Il mio amico Maigret, di Marina Corradi
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Riprendiamo dal sito della rivista Tracce un articolo di Marina Corradi pubblicato il 24/4/2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Di Marina Corradi vedi su questo stesso sito la pagina Articoli di Marina Corradi.
Il Centro culturale Gli scritti (24/4/2012)
«Per favore, il treno per Étretat?».
Erano le otto del mattino, e già da un pezzo era giorno fatto, ma lì, a causa della fuliggine e dell’umidità, sembrava d’essere ancora all’alba.
«Étretat? Ha tempo. Il suo treno è quello laggiù». Gli indicarono, lontano dalla pensilina, alcuni vagoni senza locomotiva, vagoni di vecchio modello, verniciati in quel colore verde al quale non si era più abituati. Dietro ai finestrini, pochi viaggiatori immobili sembravano in attesa dal giorno prima.
È l’attacco di Maigret e la vecchia signora, di Georges Simenon. Uno degli oltre settanta gialli di Simenon, che frequento da quando avevo dodici anni. Li ho letti, credo almeno, tutti, e alcuni molte volte. Ma in certi giorni in cui sono proprio stanca, e anche leggere mi sembra una fatica, torno a cercare un vecchio Maigret di cui già conosco la trama; come si cerca un amico che, semplicemente, ti stia accanto, senza fare domande. Ho le librerie di casa piene di questi vecchi Oscar Mondadori degli anni Sessanta, con la faccia larga, emiliana, di Gino Cervi in copertina. Forse è anche per quella faccia, per quella stazza pesante che mi ricorda mio padre, che il commissario mi è rimasto così caro?
A Étretat, Maigret arriva per l’avvelenamento della cameriera della donna più ricca del paese, una deliziosa vecchia signora con innocenti occhi azzurro porcellana. E ancora una volta mi incanta quel modo di Simenon di tratteggiare facce, così che mi pare di averle davanti agli occhi. Ha uno sguardo profondo e pensoso, il commissario, e tuttavia non da inquisitore: ascolta, guarda, torna sui suoi passi, si immerge nell’aria di quei quartieri di provincia, o di Parigi, fino a quando non riesce a cogliere le anime nascoste dietro ai volti, e a capire. Come un Diogene che, con una lanterna in mano, cercasse l’uomo. Perfino con un serial killer psicotico che terrorizza Parigi, Maigret non si arrende: non capisce, gli dice esasperato in un interrogatorio, che sto cercando di trovare l’essere umano che c’è nel fondo di lei?
Ed è da tutta la vita che io seguo il mio amico commissario sui bordi delle chiuse dei canali alla periferia di Parigi, o nella nebbia delle spiagge normanne. Quando leggo dei suoi passi pesanti in queste nebbie dense, aperte appena dalla luce giallastra di un raro lampione, e del caldo e dell’odore di alcol che lo investe quando schiude la porta di una bettola in un porto, io sono, davvero, lì insieme a lui. Quando Maigret contempla l’abito da sera celeste e la scarpetta da ballo sfuggita alla giovanissima vittima di La ragazza morta, ritorno a quando facevo cronaca nera, da ragazza, e davvero la morte si presentava così, nella densità di un minimo, attonito dettaglio.
Così che leggo e rileggo ancora questa mia collezione ingiallita, e non mi importa affatto se so già chi è l’assassino: perché molto di più mi appassiona quello sguardo su strade, paesi, facce di sconosciuti, in treno, o in locande fumose; facce di uomini. Perché sono quelle, e il commissario lo sa bene, il vero mistero.