo, e di esplorare poi, in tutta serietà, che cosa è nostro compito. A questa sfera dei nostri compiti appartiene agire e soffrire, attività e pazienza. Se si cancella una delle due cose, si guasta l'insieme. Se noi ci impegniamo su ciò che spetta a noi, allora l'ecumenismo sarà anche in futuro, e più ancora di prima, un compito altamente vivace e ardimentoso. Io sono convinto che noi - liberati dalla pressione del successo delle nostre energie autonome e dalle sue date segrete e palesi - arriveremo più in fretta e più in profondità allo scopo che se cominciamo a trasformare la teologia in diplomazia e la fede in «engagement».
Caro signor Seckler, io spero che queste righe possano rendere un po' più chiare le mie idee ecumeniche. Sono, con i miei più cordiali saluti, il Suo
+ Joseph Card. Ratzinger