La conoscenza del male assoluto. Mio padre Egisto Corradi racconta la ritirata di Russia
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un post di Marina Corradi pubblicato il 23/6/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (21/7/2013)
«Ci dirigevamo con la mia bussola. Dove la piana bianca e deserta si toccava con il cielo color lamiera, fissavamo un punto di traguardo. Poteva essere una scarpata, un palo del telegrafo, una qualsiasi sagoma che si distinguesse all’orizzonte. Raggiunto un punto di traguardo ne stabilivamo un altro e così via, per ore, verso ovest.
Dopo qualche tempo si unì a noi un alpino che si tirava dietro un mulo. Più tardi la pianura divenne totalmente orizzontale, come uno sterminato biliardo gelato. Prima leggero, poi forte, poi fortissimo sopravvenne il vento. La polvere di neve si levava in turbini che toglievano la vista e il respiro. Il vento veniva da ovest, dovevamo ogni tanto volgergli le spalle per riprendere fiato. Un ufficiale di sussistenza che era con noi cominciò ad urlare di dolore, le mani gli gelavano. “Aiutatemi”, diceva piangendo. “Resisti”, gli gridavamo nella bufera. “Devi resistere fino a che non troveremo un cespuglio”.
Volle fermarsi, si buttò nella neve. Noi proseguimmo per una decina di passi, poi ci voltammo a guardare. Non lo si vedeva più, l’aria era un soffocante fumo bianco. Tornammo, lo caricammo di pugni e di schiaffi. Picchiavamo con un certo piacere. Ci fermammo infine attorno ad un arbusto di mezzo metro, in ginocchio dentro la bufera e il vento teso e radente che sembrava portarci via. Occorse mezz’ora per riuscire a dar fuoco a qualche erba secca cavata di sotto alla neve ai piedi dell’arbusto.
Riprendemmo a marciare. Il mulo aveva una gallina morta legata al collo; per farlo camminare l’alpino lo trascinava per la cavezza, gli dava pedate nel ventre e lo colpiva sulla groppa incrostata di ghiaccio. Nel bianco accecante che avevamo davanti si delineò un’ombra. Era un uomo, un ufficiale tedesco. Camminava barcollando in direzione opposta alla nostra, verso il Don. Era colossale, più alto di due metri. Stringeva un parabellum, era macchiato di sangue. Gridava ordini, gesticolava e rideva. Aveva gli occhi di un azzurro di smalto. Gli gridammo di seguirci, provammo a trascinarlo afferrandolo in due per le braccia. Ma lui puntava il mitra minaccioso e allora noi lo lasciammo andare nel fumo della neve e del vento che fischiava, solo e pazzo. Non lo vedevamo già più e per qualche istante lo sentimmo ancora gridare e ridere.
Camminavamo ora veloci ora lenti, a seconda della intensità della tormenta. Io avevo l’impressione di camminare sempre nello stesso luogo, come in un incubo; o di muovere vanamente le gambe sopra un tappeto mobile. Dopo qualche ora la superficie ci apparve rotta da un qualcosa che sembrava un insieme di bassi cespugli. Non erano cespugli, ma una decina di cadaveri. Erano nudi, non si capiva se erano italiani o tedeschi o russi».
Queste righe sono tratte da La ritirata di Russia di mio padre, Egisto Corradi, edito da Mursia. Rileggendole oggi ho pensato: ecco cosa mi manca nello sguardo dei miei contemporanei. La consapevolezza, la conoscenza diretta di un male assoluto, e per reazione la spinta a una vita buona. Non è colpa nostra, se a volte sembriamo fatti di niente; è che, semplicemente, non sappiamo.