Agli occhi del mondo la Chiesa, come il suo Signore, ha sempre l'aspetto della schiava. Esiste quaggiù in «forma di serva». E non è soltanto la saggezza del mondo, nella sua accezione più materiale che le manca: è anche, almeno apparentemente, la saggezza dello spirito, da Henri de Lubac
Riprendiamo da H. de Lubac, Meditazioni sulla Chiesa, Edizioni Paoline, Milano, 1955 alcuni brani del volume stesso. La trascrizione è stata curata da Maria D'Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti sull'ecclesiologia, vedi su questo stesso sito la sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (10/3/2013)
[pp. 353-362]
C'è un'altra tentazione. Anche questa non è tentazione di anime volgari; è la più grave di tutte. Essa si insinua muovendo da una costatazione che era già stata fatta da S. Paolo: «Vedete, fratelli, - scriveva S. Paolo ai cristiani di Corinto - non ci sono molti saggi, molti potenti, molti nobili in mezzo a voi»[1]. I saggi, i potenti ed i nobili possono anche essere venuti in seguito, ma la riflessione dell'Apostolo conserva intatta la sua verità profonda e multiforme. Agli occhi del mondo la Chiesa, come il suo Signore, ha sempre l'aspetto della schiava. Esiste quaggiù in «forma di serva»[2]. E non è soltanto la saggezza del mondo, nella sua accezione più materiale che le manca: è anche, almeno apparentemente, la saggezza dello spirito.
Essa non è né un’accademia di scienziati, né un cenacolo di raffinati spirituali, né un’assemblea di superuomini. È anzi esattamente il contrario. S’affollano gli storpi, i deformi, i miserabili di ogni sorta, fanno ressa i mediocri, che si sentono particolarmente a casa loro e che impongono ovunque il loro tono. I suoi più splendidi progressi non fanno che accentuare questo carattere nella maggioranza dei suoi membri, come nel tessuto quotidiano della sua esistenza. Sarebbe anche troppo facile dimostrarlo con esemplificazioni concrete. In compenso è difficile, o piuttosto, assolutamente impossibile, all’uomo naturale, fino a quando non sia intervenuto in lui una radicale trasformazione[3], riconoscere in questo fatto il compimento della Kenosi salvifica e la traccia adorabile della «umiltà di Dio»[4].
Da quando esiste, la Chiesa si è sempre attirata il disprezzo di una élite. Filosofi o spirituali, molti spiriti superiori, preoccupati d'una vita profonda, le rifiutano la loro adesione. Alcuni le sono apertamente ostili. Come Celso essi sono disgustati da «questa accozzaglia di gente semplice»[5], e se ne allontanano, con la serenità olimpica di un Goëthe o negli accessi di furore dionisiaco di un Nietzsche. Voi pretendete, sembrano dire, di essere il Corpo del Cristo, il Corpo di Dio! Il Corpo di Dio sarebbe fatto di una pasta così grossolana? E, tanto per cominciare, la Divinità può avere un corpo?[6]
Molti altri, invece, tra questi saggi, sono convinti di rendere giustizia alla Chiesa e protestano quando si sentono definire suoi avversari. Sarebbero disposti a proteggerla all'occorrenza! «Come! - esclamava uno di essi in risposta ad amici che lo trovavano troppo favorevole alle scuole confessionali - pretendete che io spieghi il Parmenide alla mia cuoca?»[7]. Ma conservano le distanze. Non sanno che farsene di una fede che li accomunerebbe a tutti i miserabili, di fronte ai quali si sentono senz'altro superiori per la loro cultura estetica per la loro capacità di ragionamento, o per la loro preoccupazione d'interiorità. Sono «aristocratici» che non intendono affatto mescolarsi con il gregge.
La Chiesa, secondo loro, conduce gli uomini per vie troppo comuni. Le riconoscono volentieri l’arte di presentare, sotto il velo delle immagini[8], profonde verità; ma distinguendosi come «coloro che sanno» dalla massa di «coloro che credono», pretendono di conoscerla meglio di quanto non possa conoscersi essa stessa.
La trattano con molta degnazione, si attribuiscono il potere di enucleare, senza il suo consenso, mediante una «trasposizione metafisica»[9], il senso profondo delle sue dottrine e dei suoi atti sacri. Al di sopra della sua fede essi mettono la loro intuizione, come l’assoluto al disopra del relativo, come la partecipazione diretta e attiva alla conoscenza divina al disopra d’una partecipazione indiretta e passiva...
Si potrebbero chiamare degli «specialisti del Logos»
a). che non hanno letto in S. Paolo che il Logos «respinge ogni altezza che si levi contro la conoscenza di Dio»
b). Sono dei saggi, ma chi è che non vede realizzarsi dopo venti secoli la profezia: «Perderò la sapienza dei sapienti?
c). Sono dei ricchi che hanno ancora da sentire la voce della prima Beatitudine.
Qualcuno trasformandosi in capo-scuola o capo-setta accresce con l'esca del segreto la promessa del sapere: così per esempio, nei tempi antichi, un Valentino, oppure quel Fausto, di cui Sant'Agostino subì per qualche tempo il fascino[10]; così ai nostri giorni, con altro stile, un Renato Guenon, - perché il miraggio delle iniziazioni misteriche affascina gli spiriti più diversi.
Altri infine si chiudono nella loro solitudine. Non si tratta sempre di un rifiuto satanico; talvolta, meno misteriosamente, è soltanto ridicola presunzione. Può anche essere semplicemente il disgusto di uno spirito raffinato di fronte a forme di pensiero e di vita che lo confonderebbero col volgo. O ancora, in certi casi, è il distacco, il restringersi freddoloso di un'anima delicata. Così si sviluppa un «individualismo nobile, ma chiuso, che ammette tutt'al più qualche essere privilegiato a condividere amichevolmente l'esperienza interiore»[11].
Una stretta appartenenza alla Chiesa cattolica, si dice, ostacolerebbe la libera ricerca, frenerebbe l'audacia dello slancio spirituale, e condurrebbe ad un rigido inquadramento e ad una volgare promiscuità.
L'eco più o meno smorzata di queste obiezioni e di queste ripugnanze, raggiunge anche alcune coscienze cristiane. Se la fede non ne rimane scossa; si allentano però talvolta i vincoli con la Chiesa almeno in ciò che avevano di cordiale e di attivo. Non si giunge alla rottura, ma si dimentica la stretta correlazione della fedeltà ecclesiastica con la fedeltà religiosa. Sul piano della verità, il cristianesimo può bensì uscire vincitore dalla prova: ma non per questo sarebbe giustificata l'esistenza della Chiesa o almeno non sempre la sua giustificazione teorica riuscirà a vincere queste ripugnanze.
Una inchiesta imparziale può provare che la sapienza che essa propone e che essa infonde non consiste in un ammasso di «puerili futilità», come credeva Sant'Agostino prima che le prediche di Sant'Ambrogio gli avessero aperto gli occhi[12]. Essa può inoltre portare a scoprire la solidità del suo dogma, può fare intravvedere la profondità dei suoi misteri e della interpretazione ortodossa datane dai grandi dottori. Essa può, infine, fare ammirare gli splendori dell'arte e la ricchezza della cultura che, almeno in certe epoche, ne illuminarono il volto umano. Tutto questo non muta l'evidente volgarità del tessuto connettivo a cui ogni esistenza cattolica deve adattarsi giorno per giorno e nel quale anzi deve inserirsi.
Davanti alle pitture delle catacombe romane, prima espressione figurata della Parola che risuonò nel Cristo, André Malreaux esclama: «Quale distanza tra queste povere figure e quella voce profonda!»[13]. Si può estendere l'osservazione. Non si verificherà fatalmente la stessa cosa di ogni espressione, qualunque ne sia il modo o la natura, della realtà cattolica? Nella predicazione corrente, infatti, che cosa diventala Rivelazione? Che cosa diviene l'appello di Dio nella comune raffigurazione? Che cosa diventa il Regno di Dio in molte immaginazioni, devote o teologiche? Che cosa diviene, in cuori troppo poco purificati dalle passioni umane, l'amore santo dell'unità? E nei manuali a che cosa si riduce troppo spesso il Mistero?
Pascal ammirava la capacità che esso ha di tenere i due capi percorrendone tutto l'intervallo, unendo così tante verità» che sembrano contrastanti, ma che sussistono tutte in un ordine mirabile»[14]: ma in pratica, questa sintesi alata non si cambia forse nella banale formula del «giusto mezzo»?
La meravigliosa «complexio oppositorum» che il cattolicesimo offre sotto tutti i suoi aspetti, fa paura a tanti credenti! La Chiesa stessa non incoraggia abitualmente né i pensieri troppo arditi, né le spiritualità troppo sublimi: le forme che essa approva più volentieri non devono forse essere tali da poter essere tollerate dall'«ambiente cattolico medio», che è sempre «qualcosa di molto insipido e di molto mediocre?»[15].
E anche da parte di coloro che si credono dotti, quale pascolo, rinnovato di età in età, offerto alla irrisio infidelium! Sinceramente, se la consideriamo con uno sguardo realista, non nel cielo delle pure idee ma nella sua realtà concreta, «che cosa è la Chiesa se non, per così dire, un corpo di umiliazione che provoca, in coloro che non vivono di fede, l'insulto, l'empietà, l'avversione o quanto meno un indulgente riserbo?»[16].
Ora è proprio questo, è tutto questo complesso che si tratta non soltanto di subire in quello che ha di fatale, - e neppure, certo, di canonizzare in blocco - ma di assumere con totale lealtà. Non esiste un «cristianesimo privato»[17] e per accettarela Chiesa, bisogna prenderla così come è, tanto nella sua realtà umana e quotidiana, quanto nella sua idea eterna e divina, perché, di diritto come di fatto, la dissociazione è impossibile.
Per amare la Chiesa è necessario, vincendo ogni ripugnanza, amarla nella sua massiccia tradizione ed immergersi nella sua vita come il grano affonda nella terra; è necessario pure rinunciare al veleno sottile dei mistici e delle filosofie religiose che vorrebbero prendere il posto della sua fede o che si offrono a tramutarla. Questa è la maniera cattolica di perdersi per ritrovarsi. Senza questa mediazione ultima, il mistero di salvezza non può raggiungerci e trasfigurarci.
Bisogna spingere fino al limite la logica della Incarnazione, per cui la divinità si adegua alla debolezza umana. Per possedere il tesoro bisogna avere il «vaso d'argilla» che lo contiene[18], fuori del quale esso si sperde. Bisogna accettare quello che S. Paolo, che conosceva le tentazioni avversarie, chiamava «la semplicità nel Cristo»
a). Bisogna far parte, senza alcuna riserva, della «plebe di Dio». In altri termini, la necessità di essere umile per aderire a Gesù Cristo comporta la necessità di essere umile per cercarlo nella sua Chiesa e la necessità di unire, alla sottomissione della intelligenza, «l'amore della fraternità»[19]. Soltanto colui che rimane unito a tutte le membra del suo Corpo, partecipa del Cristo. Il ricco, il forte; il saggio, non dicono al povero, al debole, all'ignorante: tu non mi sei necessario... Sa che fa parte del Corpo di Cristo che è la Chiesa, e deve sapere che quelli che nella Chiesa appaiono deboli, poveri, ignoranti, devono essere tenuti in maggior onore e circondati di migliori cure, precisamente come i peccatori. In questo modo potrà dire di se stesso: Io ho il timore di Dio. Anziché mostrarsi infastidito, deve aver compassione di simili persone; deve soffrire con quelli che soffrono, per dimostrare, con i fatti, che siamo tutti un solo Corpo, solidali con le diverse membra
b). Questo il prezzo dell'inapprezzabile bene: la comunione cattolica.
È quanto già scriveva San Clemente Romano, uno dei successori di San Pietro, cogliendo, di colpo, il senso profondo della Chiesa: «Il Cristo appartiene a coloro che sentono umilmente, non a coloro che si innalzano al di sopra del gregge»[20].
Nella Chiesa, agli occhi dell’uomo superiore, tutto è basso. Ma «la forza si accorda con questa bassezza»[21]. Si accorda, anzi, soltanto con essa. Le forme ideali di cui l’uomo superiore si compiace, gli sembrano così alte e così pure soltanto perché sono opera sua. Comunque egli le consideri: come uno strumento per scolpire una personalità ricca, armoniosa e possente, come un quadro per interpretare l’universo o come un trampolino per slanciarsi fuori dei limiti della conduzione umana, esse si rivelano sempre ugualmente impotenti, incapaci come sono ad operare in lui la trasformazione del cuore.
[p. 363]
Noi sappiamo, purtroppo, che la professione di cattolico, e di cattolico militante, non conferisce automaticamente la santità; anzi, dobbiamo ammettere che tra noi, anche nei migliori, nei più puri, nei più ferventi, vi sono molte miserie umane che spesso intralciano l’opera dello Spirito Santo. Sappiamo però anche che il più piccolo dei nostri santi è più libero, interiormente, che il più grande maestro di sapienza. Quello non parla modestamente che della salvezza, mentre questo parla volentieri di liberazione; ma si vede subito quale dei due è veramente «libero». Quali esigenze profonde danneggia un principio temerario, dopo che si son fatti gli sforzi più nobili e più sinceri!
Le sole profondità che non siano deludenti, quelle che lo Spirito stesso scava nel cuore dell’uomo[22] suppongono il terreno della «fede comune», accettata senza sottintesi e mai abbandonata. Là soltanto zampillano le acque di Siloe[23]. Là soltanto si apre la via regale.
O humilitas, o sublimitas! Domus lutea, et aula regia! Corpus mortis, et templum lucis! Despectio denique superbis, et sponsa Christi[24]! Nella sua apparente bassezza,la Chiesa è il sacramento, cioè il segno veridico ed efficace di queste «Profondità di Dio».
[pp. 364-366]
Quando, sollecitato da una logica interiore che non era una semplice «logica libresca», Newman venne ad inginocchiarsi ai piedi del Padre Domenico Barberi, per chiedergli di riceverlo nella Chiesa, egli non sacrificava solamente una posizione, abitudini care, amicizie scelte, una dimora spirituale, dolorosamente ma sempre teneramente amata, una fama già largamente consolidata. Le condizioni dei tempi erano delle più sfavorevoli.
Era una sera dell'autunno 1845, verso la fine del pontificato di Gregorio XVI. «Il cattolicesimo appariva ovunque come un vinto della vita, tanto più pietoso in quanto si trascinava ancora dietro tanti resti derisori di una recente grandezza. Sull'antico fellow d'Oriel non poteva esercitare nessuna seduzione umana.
Qualche anno più tardi egli dirà: Noi non stiamo passando un'epoca di gloria temporale per la Chiesa, un'epoca di quelle che videro i prìncipi fedeli ai propri doveri, i governi leali, quando la Chiesa aveva vasti possedimenti, ampie comodità, scuole celebri, ricche biblioteche, sapienti fondazioni, santuari frequentati. La nostra epoca sembra piuttosto [somigliare] a quell'età primitiva in cui la Chiesa era apparentemente così umile nella nobiltà, nella scienza, nella ricchezza, nell'eredità del Signore; quando noi facevamo le nostre reclute soprattutto tra i ranghi più negletti della società, quando eravamo poveri, e ignoranti, disprezzati e odiati dai grandi e dai filosofi, come membri d'un'associazione grossolana, stupida e ostinata; quell'età durante la quale la storia non fa menzione di nessun santo che abbia fatto epoca con un'idea grandiosa, quali poi S. Tommaso d'Aquino o S. Ignazio di Loyola, ma dove i più abili scrivani cosiddetti cristiani, appartenevano a scuole eretiche. Noi abbiamo certamente poche cose da far vedere per la nostra gloria: si verificano per noi le parole del Salmo: «Hanno messo a fuoco il tuo santuario, hanno profanato il luogo dove tu abiti sulla terra; noi non abbiamo veduto i nostri segni, perché non vi sono più profeti... »[25].
Nei cattolici romani Newman non trovava nulla d'attraente. «Io non ho simpatia per loro, confessava. Da loro attendo ben poco. Unendomi a loro faccio di me stesso un paria. Mi incammino verso il deserto». E non prevedeva ancora, allora, tutte le contrarietà che lo avrebbero amareggiato nella traversata di questo vasto deserto! Ma per la sua anima fedele tale passo era una «necessità», e mai, in seguito, ebbe a rimpiangerlo per un solo istante[26].
Note al testo
[1] I Cor., I, 26.
[2] Philipp., II, 7.
[3] Fin tanto che non sarà intervenuta la «metànoia=pentimento». Cfr. Marc., I, 15; Rom., XII, 2; Eph., IV, 23.
[4] S. AGOSTINO, Enchiridion, c. 108; «…ut humana superbia per humilitatem Dei argueretur ac sanaretur» (P. L., 40, 283). Sermo 184, n. 1: «Teneant ergo humiles humilitatem Dei» Sermo 51, 4-5. (P. L., 38, 336); Sermo 117, n. 17 (P. L., 38, 671); Sermo 123, n. 1 (col. 684); Sermo 142, n. 2 (col. 778). De doctrina christiana, 1. I, c. 14, n. 13 (P. L., 34,24). Confessioni: «Non enim tenebam Jesum, humilis humilem». In Joannem, tract., 2, n. 4; tract. 25, n. 16 (P. L., 35, 1390-1391 e 1604). De Trinitate, 1. IV, c. 2, n. 4 (P. L., 42, 889); 1. VIII, c. 5, n. 7 (col. 952). De agone christiano, c. 11, n. 12 (P. L., 40, 297); de Div. Quaest. 83, q. 69, n. 9 (col. 79). S. LEONE, De Ascensione Domini, sermo 2, c. 1: «Sacramentum salutis nostrae… per dispensationem humilitatis impletum est» (P. L., 54, 397 A). S. GREGORIO, Moralia in Job., 1. II, c. 35, n. 58: «Dum ipse humilitatem carnis suscepit, in se credentibus vota humulitatis infundit» loc. Cit., p. 224). Cfr. P. ADNÉS, L’Umiltà, virtù specificamente cristiana secondo S. Agostino, nella Revue d’ascétique et de mystique, 1952. E. BERGSON ha saputo parlare della «umiltà divina»: Les deux Sources…, p. 249.
[5] CELSO, Discorso verace, I (in ORIGENE, Contra Celsum). 1. III, c. 44; cfr. c. 55 e 60. GOETHE, lettera dell'11 marzo 1832: «massa limitata, pronta a curvarsi e a lasciarsi dominare».
[6] CELSO, ibid. Cfr. S. ILARIO, Tractatus in Psalm, I, n. 5: «sacramentum Dei corporati» (ediz. A. ZINGERLE, p. 22).
[7] Frase di VICTOR COUSIN, riportata da Ad. FRANCK, Nouveaux essais de critique philosophique (1890), pp. 43-44: «egli considerava come una crudeltà il togliere la mezza-luce a coloro che avevano gli occhi chiusi ad un'altra sorgente luminosa». In compenso, PROUDHON stigmatizzava i filosofi del suo tempo che, «avendo imbastite quattro filacce metafisiche», si credevano superiori alla Chiesa: De la justice..., t. I, p. 275.
[8] Cfr. VICTOR COUSIN, Fragments philosophiques, prefazione alla seconda ediz. (1833): «La religione, indirizzata com’è a tutti gli uomini, fallirebbe il suo scopo se si presentasse sotto una forma che soltanto l’intelligenza riesce a raggiungere... Mentre non è così della filosofia. Essa sì, non parla che all’intelligenza e conseguentemente a un numero ristretto di uomini; però questo piccolo numero è l’élite e l’avanguardia dell’umanità... Sono la cattiva filosofia e la cattiva teologia che si bisticciano. Il cristianesimo è la culla della filosofia moderna; e io stesso ho segnalata più d’una profonda verità nascosta sotto il velo delle immagini cristiane» (5a ediz., 1866, pp. LXXI-LXXII).
[9] RENÉ GUÉNON, Autorité spirituelle et pouvoir temporel (1930) p. 36; L’homme et son devenir selon le Vedanta (1925), p. 51; Introduction générale à l’étude des doctrines hindoues (1921), p. 151; ecc. Cfr. FR. SCHUON, De l’unité transcendante des religions (1948), p. 61 e pp. 10-22: persuasione di ricavare la «verità nuda» dal simbolo o dalla forma che l’avvolge nella fede e di sorpassare il dogma penetrandone la «dimensione interna».
a) Cfr. MARCEL MERY, La critique du christianisme chez Renouvier (1935) vol. II, p. 498.
b) II Cor., X, 5.
c) Is., XXIX, 14; I Cor., I, 19.
[10] S. AGOSTINO, Confessioni, l. V, c. 3-7 (ediz. Paoline Roma 1951).
[11] DOM ODON CASEL, trattando dei Libri ermetici, Le Mémorial du Seigneur (trad. franc. HENRY CHIRAT, 1945), pp. 59-60.
[12] Confessioni, 1. VI, c. 4, n. 5: «Confundebar et convertebar et gaudebam, Deus meus, quod Ecclesia, tua unica, corpus Unici tui, in qua mihi nomen Christi infanti est inditum, non saperet infantiles nugas».
[13] ANDRÉ MALRAUX, La Monnaie de l'Absolu, p. 160.
[14] Pensieri, (ediz. Paoline, Alba).
[15] PAUL CLAUDEL, op. cit., p. 362. Cfr. la sua lettera a GABRIEL FRIZEAU, loc. cit., p. 35.
[16] NEWMAN, Sermone sul Cristo nascosto al mondo (trad., franc. di PIERRE LEYRIS, Cardinal Newman, le Christ, 1943, p. 189).
[17] Cfr. E. KAESERMANN, citato da C. SPICQ, l'Epître aux Hébreux (1952), p. 277: Questa Epistola «non conosce cristianesimo privato, e la fede esattamente come l'obbedienza, sono caratteristiche della comunità in quanto tale».
[18] Cfr. II Cor., IV, 7.
a) Cfr. II Cor., XI, 3.
[19] I Petr., I, 22: «in fraternitatis amore simplici»; II, 17: «Fraternitatem diligite»; III, 8: «fraternitatis amatores». I Thess., IV, 9.
b) S. AMBROGIO, in Psalm. 118, serm. 8, n. 54 (P. L., 15, 1317 C-D).
[20] Lettera ai Corinti, c. XVI.
[21] PASCAL, Pensieri, (p. 267).
[22] I Cor., II, 10.
[23] GUGLIELMO DI SAN THIERRY, Aenigma fidei (P. L., 180, 407-408). Cfr. ORIGENE, in Levit., hom. 12, n. 5, sulla fede che «persevera nella confessione, semplicemente come nell’integrità verginale…».
[24] S. BERNARDO, In Cantica, serm. 27, n. 14 (P. L., 183, 920 D).
[25] Le catholicisme travesti per ses ennemis, 9a conferenza.
[26] NEWMAN, lettere a Coleridge (16 novembre 1844), a Keble (21 nov.), a sua sorella Jennina (15 marzo 1845). Cfr. LOUIS BOUYER, Newman pp. 298-314.