La vera “salvezza” non si trova nella barra degli strumenti, di Fabrice Hadjadj
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Riprendiamo da Avvenire dell’1/12/2013 una relazione di Fabrice Hadjadj pronunciato durante il convegno “Custodire l’umanità” che si è svolto ad Assisi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (8/12/2013)
Salvare, oggi, è l’ossessione di quelli che utilizzano i computer. Nella mia lingua, il francese, si dice piuttosto “registrare”, o anche “salvaguardare”. Ma è interessante notare coma nella lingua informatica, e anche in italiano, si dica to save, salvare, azione che riguarda non le anime ma i documenti. La “salvezza” si trova nel menù “file”, o nella barra degli strumenti. È rappresentata non da una croce, ma da un dischetto.
Tuttavia la vera salvezza non si applica alle cose, ma alle persone. Non bisogna ricordarlo soltanto agli informatici, ma anche a certi cattolici tradizionalisti: la preservazione della dottrina, il salvataggio della bella liturgia, il richiamo delle regole morali ha valore soltanto nella misura in cui questo ordine delle cose serve alla salvezza delle persone. Bisogna ricordarlo anche a certi progressisti: è in gioco la salvezza delle persone, e non la realizzazione di un ideale sociale, di un’utopia politica, di un tutto egualitario.
La via è stretta perché si passa uno dopo l’altro. La salvezza non conosce la massa. Ciò a cui mira è non-totalizzabile. Tanto che non è completamente giusto dire che Cristo salva “l’umanità”: Egli salva Pietro, Paolo, Giacomo, eccetera, ed è in questo che custodisce l’umanità, nella sua diversità stessa, coi piccoli e i grandi, i magri e i grassi, i deboli e i forti.
La sua promessa è rivolta ai nomi propri, e non ai nomi comuni. Del resto. è proprio quello che ricorda Gesù dopo la missione dei settantadue discepoli: «Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Lc 10, 20).
La gioia apostolica non sta nell’avere sottomesso i popoli a una Legge comune, ma nell’eternità dei nomi propri. La grazia consente di non vedere piùla Legge come una regola immutabile, ma di viverla come la condizione di un incontro, di un dialogo, di un’intimità col Creatore e, di conseguenza, con ciascuna delle sue creature.
È questo anche il senso della parola: «Il sabato è stato fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato» (Mc 2; 27). La missione non ha per fine di mettere gli uomini al servizio dei dogmi e dei sacramenti, ma di mettere i dogmi e i sacramenti al servizio degli uomini, perché dogmi e sacramenti mirano a compiere non il trionfo di una dottrina, ma la salvezza di ogni volto nella sua singolarità. Ecco perché la Sapienza è una persona. Ed ecco perché il Libro dei Proverbi rievoca la Sapienza sotto il segno di una moltitudine concreta e irriducibile e non di una teoria astratta e uniformizzante: «Ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola» (Pr 9, 2).
Le tavole della Legge sono subordinate al tavolo del festino. Il tavolo del festino è l’esatto contrario di un’ideologia riduttrice o di uno schermo che pretende di assorbire il mondo. È il luogo dove fiorisce la molteplicità incomparabile e non-totalizzabile dei volti. C’è da bere e da mangiare. Ci sono fedeli e anche alcuni traditori. Ci sono conversazioni che si trasformano in preghiere di supplica e in canti di lode. Questo convivio intorno alla Sapienza incarnata, ecco ciò che annunciamo (ed è interessante osservare come l’impresa della Mela Morsicata abbia usurpato il termine di “convivialità” per designare, non la presenza del Logos fatto carne, ma l’efficacia di un software).
Si può ora afferrare meglio la necessità della povertà evangelica, e cioè perché gli inviati siano poveri nella loro difesa, poveri nella loro attrezzatura, e poveri nel loro messaggio. Poveri nella loro difesa, prima di tutto. Sono agnelli in mezzo ai lupi: si espongono alla morte. È la condizione di una vera presenza. Questo si vede spesso durante un funerale: d’un tratto, a causa della consapevolezza della morte e dell’impotenza, le persone lontane si riavvicinano, i superficiali diventano profondi, le relazioni nella famiglia non sono mai state tanto semplici e vivaci. Ma per i discepoli non si tratta solamente della coscienza della morte, si tratta di essere pronti a testimoniare per la vita fino in fondo. Non si può parlare di Colui che èla Vita ela Risurrezione solamente con la bocca. Bisogna parlarne con la lacerazione del cuore. Non voglio intendere con questo una esaltazione sentimentale, ma un modo di essere con l’altro nel senso profondo del nostro destino ultimo, della nostra comune miseria e del nostro comune bisogno di misericordia.
La seconda povertà è quella dell’attrezzatura. I mezzi temporali pesanti si interpongono. Possono abbattere le distanze, ma non permettono la prossimità. Niente può sostituire quest’ultima. I sacramenti lo dimostrano: essi, che comunicano ciò che c’è di più grande, e cioè la grazia, esigono sempre la prossimità fisica. Non ci si può confessare per telefono. Non si può teletrasmettere il corpo di Cristo. La più alta comunicazione ignora le alte tecnologie di comunicazione. Perché questa comunicazione alta è comunione delle persone, e dunque presenza reale dell’uno per l’altro, offerta reciproca dei volti.
La terza povertà è quella del messaggio, perché il messaggio conta meno del messaggero e di quello che lo invia. Del resto, il messaggio è prima di tutto quello a cui il messaggero si rivolge: «Cristo è venuto per salvarci, noi, io e te. Vuole che il tuo viso risplenda eternamente». Perciò gli inviati devono contemplare quel viso, fosse anche dei più noiosi, e anche ascoltarlo, fosse pure il più stupido.
È infine, in qualche modo, la quarta povertà: ci sono due inviati, e non un cavaliere solitario. Per non ricadere nei sermoni degli scribi e dei farisei, occorre che il messaggio si incarni; e, quando si tratta dei discepoli, può incarnarsi solamente in una comunità vivente, pensante e cantante: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri». La prossimità rischierebbe di essere di facciata, se fosse solamente con gli ultimi arrivati: ci si fabbrica facilmente un’aria di circostanza. Diventa reale solamente se con me c’è qualcuno che mi mette alla prova giorno dopo giorno, che sa le mie debolezze, che ha visto la mia maschera cadere, e che dunque mi impedisce di rimetterla davanti agli altri, perché ne denuncerebbe la falsità palese.
(Traduzione di Ugo Moschella)