Presentiamo un bellissimo articolo del domenicano francese p.Olivier de la Brosse, che ci introduce all'arte barocca. Il testo è pubblicato in Le Message Spirituel des Artistes à Rome, Centre Saint Louis de France, Roma, 1979 e ripreso in AA. VV., Arte e teologia, Collana della Facoltà Valdese di Teologia, Torino, Claudiana, 1997. Restiamo a disposizione per una pronta rimozione se qualcuno degli aventi diritto sul testo non gradisse la sua messa a disposizione on-line.
L'Areopago
“Come è possibile essere persiano?” si chiedeva Montesquieu, rappresentante
illuminato, nel secolo dei Lumi, di un popolo che si crede spesso un faro universale. “Come è possibile
amare l'arte barocca?” esclamano oggi i discendenti di questo filosofo che, almeno per parte sua, sapeva
rispettare lo Spirito delle Leggi...
Sia il barocco, sia l'arte della Controriforma, sconcertano i pellegrini e i turisti che commettono spesso l'errore
di confonderli in una indistinta ripulsa.
A quest'arte si rimprovera di essere indiscreta, eccessiva e ingombrante e queste critiche sono le meno gravi:
non è raro, infatti, sentirla tacciare di scandalosa o di ridicola e giudicare come sprovvista di senso
cristiano [1] .
E' in questi termini che una guida famosa inizia il suo capitolo sul barocco romano e non potrebbe riassumere meglio
la difficoltà che specialmente i francesi provano a cogliere e a gustare questa forma d'arte. L'eminente
storico Emile Mâle calca ulteriormente la mano quando afferma che dopo il Medio Evo non esiste più arte
cristiana. La nostra perplessità cresce quando prendiamo in considerazione il lessico. Si sa che la parola
“barocco”, come prima di essa la parola “gotico”, è carica di valore peggiorativo.
Essa deriva dallo spagnolo “barocco” che indica una perla di forma irregolare. Si deve poi constatare che
questa accezione peggiorativa si accentua durante i secoli XVIII e XIX. Nel 1690 il Dictionnaire di
Furetière, prima opera che includa questo termine, si esprime ancora in modo neutro: “è un
termine di gioielleria usato esclusivamente per indicare le perle che non sono perfettamente rotonde”. Ma nel
1740 il Dictionnaire de l'Académie Française appesantisce la definizione: “barocco si dice
anche in senso figurato per irregolare, bizzarro, disuguale. Uno spirito barocco, un'espressione barocca, una figura
barocca”. Poco meno di cinquant'anni più tardi, l'Encyclopédie méthodique di
Quatremère de Quincy , nel 1788, inasprisce ancora il giudizio: “Il barocco in architettura
è una sfumatura del bizzarro, se si vuole ne è il raffinamennto, o se è possibile dirlo,
l'abuso... L'idea di barocco porta con sé quella del ridicolo spinto all'eccesso”. Infine, sempre nel
XVIII secolo, Francesco Milizia, autore italiano, mette fine a questo crescendo negativo di vocabolario definendo il
barocco come “il superlativo del bizzarro, l'eccesso del ridicolo” [2] .
Potrebbe dunque sembrare che il giudizio francese sul barocco sia uniformemente negativo. Ma alcuni storici hanno
notato che questa opposizione è soltanto un fenomeno recente. Nel XVII secolo, proprio all'epoca del barocco,
nel XVIII secolo e nella prima metà del XIX secolo molti francesi dimostravano di essere sensibili a questa
forma d'arte. Pare che il sentimento di opposizione sia nato con la delusione dei nostri bisnonni nei confronti del
giovane regno italiano francofobo nato dalle battaglie di Magenta e Solferino nel 1859. Da quell'epoca, infatti,
comincia un'opposizione violenta a tutto ciò che sembra essere il prodotto del suolo e dello spirito italiano
[3] .
A me la scelta sembra invece semplice e definitiva: bisogna amare il barocco, o rinunciare a vivere a Roma. Questa
forma d'arte, è stato detto, costituisce in effetti il vero “classico di Roma” [4] . Se si rinuncia a penetrare nel suo spirito, ci si mette al tempo stesso nella
impossibilità di assaporare l'insieme dello scenario urbano, il tracciato delle strade e delle piazze, la
fisionomia delle fontane, la facciata dei palazzi e naturalmente delle chiese. Si rinuncia a scoprire ciò che
costituisce l'anima stessa della città ecclesiastica e profana. Tanto vale allora rimanere a casa propria. Per
chi vuole amare Roma non c'è altra scelta che fare lo sforzo di imparare a conoscere “lo spirito del
barocco”.
Ci si limiterà qui a prendere in considerazione il barocco nell'architettura religiosa romana. Ciò
esclude, visto che si devono porre dei limiti, una riflessione sui palazzi, i mobili, le decorazioni, tutto
ciò che in Austria o in Svizzera si chiama rococò, senza parlare dell'arte chirrigueresca spagnola o
messicana [5] . In breve non tratteremo tutta l'espansione europea e
americana di una forma d'arte della quale noi ora analizzeremo solo un aspetto tipico e anche molto locale Per il
fiorire del barocco romano, occorrevano delle circostanze storico-religiose che hanno portato ad un certo umanesimo
spirituale all'interno del quale lavorarono uomini che hanno realizzato un insieme coerente di procedimenti
originali.
E' nel contesto di una Controriforma “riuscita”, sotto il controllo della potenza pontificia, che si svilupperà il desiderio di creazione che dà vita al barocco romano.
“Alla morte di Filippo II di Spagna, nel 1598, il bilancio delle guerre di religione si
dimostra rigorosamente nullo. La pace di Vervins, semplice conferma della pace di Cateau, ha chiarito qualche mese
prima che ci si era uccisi per niente durante quasi quarant'anni, e ha provato il carattere utopico dei sogni unitari
della Spagna. Nello stesso tempo l'editto di Nantes definisce una formula originale di coesistenza tra le due
confessioni. I prìncipi tedeschi, pur rimanendo armati, si sforzano di trovare una sorta di equilibrio, Unione
Evangelica da un lato, Lega Cattolica dall'altro. La Polonia fedele a Roma e la Svezia luterana, per breve tempo
unite da Sigismondo Vasa, rinunciano saggiamente a vivere insieme... Ognuna delle due parti scopre che non
potrà mai eliminare l'altra”. Dopo tutto, dirà un personaggio di Lope de Vega, che cosa mi hanno
fatto i Luterani? Il Signore li ha creati e potrebbe, se lo volesse, farla finita con loro molto più
facilmente di me” [6] .
In altri termini ciascuno si ritira nella propria realtà. Il sogno della cristianità è
definitivamente morto. Esiste un partito protestante e un partito cattolico, ma almeno all'interno di quest'ultimo si
è liberi di esprimersi, di pensare, di creare, senza timore di essere contraddetti. La cristianità
è morta, certo, ma resta la città cattolica.
L'Europa della Curia, o anche l'Europa dei monaci, è succeduta all'Europa unita. Questi monaci il Concilio di
Trento li ha aiutati a riformarsi. Il Concilio ha pure invitato gli ordini decentralizzati, come i Benedettini, a
costruire delle potenti congregazioni regionali di fronte all'episcopato propenso ad un relativo nazionalismo.
“Ai primi ranghi di queste milizie oltramontane si fanno notare i gesuiti. Verso il 1615, settantacinque anni
dopo la fondazione dell'ordine, sono più di 13.000. Essi hanno validamente contribuito a fissare
l'atteggiamento di una parte del mondo nei confronti di Dio, della morale, della cultura. Le hanno dato, nel bene e
nel male, un'anima” [7] .
Qualunque sia la forma d'arte sacra che verrà realizzata, infatti, si può essere certi che sarà
improntata ad un carattere di unità e di centralizzazione. Sarà un'arte omogenea e cattolica,
incentrata su una comunità di credenza e di disciplina che non lascerà posto ad alcuna tendenza
deviazionista...
Il XVII secolo, che inizia col giubileo trionfale del 1600, vede sbocciare e affermarsi il
prestigio e la potenza del pontefice romano. La vittoria del partito cattolico in Francia, l'arretramento delle
correnti protestanti in Europa centrale costituiscono per il papato dei risultati positivi ed incoraggianti. La corte
papale vale quanto quella di altri prìncipi. Il trionfo del Vaticano, simboleggiato dal baldacchino di San
Pietro a Roma e portato a termine dal Bernini nel 1633, coincide col suo trionfo dottrinale su Galileo condannato dal
Sant'Offizio in quello stesso anno.
Inoltre la potenza ed il prestigio ritrovati dal papato dopo la crisi protestante si situano in un contesto
materiale e finanziario favorevole. Non dimentichiamo che il barocco romano ha come preludio la trasformazione
urbanistica, quindi economica e sociale, della città di Roma, realizzata sotto il pontificato di Sisto V
(1585-1590). I pellegrini che frequentavano la città santa erano allora particolarmente impacciati dallo stato
delle strade che portavano alle chiese e alle basiliche principali sparse fuori dal centro urbano. Per facilitare la
circolazione dei pellegrini come anche quella dei rifornimenti e delle merci, il penultimo papa del XVI secolo aveva
deciso di tracciare delle grandi strade sugli assi radiali che univano Santa Maria Maggiore, Trinità dei
Monti, San Lorenzo fuori le Mura, Santa Croce di Gerusalemme con la basilica del Laterano. Questo sistema sistiniano
formerà fino al 1870 l'ossatura fondamentale della rete viaria romana. Non può stupire che intorno a
questo piano regolatore, come si direbbe oggi, e in un contesto economico favorevole, si siano sviluppati palazzi e
chiese lungo le nuove vie.
Bisogna inoltre segnalare che, rispetto all'arte della Controriforma e, sotto un certo aspetto, in
reazione ad essa, quest'epoca era portata a quella che il padre Régamey chiama “una esasperazione della
plasticità”.
“Verso il 1630 da settant'anni l'architettura e la scultura erano di una correttezza nobile, ma molto noiosa e
per lo più mediocre. Gli architetti avevano riciclato sempre le stesse formule nella chiesa del Gesù, a
San Luigi dei Francesi, a Sant'Andrea della Valle, a San Carlo in Corso e in tante altre chiese di quest'epoca priva
di genio, ma feconda in opere. Era proprio necessario continuare ad utilizzarle? Qualsiasi architetto dotato di
sensibilità provava senz'altro nei loro riguardi una certa impazienza. Ah! Mandarle in frantumi, farle
danzare, contorcerle, fare qualsiasi cosa, ma dopo tre quarti di secolo di regime troppo savio, talvolta fiacco,
talvolta teso, creare di nuovo, di nuovo far nascere la poesia!” [8] .
Un'epoca culturalmente e dogmaticamente omogenea, anche se al prezzo della divisione della cristianità; un
potere papale forte e ricco; un desiderio giovanile di creazione: ecco i fattori che permettono di cogliere la
nascita del barocco romano.
Aggiungiamo che la vita di quest'arte è breve. Sisto V ha tracciato il quadro generale ma è solo sotto
Paolo V Borghese (1605-1621) che fiorisce la gioventù del barocco. Questo periodo terminerà con la
morte di Alessandro VII Chigi (1655-1667), quando muoiono pure Borromini (1667) e Pietro da Cortona (1669); il
Bernini stesso smette di produrre per l'architettura e il centro del pensiero barocco si trasferisce col Guarini a
Torino.
Tra queste due date, ad eccezione del breve pontificato di Gregorio XV (1621-1623), i cui meriti principali furono
di creare la Congregazione De Propaganda Fide (1621) e di conferire il titolo di cavaliere al Bernini, si situano
solo tre pontificati: quello di Urbano VIII Barberini (1623-1644), caratterizzato dall'influenza preponderante del
Bernini, quello di Innocenzo X Pamphili (1644-1655), durante il quale predomina Borromini, e quello dello stesso
Alessandro VII (1655-1667), nel corso del quale, dopo una breve eclissi, si riafferma la preponderanza del cavalier
Bernini. Oltre questa data, coi pontificati di Clemente IX (1667-1669), e di Clemente X (1670-1676), secondo gli
storici dell'arte, la sorgente creatrice sembra inaridirsi.
Il XVIII secolo (Settecento) rappresenta un'epoca del tutto diversa.
“L'era delle scoperte è finita. La politica vaticana vacilla e i sovrani cattolici la ritengono sempre
più trascurabile. Roma rimane una capitale agli occhi del mondo civile, ma è la capitale di un impero
morto: i papi esercitano con devozione crescente le funzioni di conservatori delle antichità. Le scoperte
decisive di quel tempo sono rappresentate dagli scavi. Nel 1763, quando Clemente XIII nomina Winckelmann direttore
generale delle antichità romane, il passato sembra aver riconquistato la città di Borromini”
[9] .
Per non essere ingiusti occorre ricordare che Benedetto XIII (1724-1730) e Clemente XII (1730-1740) hanno completato
la Roma barocca, permettendo a certi architetti di sviluppare il loro genio al servizio di una fine di stagione
romana. A quest'epoca risalgono la piazza Sant'Ignazio (Raguzzini, 1727), la fontana di Trevi (Salvi, 1732-1762) e la
facciata della Maddalena (Sardi, 1735). Gli ultimi pontificati del secolo precedente, invece, quelli di Innocenzo XI,
Alessandro VIII e Innocenzo XII, contrassegnati da una certa austerità economica, non avevano permesso
all'arte barocca di far risplendere gli ultimi bagliori nella loro città. L'ispirazione si era spostata, con
Guarini, a Torino, con Longhena a Venezia e, dopo la morte di Bernini (1680), a Modena, Firenze, Parma, Genova,
Napoli e Palermo. Roma però non è più il luogo della creazione barocca, ad eccezione del
soffitto di Sant'Ignazio di Andrea Pozzo (1691-1694) e qualche opera di Fontana o di Pozzi. Questo periodo, pur nella
sua brevità, ha saputo manifestare sul piano artistico un certo tipo di umanesimo spirituale molto
caratteristico.
Benché questa presentazione possa dare l'impressione di essere semplicistica o arbitraria, io riunirei volentieri intorno a quattro temi essenziali l'umanesimo spirituale di cui il barocco romano si fa interprete: l'illustrazione del dogma, il sostegno alla devozione, il senso dell'universalità e della missione e infine la passione per la vita e per la festa.
Come si è detto sopra questa epoca crede, a torto o a ragione, di aver realizzato una
sintesi della civiltà e della fede e costruisce un nuovo stile di cristianesimo, anche a scapito
dell'unità con l'Oriente e a costo della frattura della Riforma protestante. Si sta in famiglia, tra
benpensanti, tra cristiani che credono, sentono e parlano in modo identico.
L'eucarestia, per esempio, nella sua forma cattolica, al riparo dalle controversie luterane o riformate, trova un
posto d'onore nell'architettura religiosa romana. Pensiamo, sul piano decorativo, alle numerose cappelle del
Santissimo Sacramento nelle chiese romane e in particolare a tutta l'opera del Bernini in San Pietro. E' Bernini che
dedica numerosi mosaici all'illustrazione di elementi dottrinali nelle varie piccole cupole delle cappelle laterali.
E' lui che decora la cappella del Santissimo Sacramento non solo col tabernacolo che evoca il tempietto di Bramente,
ma anche con numerosi simboli eucaristici. Notiamo tra l'altro che la decorazione della cappella del Santissimo
Sacramento, ricordando i simboli veterotestamentari dell'eucarestia forniti da Melchisedech, Elia, Aronne e altri
personaggi, ha come scopo di rammentare ai cattolici romani che i protestanti non sono i soli a possedere e a
conoscere la Bibbia. Il “Baldacchino”, del resto, non è altro che la trasposizione in forma di
decorazione architettonica, del baldacchino mobile delle processioni eucaristiche.
Ma in San Pietro bisogna anche volgere lo sguardo verso il fondo dell'abside per realizzare a che punto la celebre
Gloria edificata tra il 1656 e il 1666 contiene un simbolismo eucaristico. Eravamo abituati, fino a tempi recenti, al
fatto che questo ovale circondato da raggi d'oro simile alla cornice di un gigantesco ritratto, servisse a
sottolineare nel fasto delle canonizzazioni l'entrata in paradiso di un nuovo beato o di un nuovo santo. Ma la Gloria
di San Pietro basta a se stessa e il suo ovale può rimanere vuoto come la Shekinah al di sopra dell'Arca
dell'Alleanza (Esodo 25, 22). Questa superficie misteriosa altro non è che un ostensorio che manifesta la
presenza del Signore nell'eucarestia, presenza risplendente e onorata da un culto di adorazione.
Contemporaneamente la Gloria del Bernini illustra il magistero e il primato pontificio. I raggi scaturiti
dall'ostensorio ovale simboleggiano l'assistenza divina al magistero pontificio, simboleggiato a sua volta dalla
cattedra così illuminata. Assistenza che si riferisce, nello spirito dell'artista non solo al magistero ma
anche al primato politico e temporale: si parla della “cattedra” di San Pietro, ricca di simbolismo di
parole e di insegnamenti, ma non si deve dimenticare che questa sedia trionfale dà valore ad un trono seggio
episcopale antico, simbolo dell'autorità del vescovo di Roma, autorità non solo locale ma
altresì universale. Infatti questo trono glorioso è portato da quattro personaggi, due dottori della
Chiesa latina e due dottori della Chiesa greca.
Si potrebbe dire che Bernini ha creato qualcosa di ricco e non di religioso... L'artista ha fatto ciò che
poteva fare in un tempo in cui il trionfalismo costituiva per la Chiesa di Roma il modo normale di essere serva e
povera. Così si è mostrato fedele all'espressione religiosa dell'epoca.
“Se Bernini non è stato personalmente un mistico, ha però avuto una profonda comprensione di
ciò che poteva essere il misticismo... E' stato certamente un buon cristiano, ma ci sono varie dimore nella
casa di Dio. La sua non era una cella di penitenza. Ha amato ciò che era meraviglioso, ciò che era
magnifico. Meraviglia e magnificenza sono le qualità della sua cattedra di San Pietro” [10] .
Il culto della Vergine Maria, quello dei santi e soprattutto dei martiri, in questo secolo missionario, fornisce
molto spesso un altro tema all'iconografia barocca. Citiamo ancora il Bernini a San Pietro: nella cappella della
Santa Vergine, la cupola glorifica la madre di Dio inserita nel piano divino della salvezza, cioè concepita
anteriormente alla creazione del mondo, secondo il libro dei Proverbi 8,22-36.
La Trinità, solo punto del dogma sul quale cattolici e protestanti potrebbero incontrarsi senza bisogno di
accentuare le differenze, occupa anch'essa un posto speciale. E' stato detto che Borromini, nella pianta di Sant'Ivo
alla Sapienza, con un incastro di triangoli si è sforzato di illustrare il dogma di Dio in tre persone. Altri
critici, è vero, credono piuttosto di cogliervi il profilo di un'ape, figura araldica delle insegne del papa
Barberini...
Comunque i dogmi cattolici, quelli in cui la Chiesa romana riconosce la sua essenza, la sua identità e il suo
mistero sono sistematicamente presentati e illustrati da una forma d'arte che non sente la necessità di fare
ad altri cristiani alcuna concessione ecumenica.
“Più che spingere all'azione, alla penitenza, più che invitare
all'inquietudine dolorosa l'arte barocca fa alzare gli occhi al cielo, si specializza nella traduzione dell'estasi
(Sant'Ignazio nella chiesa del Gesù, Santa Teresa in Santa Maria della Vittoria, San Filippo Neri nella chiesa
nuova e in San Girolamo della Carità, ecc.). I santi antichi essi stessi, conosciuti per la loro esistenza
itinerante e i loro miracoli, sono presentati quasi sempre negli atteggiamenti dell'estasi (San Francesco,
Sant'Antonio, ecc.). Il metodo della rappresentazione visibile è usato per suggerire l'ineffabile, traspone la
pratica della devozione contemporanea verso le delizie del puro amore” [11] .
Queste osservazioni non devono, tuttavia, far dimenticare che la devozione dell'epoca non ha il monopolio
dell'estasi e che si realizza più frequentemente nella forma modesta dell'orazione. Il XVII secolo dai tempi
di Sant'Ignazio si è dotato di un metodo di orazione mentale compiutamente spiegato e sviluppato negli
Esercizi spirituali. E' noto quanto questi esercizi diano grande importanza alla “disposizione dei
luoghi”: colui che prega deve sforzarsi di visualizzare la scena evangelica alla quale si riferisce. L'arte
barocca si sforzerà dunque di fornire alla meditazione ignaziana gli elementi dello scenario e i dati
d'immaginazione che essa richiede.
Non è per caso che le chiese più tipiche di questo stile, per esempio Sant'Andrea al Quirinale del
Bernini, sono chiese di dimensioni ridotte che utilizzano la forma raccolta dell'ovale trasversale, visibilmente
concepite non più come le chiese della parola, che erano, nel periodo precedente la chiesa del Gesù o
Sant'Ignazio, ma come degli oratori per la preghiera intima e la meditazione. D'altronde Sant'Andrea al Quirinale era
la cappella di un noviziato dei Gesuiti e San Carlo alle Quattro Fontane quella dei Trinitari. Per mezzo di
un'architettura che porta al silenzio e al raccoglimento si tratta dunque di educare la religiosità del fedele
ad uno sguardo interiore nel quale incontra Dio.
“Il prete che si prepara a celebrare i santi misteri, il cristiano che entra nel santuario devono provare solo
rispetto e timore. Non si ha voglia di chiacchierare in una chiesa dei gesuiti!” [12] .
L'umanesimo spirituale barocco sviluppa una terza dimensione: quella della missione universale che
ha come corollario un senso cosmico della chiesa. Nel 1621 Gregorio XV fonda la Congregazione De Propaganda Fide, per
la missione cattolica nel mondo. Il tempo delle grandi scoperte è passato e quello dell'universo finito
comincia. Le relazioni politiche commerciali e quindi anche missionarie con l'America, l'Africa, l'Asia e
specialmente la Cina e il Giappone sono d'ora innanzi saldamente stabilite.
Il cattolico romano sa che il centro di questo mondo cristiano è a Roma. Egli sa che la sua Chiesa,
depositaria della verità, deve portare questa verità a tutte le estremità del mondo. Gli artisti
illustrano questa convinzione. Si potrebbe costruire tutta una tipologia universalista a proposito della fontana dei
Quattro Fiumi opera, ancora una volta, del Bernini situata in mezzo a piazza Navona, scenario barocco per
eccellenza.
Questa fontana è orientata non secondo i quattro punti cardinali, ma secondo le quattro grandi direzioni
intermedie, nord-ovest, nord-est, sud-ovest, sud-est. Molto evidentemente simboleggia i quattro continenti, le
quattro parti del mondo conosciuto, dato che ciascun fiume che la compone scorre in una terra diversa; il Rio della
Plata in America, il Nilo in Africa, il Danubio in Europa e il Gange in Asia. La fontana dei Quattro Fiumi
rappresenta dunque la totalità del mondo geograficamente noto e al tempo stesso l'universalità della
Chiesa.
Ma questa universalità possiede un centro indicato dall'obelisco verticale, asse della fede al quale sono
sospese la tiara, le chiavi e lo stemma pontificio. L'obelisco di piazza Navona simboleggia il centro della
cristianità che irradia la sua azione missionaria come raggi in quattro direzioni. Credo che si debba andare
oltre: questi quattro fiumi evocano i quattro fiumi del Paradiso terrestre e quelli dell'Apocalisse. Riferiamoci ai
testi. In Genesi 2, 6-15, a dire il vero, non ci sono quattro fiumi. Un solo fiume usciva dall'Eden per innaffiare il
giardino e poi si divideva in quattro bracci: il Pishon che bagnava il paese di Avila, dove si trovavano l'oro e
l'onice, il Ghihon che altro non è che la sorgente dell'acqua di Gerusalemme; il Tigri a oriente di Assur e
infine l'Eufrate. Questi due ultimi sono il simbolo della fertilità in Mesopotamia. Vi è dunque un solo
fiume della fede, un solo fiume nato dal paradiso terrestre, che però si divide per bagnare la terra intera.
In Apocalisse 22, 1-2 la visione di San Giovanni è complementare: “L'Angelo mi mostrò il fiume
della Vita, limpido come cristallo che zampillava dal trono di Dio e dell'Agnello. In mezzo alla piazza della
città d'ambo i lati del fiume vi sono degli alberi della vita che danno dodici raccolti, uno ogni mese e le
loro foglie possono guarire i pagani”.
Accogliendo il contenuto di queste due visioni e proiettandole nella pietra, l'artista riesce a simboleggiare, in
una sola opera, l'unità e la diversità della Chiesa, il suo centro e la sua periferia, il suo principio
di stabilità e la sua dispersione missionaria, sottolineando che tutta la fertilità data dalla grazia
trova la sua ricchezza in un fiume unico che sembra avere la sua sorgente a Roma, centro del mondo, nuovo giardino
dell'Eden, figura della Gerusalemme celeste.
Lo sguardo missionario, universale si allarga anche al cosmo. L'artista barocco non limita mai il
suo punto di vista alla chiesa terrena per quanto forte e gloriosa possa essere. Egli coglie il legame fra la Chiesa
militante e la Chiesa trionfante e si compiace di sottolinearlo.
Troppi storici dell'arte sembrano aver creduto che a Roma le volte, le cupole e gli absidi sono aperti perché
il cielo dia l'impressione di entrare nella chiesa: “abolire la pesantezza della copertura con l'irruzione di
nubi e di raggi tra i quali volano degli angeli e salgono i beati” [13] . Essi danno come esempio la cupola di Sant'Andrea della Valle, l'abside di San Carlo ai
Catinari, l'abside e la cupola della Chiesa Nuova, tutto l'insieme della chiesa del Gesù e beninteso la
celebre volta di Sant'Ignazio decorata con una apoteosi del Fondatore.
Eppure in tutte queste opere il cielo non invade la chiesa: “L'effetto è assolutamente opposto. E' la
chiesa la cui volta sembra aprirsi per permettere di vedere al di là il paradiso che non scende verso di essa
ma rimane al di sopra. La differenza è capitale per gli occhi e ancor più per l'immaginazione del
cuore. Quest'arte che chiamiamo d'illusione non pretende di portarci via dalla terra. Rimaniamo proprio solidamente
sulla pietra del nostro suolo, al livello della nostra vita, in una celebrazione di questo mondo. La chiesa si apre
al di sopra delle nostre teste solo in pittura. E bisogna collocarsi ad un certo punto preciso del suolo
perché questa evocazione non si capovolga in falsità del tutto intollerabile” [14] .
Certi critici hanno così potuto sostenere che il barocco, invece di essere un'arte di illusione, era un'arte
incarnata nel reale. Non vogliamo qui introdurci in questa controversia: ma riconosciamo almeno che l'illustrazione
del dogma non trascura il legame presente e futuro tra la chiesa della terra e il suo compimento nel cielo per una
vita nuova.
L'umanesimo del periodo barocco accorda un largo posta alla vita e alla festa. Sviluppando questo
tema si rischierebbe di varcare i limiti che ci siamo imposti e di avventurarsi nel barocco profano e nella vita
quotidiana del popolo romano. Tuttavia non si può passare sotto silenzio il fatto che l'arte sacra di
quest'epoca è interamente immersa in un clima brillante, pieno di voglia di vivere e di esuberanza
cangiante.
La piazza Navona, ricordata più sopra, costituisce frequentemente la cornice di feste liete per le quali
scenari di legno, di stoffe dipinte e di cartapesta impreziosiscono lo scenario architettonico primitivo. Si aggiunge
barocco a barocco. In questo vecchio circo di Domiziano divenuto elegante teatro si sistema, per breve tempo, lo
scenario di un teatro nuovo.
La Chiesa del XVII secolo non si sottrae all'incantesimo del colore e della festa: essa moltiplica queste cerimonie
dal nome così ben indovinato di “pompe funebri”. Gli esercizi spirituali della quaresima, la
predicazione pubblica, le processioni popolari sono tutte occasioni di regie sofisticate che utilizzano tutte le
risorse del movimento e dello scenario. Il lessico dell'epoca non esita a parlare del “Teatro” delle
Quaranta ore, per indicare una devozione eucaristica. Se i prìncipi e gli ambasciatori entrano a Roma passando
in mezzo a costruzioni di cartone e di tessuto, agli automi e agli scenari mobili, perché la Chiesa non
dovrebbe celebrare l'incessante passaggio di Dio in mezzo al suo popolo facendo appello alle stesse tecniche? Queste
ultime riflessioni ci conducono verso altri problemi: chi sono gli uomini dell'epoca barocca e quali tecniche, quali
procedimenti mettono in pratica al servizio delle loro convinzioni culturali e spirituali?
Prima di esporre il loro metodo di lavoro e le tecniche che applicano, dobbiamo riconoscere che,
limitandoci a presentare i personaggi di Bernini e Borromini, siamo coscienti di commettere una certa ingiustizia
riguardo a tutti gli altri e specialmente a Pietro da Cortona (1596-1669).
A quest'ultimo, infatti, dobbiamo la chiesa di San Luca e Santa Martina ai Fori (1635), la facciata e il porticato
di Santa Maria della Pace (1655) e la chiesa di Santa Maria in via Lata, tutte opere che non sono di secondaria
importanza. Salutiamo in lui anche il decoratore della Chiesa Nuova e del palazzo Barberini, lo specialista dei
contorni morbidi e dei dettagli raffinati.
Ma i due uomini che non possono essere dissociati né per il loro genio, né a causa della loro
rivalità, né per la loro gloria, i due artisti che nel XVII secolo hanno modellato il volto di Roma, i
due maestri per i quali è difficile esprimere una preferenza senza correre il rischio di denigrare l'altro,
sono certamente Borromini e Bernini.
I loro destini sono così strettamente legati tra di loro e alla città di Roma che ci affascina l'idea
di spingere il parallelo tra quello che hanno di comune e tutto ciò che li separa fin nei minimi dettagli.
Ciò che hanno in comune è prima di tutto la loro età. Di due anni più giovani di Pietro
da Cortona, Bernini e Borromini sono quasi coetanei, il primo essendo nato alla fine del 1598 e il secondo nel mese
di settembre del 1599. Ambedue smettono di lavorare per l'architettura nello stesso anno: il 1667 vede
simultaneamente la morte di Borromini e del papa Alessandro VII; Pietro da Cortona muore due anni più tardi e
Bernini da quel momento non lavora più nel campo dell'architettura, dedicandosi essenzialmente alla scultura e
più tardi, negli ultimissimi anni della sua vita, all'incisione.
Tutti e due sono ugualmente stranieri a Roma. Il Bernini è originario di Firenze, ma lavorava a Napoli quando
il papa lo chiamò alla sua corte; il Borromini, nato sulle sponde di un lago del Ticino è un uomo del
nord estraneo anche lui alla capitale della Chiesa.
In comune hanno un grande genio decorativo, il successo della carriera, il numero delle commesse dalle quali sono
perpetuamente sommersi.
Tuttavia, che differenza fra i due uomini! Bernini ha trovato nella sua culla il futuro bastone da maresciallo.
Figlio di Piero Bernini lo scultore, è cresciuto in un clima familiare e professionale che risveglierà
e accrescerà i suoi doni naturali. A ventidue anni è già celebre. Borromini, per parte sua,
debutta come lavoratore manuale, membro delle squadre di muratori all'opera per la costruzione di San Pietro, solo
dopo i trent'anni potrà cominciare una carriera indipendente.
Bernini è un uomo felice, diverrà ricco e adulato con un numero incalcolabile di successi
professionali e sentimentali. Si trova a suo agio in un clima di libertà e di “grandeur”, lascia
trasparire nella sua scultura un naturalismo evidente, una virilità debordante, talvolta uno
“humour” licenzioso che è facile cogliere guardando i particolari delle basi dei pilastri che
sostengono il baldacchino di San Pietro... Attrae a sé allievi e discepoli che realizzano i suoi progetti,
completano le sue statue, prima di diventare anch'essi, talvolta, degli artisti di fama. Morirà dopo una
vecchiaia onorata e appagata, senza aver conosciuto la malattia. Borromini il solitario non si è mai liberato
da un carattere malinconico e depressivo, che gli procurerà incomprensioni numerose e tenaci. Tormentato,
teso, cerebrale, imprime ad ogni cosa una stupefacente complessità dando prova, talvolta, nelle sue
realizzazioni di una fragilità quasi femminea. Misantropo, nervoso, poco amato, Borromini non avrà mai
allievi e rincorrerà i suoi sogni tenebrosi fino alla depressione, per finire con un suicidio.
Perché dunque stupirsi che i committenti dei due artisti siano stati diversi? D'istinto Bernini è uomo
di corte e di gloria. Non ha mai smesso di lavorare per i grandi, i papi e i re, tra i quali l'ultimo è stato
Luigi XIV. Per la sua carriera si è appoggiato sui mecenati ai quali è legato, come il cardinale
Scipione Borghese e il cardinale Maffeo Barberini, il futuro Urbano VIII. Sa intrattenere e sviluppare relazioni
lusinghiere, è un abile cortigiano e non sembra eccessivo definire “disgrazia” il periodo in cui
ha dovuto tenersi in disparte sotto Innocenzo X Pamphili. Quest'ultimo, amico degli spagnoli, non apprezza che
Bernini si sia legato al partito dei francesi. Fin dalla sua giovinezza, sotto Gregorio XV, l'artista è
riuscito a farsi attribuire dei titoli nobiliari, il suo gusto del fasto e della magnificenza vincolano il suo
destino a quello della basilica di San Pietro.
Borromini, solitario e modesto, senza dubbio più mistico, non ha mai perso le sue reazioni di figlio di un
popolo semplice e povero. Non è per i grandi di questo mondo che lavora. I suoi committenti sono normalmente
monaci, parrocchie o congregazioni religiose. Per questa clientela meno ricca dei papi e dei re egli non costruisce
palazzi o chiese di vaste dimensioni, ma piuttosto oratori modesti, cappelle dalle proporzioni ridotte, luoghi di
meditazione e silenzio. La sua ispirazione accorda una larga parte all'interiorità e alla ricerca spirituale.
Non crea progetti grandi o trionfali, ma lavora con finezza, virtuosità di invenzione, con mezzi spesso
più semplici di quelli del suo rivale.
Il Bernini opera su grandi masse; il colonnato di San Pietro rappresenta il tipo più compiuto del suo estro.
Egli utilizza come decorazioni marmi pesanti e policromi che applica su costruzioni concepite prima di queste
decorazioni. Borromini, molto spesso, utilizza il movimento stesso delle linee architettoniche, giocando con le curve
e le controcurve, gonfiando o facendo rientrare i muri, come per la facciata del palazzo di Propaganda Fide, salvo,
in seguito, a utilizzare abbondantemente gli stucchi al posto del marmo.
Un parallelo più spinto in ogni dettaglio sarebbe appassionante, ma richiederebbe delle analisi tecniche
laborate e una conoscenza approfondita della biografia dei due uomini. Accontentiamoci dunque di mettere in luce a
grandi tratti la loro affinità e il loro contrasto e di collegarli con la caratteristica che è loro
comune: una fede vera e sincera. Questi due artisti non erano dei santi, infatti gli aneddoti sulla loro
rivalità professionale e i mezzi poco scrupolosi usati per eclissare il rivale sono numerosi. Eppure a quelli
che pensano troppo facilmente che l'arte barocca è puro teatro, che mettono in dubbio la sincerità
cristiana dei suoi autori, si dovrebbe ricordare che questi maestri del barocco possedevano una cultura religiosa,
una conoscenza della Bibbia e dei temi biblici, un senso della dottrina e del dogma romano che sembrano reali e
incontestabili. Troppi ignorano, per esempio, che Bernini faceva la comunione due volte per settimana e seguiva ogni
anno gli esercizi spirituali di Sant'Ignazio. Le ultime produzioni della sua vecchiaia saranno delle incisioni di un
misticismo vibrante ispirato dai consigli e dai sermoni del suoi direttore spirituale. Non bisogna parlare troppo
facilmente del paganesimo e della mondanità dei grandi maestri del barocco romano anche se lo studio e la
conoscenza dei loro metodi di lavoro costringono a sfumare ogni giudizio di insieme su questa forma d'arte.
Le tre formule di Maury e Percheron sono quelle che riassumono meglio le convinzioni fondamentali degli architetti romani. Mi limiterò perciò a ricordarle rapidamente perché sono conosciute da tutti: volontà di movimento, passione per il colore, invito all'illusione.
Se l'arte del Rinascimento e più ancora quella della Controriforma si ispirano alla quiete,
al riposo e alla maestà – oh solennità triste di San Luigi dei Francesi! – il modo di
procedere del barocco romano può riallacciarsi a questa riflessione del Bernini: “L'uomo non mi sembra
vero che nel movimento!”.
Lui stesso illustra questa convinzione fin dalla gioventù, con una scultura che “rifugge
dall'immobilità e persegue l'istante” [15] . Davide
(Villa Borghese) è colto al momento in cui compaiono rughe sul suo volto per lo sforzo di far volteggiare la
sua fionda. Il corpo di Dafne che Apollo insegue non è fissato nel pieno della corsa, il che sarebbe
già un movimento, ma nell'istante preciso in cui subisce la metamorfosi, cessando di essere una giovane che
fugge senza essere ancora del tutto un cespuglio di alloro agitato dal vento. Proserpina portata agli Inferi si volge
un'ultima volta verso il mondo dei viventi. Più tardi, l'estasi di Santa Teresa come anche della beata
Albertoni tradurranno per mezzo del disordine dei drappi e dei visi i moti interiori del cuore e dell'amore,
foss'anche spirituale, cosa di cui alcuni hanno dubitato. Si trovano gli stessi effetti di drappeggio e di
atteggiamenti, di gesti provocanti nei personaggi o negli scheletri che ornano le tombe di Urbano VIII e Alessandro
VII. Bisogna cogliere la vita anche nella morte. Questa presa di posizione si trova anche in architettura. Alle
piante rettangolari o a croce del periodo precedente, l'architettura barocca preferisce la rotonda o l'ellissi,
soprattutto per le chiese di dimensioni modeste (Bernini: Sant'Andrea al Quirinale e le due piccole chiese all'inizio
del Corso, Santa Maria dei Miracoli e Santa Maria in Montesanto; Borromini: Sant'Agnese in Agone e San Carlo alle
quattro fontane). L'atrio antico o il peristilio rinascimentale diventano il doppio colonnato della piazza di San
Pietro. Le linee orizzontali o verticali delle facciate classiche sono reinterpretate in tracciati concavi e convessi
(Borromini: la concavità della chiesa di Sant'Agnese in Agone e Pietro da Cortona: la convessità del
portico di Santa Maria della Pace). Non esiste una sola linea retta nei frontoni, il cui triangolo è
arrotondato, rotto, spezzato, incompiuto con una crescente diversità di varianti. Sempre al servizio del
movimento si ricorre alla colonna tortile (baldacchino di San Pietro) o agli assi obliqui che danno un ritmo
particolare alla composizione delle ancone e delle pale d'altare.
Il barocco è una “architettura di pittori” [16] . Nelle facciate gli stacchi e gli sbalzi, l'uso delle colonne creando delle zone d'ombra e di luce mirano a colorare il movimento stesso, a fargli cogliere e trattenere, in modo diverso secondo le ore, tutte le qualità della luce di Roma. All'interno, i marmi policromi, l'uso prodigo degli ori e il biancore degli stucchi permettono di dare libero corso alla fantasia del colorista. Perfino la scultura è pittorica in questi quadri di marmo composti come una tela con sfondi e paesaggi al di là dei personaggi principali (il “Noli me tangere” dei Santi Domenico e Sisto di un allievo del Bernini).
Quest'ultimo carattere è poco compreso e si presta a tutti gli equivoci. Si crede
facilmente che traduca la leggerezza, l'ambiguità, la mancanza di rispetto per la verità – che
è accettazione del reale – di un'epoca superficiale e frivola. Si tratta invece di un gioco, o di un
richiamo alla festa, di un esercizio di virtuosismo o di una necessità tecnica. L'uso del
“trompe-l'oeil” si giustifica completamente, in architettura, per disporre plasticamente uno spazio,
perché è troppo piccolo o al contrario troppo grande. Michelangelo l'aveva usato per ingrandire la
piazza del Campidoglio. Borromini, per gioco, allunga smisuratamente il breve corridoio del palazzo Spada, mentre
Bernini accorcia, con procedimenti inversi, la fuga troppo lunga della Scala Regia in Vaticano. La piazza di San
Pietro sembra più lunga grazie al pendio che sale verso il portico, e più larga a causa dello spazio
ellittico sottolineato dal colonnato.
In pittura, è vero, l'illusione sconfina talvolta nella truffa... Pozzo raddoppia con poca spesa l'altezza di
Sant'Ignazio per mezzo della sua sapiente apoteosi, capolavoro di prospettiva di un gesuita professore di matematica.
In questa prospettiva le colonne dipinte possono appena distinguersi dai pilastri veri. Si tratta di un procedimento,
ma rileviamo subito che il procedimento è valido perché rimane legato ad una necessità che
possiede un fondamento vero. Esso diventa falso e affonda nell'eccesso se il legame con la verità sparisce.
Per esempio, il baldacchino di San Pietro stabilisce una giusta proporzione tra una cupola smisurata e le dimensioni
umane di un altare liturgico. Se si trasferisce la sua forma e le sue proporzioni nell'abside e non nel transetto
(cattedrale di Foligno), o peggio ancora in una chiesa che non possiede neppure una cupola (chiesa di San Lorenzo di
Spello), il ridicolo risalta evidente davanti all'uso di un procedimento che non risponde più al bisogno reale
di un effetto, di una necessità veramente costringente.
Come ogni forma di arte vivente, l'arte barocca si è trovata legata ad una certa
espressione del messaggio cristiano, in armonia profonda con la sensibilità di un'epoca. E' legata alla
maestà delle monarchie assolute sia pontificie che profane, ad una aristocrazia che si è espressa per
mezzo suo e che la finanziava col suo mecenatismo, ad un tipo di civiltà che ha bisogno di lusso, di fantasia,
di ori e di luce, di teatro e di festa. Finché questa armonia è durata, il suo spirito è stato
compreso, perché era l'espressione di un certo ordine religioso, sociale e politico. Quando questo ordine si
è indebolito, si capisce che un'arte che ne era l'emanazione abbia smesso di parlare al cuore.
“Non potendo simpatizzare con l'ideale che aveva incarnato, col mondo di cui era l'espressione formale, gli
uomini di alcune generazioni l'hanno respinta tra i sistemi che rifiutavano e vi hanno visto solo smorfie,
contorsioni e finzione” [17] .
Aggiungiamo che la sensibilità religiosa evolve come tutte le altre forme di sensibilità. E' dunque
normale che un'epoca non si trovi a suo agio nelle forme di espressione usate da un'altra epoca. Sarebbe però
ingiusto e anacronistico – l'anacronismo è la forma storica dell'ingiustizia – di rifiutare di
credere che quest'arte ha realmente espresso la verità di una certa epoca e il contenuto di una certa fede.
Sarebbe ancora più erroneo credere che quest'arte ha ingannato gli uomini del suo tempo: non ha potuto nascere
e svilupparsi che grazie alle loro convinzioni, alle loro certezze e alle loro speranze.
“Com'è possibile essere persiano?” Alcuni sono liberi di non riuscire ad amare il barocco o di
non sentire che è stato l'espressione di una fede. Impossibile, però, non riconoscere che quest'arte
procede da una verità e vuole servire questa verità con tutte le risorse di una tecnica brillante, di
una evidente sincerità e di una fede solida quanto quella delle epoche che l'hanno preceduta come di quelle
che l'hanno seguita.
Per altri articoli e studi sui rapporti tra arte e fede presenti su questo sito, vedi la pagina Arte nella sezione Percorsi tematici
[Nota 1] J.Maury e R.Percheron, Itinéraires romains, p.478.
[Nota 2] Queste citazioni sono prese da V.-L.Tapié, Le Baroque, P.U.F., 1968, pp.6-7, che fornisce numerosi altri esempi.
[Nota 3] P.Roques, Signification du baroque, in "La Maison-Dieu" 26 (1951), pp.125-142.
[Nota 4] J.Maury e R.Percheron, op. cit., p.487.
[Nota 5] Chirrigueresco, da Giuseppe Chirriguera, architetto e scultore (Madrid, 1665-1725).
[Nota 6] P.Charpentrat, L'art baroque, pp.1-2.
[Nota 7] Ibid., p.7.
[Nota 8] P.-R.Régamey, Portrait spirituel du chrétien, Paris, Cerf, 1963, p.384.
[Nota 9] P.Charpentrat, op.cit., p.86.
[Nota 10] V.-L.Tapié, Baroque et classicisme, Plon, 1957, p.111.
[Nota 11] J.Maury e R.Percheron, op. cit., p.483.
[Nota 12] J.Puyo, in Deux mille ans de christianisme, t.V, p.61.
[Nota 13] J.Maury e R.Percheron, op. cit., p. 481.
[Nota 14] P.-R.Régamey, op. cit., p. 391.
[Nota 15] J.Maury e R.Percheron, op. cit., p. 497.
[Nota 16] P.-R.Régamey, op. cit., p. 390.
[Nota 17] V.-L.Tapié, Baroque et classicisme, Paris, Plon, 1957, p.329.