Terraferma, di Emanuele Crialese. I poveri della terra ci insegnano la benedizione di Dio ed il valore della vita. Appunti di Andrea Lonardo
- Tag usati: cinema, scritti_andrea_lonardo
- Segnala questo articolo:
Riprendiamo sul nostro sito alcuni appunti scritti da Andrea Lonardo sul film Terraferma di Emanuele Crialese.
Il centro culturale Gli scritti (8/1/2012)
Una sola volta appare un riferimento a Dio, anche se implicito, nelle parole dei protagonisti del film. È la giovane donna proveniente dal Corno d’Africa, che ha da poco partorito, che dice a Giulietta: «Tu sei benedetta e sei mia sorella». L’espressione – forse per essere politicamente corretti – è ellittica, ma ognuno sa bene che dire “benedetta” significa dire “benedetta da Dio”.
La madre appena sbarcata non dice solo «grazie», dice di più. «Benedetta» vuol dire che Dio ti ha posto sul mio cammino, che Dio sia benedetto per te, che Dio ti benedica ancora, che Dio ti ricompensi di ciò che hai fatto, che io riconosco in te l’opera di Dio... «Tu sei benedetta fra le donne» si sentì dire una giovane di Nazaret 2000 anni fa.
Se c’è qualcosa che manca nella descrizione così umana della gente di Sicilia che il film presenta è l’altrettanto radicato, atavico - si potrebbe dire - radicamento in Dio di quella gente antica. Certo si fa riferimento alla “legge del mare”, ma non si emerge oltre questa.
La giovane donna, invece, benedice, celebrando la misteriosa presenza di Dio.
Non solo. Essa accoglie un bambino che proviene da uno stupro consumatosi dentro una prigione libica. Una violenza di cui il primogenito maschio è stato testimone. E, con rabbia, ne soffre.
Eppure la clandestina ha accolto quella vita. È la sua “legge”, è la “legge” della vita, è la “legge” del suo essere donna e madre. Lei, di quella creatura, è fieramente e dolcemente madre.
Uno dei passaggi più toccanti del film è quando la madre risponde al figlio che la vorrebbe sopprimere, perché “non si sente fratello” di quella neonata che non ha lo stesso padre: «Tuo padre, se non è cambiato, capirà». Ella conosce il cuore del marito, conosce i suoi valori. Egli, pur nel dolore, non potrà che darle ragione. Essa si è posta al servizio della vita.
Anche qui la donna è assolutamente controcorrente rispetto all’immaginario femminile che viene esaltato e proposto a modello della futura donna. È una donna che non rifiuta un figlio vivo, anche se nato dalla violenza. Egli è arrivato e non si può che accoglierlo.
Il film più che una denunzia sociale è una discesa nell’animo dei protagonisti. La gente dell’isola – ed in particolare Filippo insieme a sua madre - vivono una vera e propria doppia conversione.
La prima “conversione” che il film ci presenta è quella iniziale, apparentemente inappuntabile, in realtà non scevra di ombre. La donna vuole rompere con i tabù dell’isola, vuole rifarsi una vita, trovarsi una compagnia, cambiare i suoi vestiti di lutto, iniziare a lavorare. Per il ragazzo, suo figlio, pensa un futuro analogo. Egli deve semplicemente diventare un giovane più moderno. Come donna e come madre, non si interroga sul mistero della vita. Ed il figlio, di fatto, sembra pian piano, guidato da uno zio, imboccare la via propostagli.
In una scena surreale e drammatica, però, tutto cambia. È la seconda “conversione”. Il ragazzo è in barca solo con Maura, una giovane turista sua coetanea. La scena avanza con cadenze consuete. Lei domanda se lui ha la ragazza. Lui risponde di no. Lei si spoglia e mostra i suoi seni. Poi si tuffa. Lui sta per seguirla in acqua e seguirebbe l’immancabile amplesso: il giovane finalmente perderebbe la verginità e diverrebbe adulto.
Ed invece no. A nuoto arrivano i clandestini. La vita irrompe. Ed il film – forse senza saperlo – afferma che essere adulti non vuol dire aver fatto l’amore, ma decidere di porsi a servizio della vita. Filippo non è ancora pronto per questo ed abbandona in mare i disgraziati.
Anche la saga di Harry Potter propone una scena analoga. Harry lascia un bacio, ormai pronto, per correre in aiuto del mondo e dei suoi amici (cfr. Harry Potter e l'educazione alla vita buona, di Andrea Lonardo). Episodi che sono una straordinaria memoria di cosa arda nel cuore di un ragazzo, anche quando lui stesso pensa che nel suo stesso cuore non ci sia posto che per una ragazza. Luci che potrebbero illuminare la futura educazione dei nostri figli. Per essi la vera domanda non dovrà mai essere semplicemente: «Chi è la tua ragazza?». Bensì: «Cos’è la vita?»
Nell’ultima sequenza Filippo è ormai un altro. È lui che solo conduce verso la terraferma i tre profughi. Egli ormai è adulto. Egli sta amando. Egli non ha ancora una ragazza, ma ormai ha scelto di servire la vita.
Ed è solo nel suo viaggio. Come ogni adulto è in qualche modo solo. Perché non è più portato dagli altri, dai suoi genitori. Ora è lui a dover portare gli altri, a doverseli caricare sulle spalle. Perché è a servizio della vita. La vita pulsante di coloro che gli sono stati affidati dal cielo è con lui. Per questo egli non è solo: egli sta portando verso la terraferma una madre e due figli che non sono suoi, ma che, in realtà, ormai suoi lo sono in qualche modo diventati.
Il film si apre con una scena ripresa dal fondo degli abissi. E la prospettiva dall’abisso si ripete più volte. C’è una legge atavica, c’è una terra ed un mare dalle cui oscurità tutto sembrerebbe provenire. A cui tutto sembrerebbe dover tornare, come nella commovente sequenza che mostra gli oggetti dei profughi che ormai non sono più sui fondali
Ma l’ultima scena è ripresa dall’alto. Non è una confessione di fede. Ma nemmeno la esclude. Forse la invoca. Non c’è solo una legge antica, non c’è solo la “madre terra” ed il suo mare. Non c’è solo la “legge del mare” sul nostro destino. E nemmeno solo la stupidità umana che le si oppone. Forse – sembra dire quasi inconsapevolmente Terraferma – esiste anche una benedizione che ci precede e ci avvolge e guida i nostri passi verso quella terra che tutti attendiamo.
Ci sia permesso di annotare anche un riferimento esterno al film. «Il continente africano, l’anima africana e anche l’anima asiatica restano sconcertate di fronte alla freddezza della nostra razionalità. È importante dimostrare che da noi non c’è solo questo. E reciprocamente è importante che il nostro mondo laicista si renda conto che proprio la fede cristiana non è un impedimento, ma invece un ponte per il dialogo con gli altri mondi. Non è giusto pensare che la cultura puramente razionale, grazie alla sua tolleranza, abbia un approccio più facile alle altre religioni. Ad essa manca in gran parte “l’organo religioso” e con ciò il punto di aggancio a partire dal quale e con il quale gli altri vogliono entrare in relazione. Perciò dobbiamo, possiamo mostrare che proprio per la nuova interculturalità, nella quale viviamo, la pura razionalità sganciata da Dio non è sufficiente [...]. In questo senso credo che abbiamo un grande compito, di mostrare cioè che questa Parola, che noi possediamo, non appartiene – per così dire – ai ciarpami della storia, ma è necessaria proprio oggi».
Così ebbe a dire il papa Benedetto XVI il 13 agosto 2006 (in un’intervista rilasciata a Radio Vaticana ed a tre televisioni tedesche). E le sue parole non debbono cessare di far pensare.
Quando l’uomo occidentale dimentica la nostalgia di Dio ed il primato del servizio alla vita che nasce, sono i poveri della terra che tornano ad insegnarceli. Accogliamoli.