PAOLO E LA DONNA, DEL PROF. GIANCARLO BIGUZZI
I temi sintetizzati dal prof. Giancarlo Biguzzi in questo breve articolo sono più ampiamente sviluppati nei due volumi: G. Biguzzi, Velo e silenzio. Paolo e la donna in 1 Cor 11,2-16 e 14,33b-36, EDB, Bologna, 2001 e G. Biguzzi, Paolo e la donna, Edizioni Paoline, Milano, 2009, ai quali rimandiamo per ulteriori approfondimenti. Per ulteriori testi del prof. Biguzzi presenti su questo sito, vedi il link Articoli su San Paolo apostolo.
Il Centro culturale Gli scritti (28/6/2009)
Si calcola che, viaggiando per terra e per mare, Paolo di Tarso abbia percorso qualcosa come 15.000 chilometri. Lui stesso parla di «viaggi innumerevoli» (2Cor 11,26), e i chilometri si sarebbero raddoppiati o triplicati se avesse potuto andare in Spagna, come stava programmando al momento di scrivere la lettera ai Romani (Rm 15,24.28).
Un’impresa missionaria del genere non poté essere portata avanti dalla sua sola persona. Di fatto dalle lettere dello stesso Paolo e dagli Atti degli Apostoli si ricava che si è avvalso di una cinquantina di collaboratori, stanziali o itineranti, e che almeno una ventina erano donne. Nella sua prassi apostolica c’era dunque anche la collaborazione femminile.
I. LA COLLABORAZIONE FEMMINILE NELLA PRASSI APOSTOLICA DI PAOLO
a. La collaborazione femminile più antica (Fil 4,2-3)
La documentazione più antica circa le donne è quella di Fil 4,2-3. Di due donne, Evodia e Sintiche, Paolo dice: «Hanno combattuto con me nell’opera di evangelizzazione». Dopo di loro si menzionano per nome Clemente e, senza nome, «altri synergoi/collaboratori» [in italiano si fa ricorso spesso al termine «sinergia», che ha la stessa radice del termine usato da Paolo]: di tutti i nomi - aggiunge Paolo - «sono nel libro della vita». Per l’evangelizzazione di Filippi, a Evodia e Sintiche va aggiunta Lidia della quale gli Atti degli Apostoli dicono che ospitò nella sua casa Paolo e i suoi accompagnatori (At 16,13-14.40).
b. Cloe tra Corinto ed Efeso (1Cor 1,11)
Dalle prime battute di 1Cor 1,11 si apprende che, sulle correnti che stavano dividendo la comunità corinzia, Paolo fu informato dai famigliari di una certa Cloe. Poiché è apertamente menzionata per nome, Cloe va pensata, non come persona che prende l’iniziativa per fare quella che si potrebbe definire una spiata, ma come l’informatrice ufficiale (incarico comprensibilmente delicato e difficile), concordata tra l’apostolo e i Corinzi, perché da Efeso (cf. 16,8) Paolo potesse seguire e guidare la vita della comunità.
c. Prisca e Aquilàs tra Corinto, Efeso e Roma
Paolo incontrò la coppia di Prisca e Aquilàs a Corinto dei quali fu ospite e collega di lavoro (At 18,2). Certamente a Corinto i due svolsero attività apostolica perché vi ospitavano una comunità cristiana domestica (1Cor 16,19-20). Secondo At 18,19-22 furono poi attivi a Efeso dove addirittura completarono l’istruzione di Apollo, facendosi maestri di un maestro. I due infine ospitarono una comunità domestica a Roma, come si ricava da Rm 16,3-5. In quel testo Paolo li chiama suoi synergoi/collaboratori, e dichiara di essere loro grato e riconoscente perché, per salvargli la vita, hanno esposto il loro collo (= la loro vita). Con qualche esagerazione Paolo aggiunge infine che sono loro riconoscenti «tutte le Chiese dei gentili».
Dai testi neotestamentari Prisca e Aquilàs sono evocati per un totale di sei volte (ai testi precedenti vanno aggiunti At 18,18 e 2Tm 4,19) e, quattro volte su sei, Prisca, la donna, è menzionata prima del marito. Con ogni probabilità ciò significa che lei era impegnata a fianco di Paolo più che Aquilàs, il quale forse si dedicava alla loro azienda di costruzione di tende (At 18,3).
È importante aggiungere che nella casa greca l’appartamento vicino alla porta d’ingresso era riservato al marito e lì si accoglievano gli ospiti. L’appartamento della moglie, o gineceo, era invece in fondo alla casa, se non al piano superiore. Là avevano accesso solo le amiche della moglie, e, nel nostro caso, Prisca può avere svolto nei ginecei di Corinto o di Efeso un’evangelizzazione del mondo femminile che né a Paolo né al marito era possibile.
d. Febe tra Corinto e Roma
Il capitolo 16 della lettera ai Romani è tutto occupato da saluti, e le persone coinvolte sono una trentina. La prima a essere nominata è Febe. Ha il titolo ecclesiale di «diaconessa di Cencre [che era uno dei porti di Corinto; Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto]. Paolo chiede ai Romani di riservare a Febe una accoglienza «nel Signore» e «come si conviene ai santi»: la donna non si recò a Roma dunque per affari o comunque come semplice viaggiatrice, ma più probabilmente per motivi apostolici. Tanto più che Paolo aggiunge: «… assistetela in tutto ciò di cui possa avere bisogno». Aggiunge poi che, probabilmente a Corinto, ha protetto molti e lui stesso.
Dal contesto si ricava che la donna sta viaggiando alla volta di Roma contemporaneamente e insieme alla lettera, per cui l’ipotesi più probabile è che essa avesse in affidamento la lettera di Paolo e che, come si usava nell’antichità, dovesse presentare e spiegare ai destinatari lo scritto dell’Apostolo.
e. Conclusione circa la prassi di Paolo
La pur incompleta documentazione circa Paolo che è sopravvissuta dice come nelle comunità di Filippi, Corinto, Efeso e Roma le donne furono accanto a lui nel ruolo di co-fondatrici di Chiese, di collaboratrici nell’evangelizzazione, di ospiti di missionari e di comunità domestiche, e dice che erano nella delicata e difficile funzione di speaker e di latrici di lettere tra le comunità e l’Apostolo, e che infine erano maestre di maestri e di catechisti di primo rango, e apostole di altre donne nel gineceo che era inaccessibile agli evangelizzatori maschi.
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A parte la sua prassi, ci si può chiedere quale fosse la concezione che Paolo aveva della donna. In altre parole, se accanto a lui le donne hanno avuto spazio e importanza nell’opera di evangelizzazione, perché lo si accusa di maschilismo, di misoginismo e di anti-femminismo?
L’accusa è sollevata contro Paolo a partire da due testi: 1Cor 11,2-16 e 1Cor 14,33b-38, tutti e due contenuti nella prima ai Corinzi. Altri testi, come quelli di Ef 5,22-33 e 1Tm 2,8-15, sono da mettere sul conto, non di Paolo, ma di qualche suo collaboratore.
II. LA PREGHIERA E LA PROFEZIA DI UOMO E DONNA (1 COR 11,2-16)
Il testo è tra i più difficili di tutta la Bibbia ma è riassumibile e parafrasabile in poche affermazioni.
i). I versetti 4 e 5 si aprono con le stesse parole: «L’uomo che prega o profetizza…», «La donna che prega o profetizza…». Per l’indiscutibile legge della grammatica uomo e donna sono messi nello stesso e identico ruolo di guide della preghiera comunitaria e di profeti che prendono la parola in assemblea per istruire o esortare.
ii). La diversificazione interviene quando Paolo passa a parlare di come uomo e donna devono presentarsi in assemblea: l’uomo disonora sé stesso «se ha giù dalla testa», mentre la donna disonora sé stessa «se ha la testa scoperta». Tradizionalmente queste strane formule sono state interpretate come se parlassero di un copricapo interdetto agli uomini (per questo in chiesa gli uomini tolgono il cappello) e di un velo richiesto alle donne (per questo, fino a pochi decenni fa, in chiesa le donne si mettevano un velo o un fazzoletto).
iii). Il copricapo maschile e il velo femminile, però, sembrano qui chiamati in causa senza motivo, non solo perché in tutto il testo greco mai ricorre la parola «velo», ma perché più oltre, nei vv. 14-15, ciò che non deve scendere dalla testa dell’uomo e ciò che deve coprire la testa della donna sono i loro capelli: «È indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli (lunghi), mentre è gloria della donna lasciarseli crescere».
iv). Paolo porta poi una prova biblica per dire che la capigliatura di uomo e donna devono essere diverse: perché nella creazione il maschio fu creato direttamente da Dio, mentre la donna fu creata attraverso l’uomo, dalla sua costola (cf. Gen 2,7.18-24).
v). Se la prova biblica portata da Paolo segna un punto a sfavore della donna, subito Paolo riequilibra poi la situazione argomentando dalla procreazione: per legge universale della natura tutti sono partoriti da una donna, anche i maschi.
vi). Servendosi di argomentazioni per noi strane (dalla creazione, dalla procreazione) e ben poco convincenti, Paolo intende dire, non che il maschio è superiore alla donna o viceversa, ma che uomo e donna hanno dignità uguale, e che però sono fisiologicamente e psicologicamente diversi e, infine, che devono mostrare la loro differenziazione creaturale-sessuale nella capigliatura: in ciò che per prima cosa si vede di una persona.
vii). Il problema deve aver riguardato le donne corinzie più che i maschi, perché in questo testo Paolo parla della donna più a lungo e più ripetutamente che del maschio. Magari a partire dalle parole di Paolo («… in Cristo non c’è più uomo o donna», Gal 3,28), probabilmente alcune donne cercavano di emanciparsi dall’inferiorità in cui vivevano da sempre e si davano un aspetto mascolino, a cominciare dall’acconciatura.
viii). Probabilmente Paolo intervenne temendo che la mascolinizzazione dell’acconciatura femminile e la femminilizzazione dell’acconciatura maschile facessero sorgere sospetti di omosessualità, e lo fece affermando che la creazione (uomo e donna diversi fisiologicamente) conservava tutto il suo valore anche nell’epoca della redenzione.
ix). Si può aggiungere che la discussione di Paolo circa la lunghezza delle due rispettive capigliature non riguardava i centimetri, ma la distinguibilità dei capelli maschili da quelli femminili. In altre parole, anche dove i maschi portano capelli lunghi (cf. l’immagine tradizionale di Gesù), i loro capelli restano comunque rivelatori del sesso dell’uno e dell’altra. E questo era ciò che Paolo chiedeva.
x). In sostanza Paolo dichiara la pari dignità tra uomo e donna, sia nella creazione sia nella redenzione, anche se, per altro motivo, esige da loro acconciature diverse e differenzianti. In conclusione: il testo di 1Cor 11, 2-16 è tutt’altro che antifemminista, ed è di attualità in un tempo in cui la differenziazione sessuale si va affievolendo, a livello anche legislativo.
III. IL SILENZIO DELLA DONNA IN ASSEMBLEA (1 COR 14,33B-38)
a. La questione
Il testo di 1Cor 14,33b-35 è in sé stesso molto chiaro e facile perché il silenzio delle donne nelle assemblea è comandato con totale chiarezza. È poi imposto con il richiamo alle Chiese dei santi («Come in tutte le comunità dei santi, le donne nelle assemblee tacciano…»), alla Legge («… non è loro permesso di parlare ma stiano sottomesse, come anche dice la Legge»), e alla vergognosità della cosa in sé stessa («… è sconveniente [letteralmente: “vergognoso”] per una donna parlare in assemblea»).
Dice l’intero testo: «Come in tutte le comunità dei santi, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso di parlare. Stiano invece sottomesse, come anche dice la Legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea».
Ma quello stesso testo, così chiaro in partenza, d’improvviso diventa molto oscuro quando lo si legge in relazione e in confronto con altri.
i). Anzitutto c’è tensione con tutto il capitolo in cui è inserito, nel quale Paolo sta dando regole per chi prende la parola in assemblea. Tra l’altro Paolo scrive: «Uno alla volta, infatti, potete tutti profetare, perché tutti possano imparare e tutti possano essere esortati» (v. 31). Se due volte nella stessa frase il termine «tutti» comprende uomini e donne quanto al poter imparare e all’essere esortati, allora deve comprende uomini e donne anche quando dice: «Uno alla volta, infatti, potete tutti profetare». La stessa argomentazione vale per il v. 26 che suona: «Quando vi radunate, uno ha un salmo, un altro ha un insegnamento, uno ha una rivelazione ecc.».
ii). Il decreto del silenzio per le donne in assemblea è inconciliabile soprattutto con quanto diceva il testo precedente (1Cor 11,4-5): e cioè che uomo e donna (a parte la differenza nell’acconciatura che motivatamente Paolo esige) possono pregare e profetare, evidentemente prendendo la parola in assemblea in piede di parità.
iii). Il decreto del silenzio è poi in tensione con il già citato Gal 3,28 dove, dopo avere scritto: «Quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo», Paolo aggiunge: «Non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina».
iv). Un’ultima, insormontabile contraddizione è con la prassi apostolica di Paolo: non è possibile pensare che ad Evodia, Sintiche, Lidia, Cloe, Prisca, Febe ecc. egli chiedesse di stare in silenzio nelle assemblee e chiedesse loro di consultare a casa i loro uomini (più che i loro mariti, come dice la traduzione CEI 2008, perché le donne non sposate o le vedove non avrebbero marito cui rivolgersi). Non è possibile infatti pensare che Paolo fosse così clamorosamente in contraddizione con la propria prassi.
b. La difficile ipotesi di una interpolazione
A motivo di queste difficoltà nell’attribuire a Paolo il decreto del silenzio alle donne, si sono ipotizzate altre attribuzioni. Quel testo è stato attribuito agli antichi scribi che ricopiavano il testo paolino per moltiplicarne le copie. Uno scriba avrebbe aggiunto al margine del foglio quelli che per noi sono i vv. 33b-35, esprimendo la propria avversità al protagonismo femminile nelle assemblee comunitarie.
c. L’ipotesi secondo la quale Paolo citerebbe una posizione non sua per confutarla
i). Un’altra ipotesi è quella secondo cui l’imposizione del silenzio alle donne è da attribuire a un gruppo di maschilisti corinzi, provenienti dal giudaismo e dalla sinagoga, che si sarebbero richiamati alla consuetudine sinagogale, ripresa e prolungata nelle Chiese giudeo-cristiane (cf. l’espressione «Come in tutte le comunità dei santi…») e alla Legge mosaica (cui Paolo mai e poi mai si sarebbe richiamato soprattutto in campo disciplinare). Nei vv. 33b-35 Paolo citerebbe le loro parole e nel v. 36 Paolo reagirebbe a quella inaccettabile pretesa. Quei versetti sono infatti in tensione con il v. 36, in cui Paolo reagirebbe scrivendo: «Da voi, forse, è partita la parola di Dio? O è giunta soltanto a voi?».
Parafrasato, in sostanza il versetto direbbe: «Forse che siete voi ad avere fondato la Chiesa di Corinto? e solo a voi giungono le ispirazioni per prendere la parola in assemblea? No: sono io ad aver portato la parola di Dio a Corinto, e le ispirazione divine sono date a tutti perché, uno alla volta, tutti (incluse le donne) potete profetare».
ii). Punto debole dell’ipotesi è che manca l’attribuzione esplicita a quel gruppo. Mancano cioè le parole: «Voi dite…». Argomenti a favore sono invece il fatto che nella Prima ai Corinzi molte volte Paolo cita parole di altri per poi controbatterle immediatamente. La cosa si verifica ad esempio in 1Cor 6,12 (- «Tutto mi è lecito». - «Sì, ma non tutto giova»); 6,13; 8,1; 8,4; 8,7; 10,23. Di un certo peso è anche il fatto che Paolo usi un aggettivo greco maschile quando scrive: «Siete forse voi gli unici (in greco: monous, accusativo maschile [!] plurale) cui la parola di Dio giunge?», e quel maschile concorda meglio con il gruppo maschilista ipotizzato che non con le donne cui Paolo chiuderebbe la bocca nelle assemblee secondo l’interpretazione tradizionale.
d. Una considerazione finale
Le ipotesi che si susseguono nell’interpretazione di 1Cor 14,33b-35 nascono certamente dal desiderio di evitare l’accusa di misoginia a Paolo, ma, ancor più, dall’evidente contrasto di questo testo con l’insieme di tutto ciò che si conosce con certezza del pensiero e del concreto atteggiamento dell’apostolo verso la donna.
L’ultima ipotesi, quella dello slogan maschilista che Paolo contrasterebbe, sembra preferibile alle altre, perché di colpo elimina da 1Cor 14 tutte quelle contraddizioni, e perché riesce a dare ragione dei versetti 36-38. In ogni caso, se pure Paolo davvero in 1 Cor 14 mettesse a tacere le donne, questo non potrebbe che essere circoscritto ad una circostanza particolare e limitata, che il testo non permette di ricostruire.
IV. CONCLUSIONI
1. Senza possibilità di dubbio, dall’epistolario paolino e dagli Atti risulta che Paolo lasciava grande spazio alla collaborazione femminile, e della cosa è rimasta documentazione non per una, ma per molte comunità.
2. Un testo di Paolo incriminato di maschilismo si sottrae a quella accusa senza alcun dubbio, e dichiara invece la pari dignità di maschio e femmina, sia nella creazione sia nella redenzione. L’altro è difficilmente attribuibile a Paolo perché si trova in contraddizione con quello che lui fa e con quello che lui scrive altrove, e perché con buone argomentazione (non però dirimenti) è attribuibile ad altri che lui disapproverebbe.
3. Si può aggiungere che, quando i commentatori si occupano del rapporto di Paolo con le donne e del ruolo che l’Apostolo loro riservava nelle Chiese, scrivono per esempio:
«Per la grande stima che ha della donna, risulta impossibile che Paolo esprima giudizi tanto radicalmente negativi come quello espresso in 1Cor 14,34-35» (G. Fitzer),
«Paolo ha avuto preziose collaboratrici nel ministero della parola… L’Apostolo mette sullo stesso piano collaboratrici e collaboratori», «Le collaboratrici, molto apprezzate, hanno assecondato l’Apostolo in quello che era l’essenziale della sua vita: l’annuncio evangelico» (Ph.-H. Menoud),
«Alcune donne sono chiamate [da Paolo] ministri, o collaboratori, missionari, e molte erano impegnate in ministeri di insegnamento e predicazione (Rm 16,1.3.7; Fil 4,2.3; At 16,26)» (E.E. Ellis),
«Paolo riconosce che le donne sono in piede di parità con gli uomini (…). Paolo incoraggiò ed elogiò le donne per la leadership da loro esercitata nelle comunità» (W. Cotter),
«Molti sono i segni secondo i quali per la tradizione paolina le donne ricoprirono ruoli di responsabilità che non erano usuali nel mondo greco-romano e addirittura sorprendenti per il giudaismo contemporaneo» (W.A. Meeks),
«Nessun altro apostolo nel cristianesimo delle origini ha dato spazio apostolico e ministeriale alle donne quanto ne ha dato loro Paolo» (P. Ketter).
4. Quanto a Paolo, la lettura maschilista di alcuni suoi testi ha fatto di lui un nemico delle donne, ma una rilettura più corretta potrà fare di lui lo scopritore di talenti femminili come quelli di Evodia, Sintiche, Lidia a Filippi, di Cloe Prisca e Febe a Corinto, Efeso e Roma. Secondo una sua sentenza, infatti, accanto all’uomo che prega o profetizza, nella Chiesa c’è la donna che - anch’essa - prega o profetizza.