Aborto: una discussione che non si può chiudere per legge, perché riguarda il bene e il male ed il senso stesso della vita (dalla rassegna stampa)
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Presentiamo due articoli scritti da due donne, Lucetta Sacraffia e Marina Corradi, apparsi rispettivamente su Avvenire dell'11/1/2008 e dell'8/1/2008; cercano di aprire in maniera pacata l'orizzonte non di una modifica della legge 194, quanto piuttosto, di una riflessione educativa.
La storia stessa d'Italia ha indicato come la questione del bene e del male e del senso stesso della vita comporti una serie di risvolti e situazioni che si richiamano a vicenda; se oggi, infatti, il tema dell'aborto è stato riproposto dal Foglio di Giuliano Ferrara in relazione alla moratoria sulla pena di morte, nel referendum sulla 194 il quesito referendario fu posto contemporaneamente alla richiesta dell'abrogazione dell'ergastolo, abolizione richiesta allora dal movimento radicale in nome della dignità della vita umana. Il fatto che la conferma della 194 avvenne contemporaneamente al rigetto dell'abrogazione dell'ergastolo -gli elettori votarono su schede dievrse, ma nella stessa giornata referendaria- suscitò allora la discussione se i risultati fossero espressione di una chiara presa di posizione etica o piuttosto indicatori dell'esigenza di sicurezza individuale che si desiderava garantita.
Restiamo a disposizione per l'innediata rimozione se la presenza on-line sul nostro sito di questi testi non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Gli antenati della moratoria
di Lucetta Scaraffia
In un recente editoriale Pierluigi Battista ha ribadito sul Corriere della Sera che i «laici» non si debbono sottrarre alle domande sulla vita e sulla morte, e quindi agli interrogativi che pone l’aborto. E sono sempre stati molti i «laici» a pronunciarsi su questo tema, prendendo più d’una volta posizioni vicine a quelle della Chiesa: uomini di pensiero come Bobbio e Abbagnano, per esempio, hanno dimostrato tangibilmente che sui temi etici la spaccatura non è fra «laici» e cattolici.
Accanto agli strenui difensori della libertà di aborto come fondamento della libertà delle donne, ci sono sempre stati, infatti, fin dal momento della votazione della legge 194 e del referendum che la seguì, intellettuali consapevoli della gravità del fenomeno e del pericolo che poteva comportare la sua legalizzazione. Perfino negli anni Sessanta, quando sembrava incantare tutti il mito della «pianificazione familiare»: è questo il nome che prende il controllo delle nascite, nome «scientifico» e positivo (in quanto allude al futuro) coniato sul modello della pianificazione economica, in voga in quegli anni. L’idea che i bambini desiderati e voluti sarebbero stati esseri umani migliori, più sani e intelligenti di quelli nati «per caso» costituiva la giustificazione di fondo della legalizzazione dell’aborto.
Sarà solo il movimento femminista degli anni Settanta – non tanto nella sua ideologia, più complessa e contraddittoria, quanto in slogan di immediata e duratura fortuna, in particolare «il corpo (variante: l’utero) è mio e lo gestisco io» – a proporre il desiderio individuale della donna come motivazione dell’aborto. In questo modo, anche se l’intenzione generale non era consapevolmente quella, si è imposto il desiderio individuale della donna come motivazione principale e sufficiente per decidere se un figlio doveva venire al mondo, infrangendo il tabù che impediva di giustificare con il desiderio individuale il rifiuto della maternità.
Questo ha significato realizzare una totale uguaglianza fra donne e uomini: le donne non sarebbero più state condizionate dal loro destino biologico, avrebbero potuto scegliere. Ma non tutti, anche fra i laici, erano d’accordo: lo dimostra il dibattito intorno all’articolo scritto da Pasolini nel 1975 sul Corriere della Sera contro la legalizzazione dell’aborto.
Esprimendo il suo no all’aborto e ponendosi esplicitamente dalla parte del bambino e non da quella della madre, Pasolini rompe il fronte laico progressista suscitando scandalo. Irrita soprattutto la sua denuncia della liberalizzazione dell’aborto come un momento di affermazione del consumismo dilagante, come un fatto di «enorme comodità per la maggioranza », come una libertà sessuale «regalata dal potere», fonte di «una vera e propria generale nevrosi». Nessuna risposta – con l’eccezione di un breve accenno di Dacia Maraini – sembra consapevole del cambiamento che la legge provocherà, o per meglio dire sancirà, nella percezione dell’identità femminile tanto da proporla come motivazione. Tutte le prese di posizione – tranne quella di Claudio Magris e per molti versi quella di Leonardo Sciascia – sono decisamente critiche con Pasolini, ma colpisce il linguaggio: una scrittrice favorevole all’aborto, se pure come «male minore», come Natalia Ginzburg scrive, per esempio: «Trovo ipocrita affermare che abortire non è uccidere. Abortire è uccidere».
Le risposte di Magris e di Italo Calvino pongono invece un problema centrale: la vita ha valore per se stessa o solo in quanto desiderata, prevista, attesa da un altro essere umano? Per Calvino «non si è esseri umani per diritto naturale, ma lo si diventa, bene o male, perché altri esseri umani vogliono aiutarci a diventare tali», mentre al contrario Magris si oppone all’idea che «l’esistenza di una persona viene subordinata ai sentimenti che altri provano nei suoi riguardi, ai moti affettivi o viscerali che essa suscita o meno», arrivando a dire che «la campagna per l’aborto è una delle forme in cui si palesa quella persuasione totale delle coscienze, cui stiamo assistendo, ad accettare qualsiasi cosa».
La Maraini – che, come Natalia Aspesi, giustifica la sua difesa della legalizzazione dell’aborto con la salute delle donne, che rischiano la vita – scrive che «la scelta non è fra aborto e non aborto» ma fra aborto clandestino e aborto legalizzato. La vera novità, cioè la nuova libertà delle donne, è citata brevemente: «Quel che si vuole infatti – scrive la Maraini – è la rottura dei ruoli prigione di vergine, madre, sposa, per ridare alla donna una integrità e una dignità di persona umana». Frase che sottintende, fra le righe, che la «persona umana» per eccellenza è l’uomo, libero dal peso di un corpo che può procreare. Sarà solo negli anni successivi che nella difesa della legge 194 prevarrà il concetto di libertà delle donne, fino all’affermazione di Claudia Mancina che l’aborto è l’habeas corpus della cittadinanza femminile. E la libertà di aborto verrà sbandierata provocatoriamente come successo del movimento femminista.
Oggi, vediamo ancora un cambiamento: anche i laici che difendono la legge non osano più eludere il drammatico nodo morale, e non si richiamano più, neppure la Maraini, alla libertà delle donne. Perfino Umberto Veronesi – che ha scritto su la Repubblica che far nascere un bambino affetto da malformazioni «è un invito alla crudeltà» – ammette che «l’aborto è un evento drammatico e traumatico che tutti vorrebbero evitare ». Tutti pronti a riconoscere la gravità dell’aborto, quindi, anche se ormai è venuta meno la certezza che si possa cancellare facendo uso di anticoncezionali, come si pensava negli anni Settanta.
E questo, senza dubbio, è il primo passo per aprire una riflessione collettiva non ideologizzata. Certo, continua a stupire la contraddittorietà delle motivazioni di quanti sono favorevoli all’aborto – dalla rivendicazione come se si trattasse di un diritto alla deprecazione sofferta – di fronte alla coerenza della Chiesa: un male da combattere, ma che si può perdonare.
Il coraggio di porre a tema il valore primordiale della vita
di Marina Corradi
Che la moratoria dell’Onu sulla pena di morte «stimoli il dibattito pubblico sul carattere sacro della vita umana». È pacato l’inciso del Papa, nel discorso rivolto ai rappresentanti del Corpo diplomatico, e dedicato agli scenari mondiali. Pensoso, quasi denso di una accorata umiltà: quella comunità internazionale che dice 'no' alla pena capitale, riconoscendo in sostanza una intangibilità della vita umana, si interroghi pubblicamente sul diritto alla vita, fin dal suo inizio. È un invito, anzi un 'fare voti', secondo l’espressione letterale di Benedetto XVI: se la morte non può essere data per una intrinseca sacralità della vita anche del peggiore degli uomini, andiamo oltre, vediamo in quale direzione ci porta questo asserto, quando parliamo di principio della vita. Guardate, sembra dire il Papa: la vita che la comunità politica internazionale difende con la moratoria dell’Onu, non è la stessa, non incomincia già in quel tempo in cui viene invece 'normalmente' eliminata nel mondo 50 milioni di volte all’anno?
Non ha toni da anatema quella frase, né è, tra le righe, l’'ordine' dal Vaticano di smantellare la legge sull’aborto di questo o quello Stato. Coloro che, in Italia ad esempio, ripetono sempre e soltanto che «la 194 non si tocca » non hanno motivo di inalberarsi. Il Papa dice una cosa altra o precedente: che si apra, ovunque, una riflessione pubblica sul carattere sacro della vita. Come una spinta, sul tema dell’aborto, a ricominciare dalla 'cultura', intesa come dibattito, visione del mondo, educazione.
L’inciso del Papa sottolinea una contraddizione: se sulla inammissibilità della pena capitale oggi l’occidente democratico è d’accordo, sull’aborto inteso come diritto intangibile invece resiste almeno in Italia una sorta di tabù, di stereotipata reazione pavloviana: «La 194 non si tocca ». Ma – fermo restando che, visti i progressi delle tecniche di rianimazione neonatale, sembra necessario porre almeno un limite temporale all’aborto terapeutico – l’accento posto da Benedetto XVI va innanzitutto sul piano culturale. Più sull’apertura a un nuovo sguardo che a battaglie politiche contro una legge che resta sostanzialmente iniqua per le quali, oggi in Italia, non paiono esserci le condizioni; battaglie che invece – ciò che alcuni pro-life non colgono subito – potrebbero schiudere la porta a derive gravi sul fronte ampio della legislazione in materie bioetiche.
Sul Corriere di ieri il vicedirettore Pierluigi Battista diceva, da laico, qualcosa di non molto diverso su quello che potremmo chiamare il 'primato della cultura': e cioè che l’unico modo per tornare a discutere di aborto è nello «sfidare il senso comune sulla base di un argomento culturale». La 194 non si tocca, scrive Battista, ma perché, si domanda lealmente, anche la cultura sull’aborto deve aspirare a uno statuto di intoccabilità? È una domanda interessante da girare a quanti abbiano il coraggio di guardare all’aborto come è oggi: fenomeno di massa, in buona parte di extracomunitarie, o prassi normale tanto da pensare di risolverla con una pillola. È una domanda molto laica, là dove invece alcuni, come Antonio Scurati sulla 'Stampa', nell’inneggiare a un’Italia monoliticamente «laica e materialista » definiscono l’embrione «macchia di gelatina fetale» o «poltiglia di materia cieca». Macchia, poltiglia, come dire un nulla. Espressioni stranamente virulente in bocca a un 'laico' che poi accusa cattolici e 'atei devoti' di agire in preda a un «panico morale».
Mentre a noi pare che solo un inconfessato panico possa far chiamare un embrione «gelatina ». Il panico di chi ha come idolo la assoluta libertà individuale, indifferente a ogni altra istanza etica. E non intende fare un solo passo per vedere una diversa realtà, che potrebbe nuocere al suo personale diritto – cioè al suo unico dio, ferocemente difeso da un 'laico' tabù.