J.R.R.Tolkien e Il signore degli anelli (tpfs*)
Un'intervista a Th.Howard ed un articolo di Franco Cardini, ripresi dal web


Thomas Howard ha insegnato Letteratura inglese al St.John's Seminary di Brighton in Massachusetts fino al 1998. Convertitosi dal protestantesimo evangelico, Howard è autore di un libro famoso: Evangelical is not enough. Fu amico di C.S, Lewis ed esperto dell'opera di Charles Williams, entrambi, insieme a Tolkien, membri del circolo degli Inklings. Thomas Howard ha recentemente tenuto un corso su Il Signore degli Anelli all'International Theological Institute di Gaming (Austria). Quando Von Balthasar visitò gli Stati Uniti per la prima volta volle conoscere Howard, autore del libro The novels of Charles Williams (New York, Oxford University Press, 1983).

Innanzitutto, ha senso parlare de Il Signore degli Anelli come di un "capolavoro cattolico", o, dopo i tentativi di appropriarsene fatti da destra e da sinistra, non si rischia, per così dire, di battezzare quella che è principalmente una (bellissima) favola?

A un livello superficiale così come a un livello più profondo, siamo autorizzati a parlare de Il Signore degli Anelli come di un "capolavoro cattolico". Chi ce ne da il diritto è lo stesso Tolkien, che ha detto che non avrebbe mai potuto scrivere la saga se non fosse stato cattolico. Inoltre egli ha individuato, in molti elementi della narrazione, una specifica analogia con categorie cattoliche (in una conversazione con Clyde Kilby disse che riteneva Gandalf un angelo). A un livello più profondo, naturalmente, scopriamo che l'intera struttura della Terra di Mezzo è assolutamente comprensibile per qualsiasi serio cattolico. Per esempio, il bene e il male, così come vengono intesi dalla Chiesa, nella Terra di Mezzo non sono diversi da come noi ne facciamo esperienza. Il male è parassitico, e non ha altra funzione che quella di distruggere la buona solidità e bellezza che caratterizza la creazione. Gollum è un esempio significativo: in origine creatura molto simile agli Hobbit, il male lo ha poi ridotto a un sibilante, ringhioso, inaridito frammento di quello che è un Hobbit. Lo stesso vale per il paesaggio di Mordor: il male ha distrutto tutto ciò che era meraviglioso e fertile, e vi ha lasciato solo cumuli di cenere e fango.
Anche la sofferenza subita "in vece di qualcun altro" è di fondamentale importanza nella saga, come lo è per il cattolicesimo: la Compagnia dell'Anello sopporta ciò che sopporta per amore della salvezza del mondo, per così dire. Questo preannuncia ciò che è centrale per la nostra storia, ossia le sofferenze di Nostro Signore, e quelle dei santi, a favore dell'umanità peccatrice. Un avvertimento: Tolkien ha sempre dimostrato un'antipatia verso l'allegoria (riteneva che Narnia di Lewis fosse troppo allegorica), cosicché di fatto c'è il rischio di "battezzare" tutto con eccessivo zelo. Frodo non è Cristo, e nemmeno lo è Aragorn (lo sconosciuto, ma legittimo re che sta per tornare). Galadriel, per quanto pura e amabile possa essere, non è un'allegoria della Madonna. Ma, alla fine, possiamo con l'approvazione di Tolkien parlare della saga come di un capolavoro cattolico. Un post scriptum potrebbe essere l'osservazione che nessun protestante avrebbe plausibilmente potuto scrivere questa saga, poiché essa è profondamente "sacramentale". Ossia: si raggiunge la salvezza solo attraverso mezzi concreti, fisici (l'Incarnazione, il Golgotha, la Resurrezione e l'Ascensione); e la storia di Tolkien è disseminata di "sacramentali" (il lembas, il viatico degli Elfi, dall'originario lennmbass, "pane da viaggio"; la fiala di luce di Galadriel; il mithril, in elfico è l'argento di Moria, il vero argento; Vathelas, la foglia di re, erba risanatrice così chiamata dagli Elfi).

Più che la comunicazione di un messaggio nascosto, il pregio principale del libro sembra quello di essere una grande allegoria della vita. Come dice C.S. Lewis, «nessun altro mondo è così palesemente oggettivo» come quello creato da Tolkien: gli uomini sono uomini in modo più vero, gli amici più amici di quanto spesso sperimentiamo ogni giorno. Insomma: la realtà in trasparenza. Come è possibile che un mondo fantastico ci avvicini alla natura delle cose?

Ripeto, la parola allegoria non piacerebbe a Tolkien. Gradirebbe molto di più il termine analogia. Personaggi, luoghi e oggetti della sua saga non sono simboli o allegorie o altro. Sono ciò che sono, in primo luogo. Ma si può anche dire che sono "casi esemplari" di questa o quell'altra cosa di cui noi facciamo esperienza nel nostro mondo "primario". Ancora: Gollum non è simbolo di un'anima che si muove velocemente verso la dannazione finale: è un esempio significativo, riconoscibile dal nostro mondo, di ciò che effettivamente il male fa a una creatura. L'unica differenza fra i due mondi è che nella Terra di Mezzo riusciamo a cogliere la differenza, mentre nel nostro mondo uno può «sorridere e sorridere, ed essere un malvagio» (Otello). Il modo in cui questo mondo "fantastico", paradossalmente, ci avvicina alla vera natura delle cose del nostro mondo (mentre a un osservatore superficiale tale fantasia potrebbe sembrare la più imperturbata evasione dalla realtà) è che questo genere di narrazione ci da distanza e prospettiva. Ci coglie di sorpresa quando la nostra guardia è abbassata. Una volta ho chiesto a Lewis perché la Passione di Aslan (episodio di Cronache di Narnia; ndr) mi commuovesse più del racconto della crocifissione, quando sapevo perfettamente che Aslan è "solo" una fantasia. Lewis mi ha risposto che quando io leggo il Vangelo, tutte le mie aspettative "religiose" sono in fremente attesa («Io DOVREI reagire in un certo modo, ossia essere grato e probabilmente addolorato»); invece dalla Passione di Aslan vengo colto alla sprovvista, e dunque può accadere che ne venga sopraffatto. Allo stesso modo ci accorgiamo, con nostra sorpresa, che le stesse rocce, l'acqua, le foreste e i villaggi della Terra di Mezzo stimolano la nostra capacità di "vedere" le rocce, l'acqua e così via del nostro mondo. Quanti di noi hanno detto, durante una passeggiata in montagna, «Beh, qui è così bello da sembrare quasi la Terra di Mezzo!».

Lo stregone Gandalf è sicuramente una delle figure più affascinanti, oltre che sicuramente la più potente, tra quelle che militano per il bene nella Terra di Mezzo. In fondo è una divinità che ha assunto i limiti della forma umana, nella prima parte della trilogia muore (lottando con un essere demoniaco nelle viscere della terra) per poi risorgere purificato. Perché Gandalf sembra spendere le sue energie soprattutto affinché ciascuno si impegni liberamente nella lotta contro il male?

Gandalf impiega le sue titaniche energie in modo così disinteressato perché, per così dire, "così stanno le cose". Ossia, uno dei misteri della natura delle cose (nel nostro mondo come nella Terra di Mezzo) è che il bene deve essere scelto, non imposto. Tale libertà sembra essere una qualità peculiare del Bene. La coercizione non conduce mai, né gli uomini né gli Elfi, al bene. Gandalf questo lo sa. Dunque egli arriva fino a un certo punto. Non può agitare il suo bastone per allontanare l'Anello, e nemmeno può far sì che Saruman ritorni buono. Egli è servitore del Bene, non lo possiede. Si può anche far notare, in riferimento alla domanda, che non possiamo dire che Gandalf "muoia". Senza dubbio egli "scivola negli abissi" nel suo combattimento con il Balrog (creatura mostruosa e malvagia, letteralmente "demone di potere"). E in seguito, nel suo resoconto dell'episodio, egli fa riferimento per sommi capi a quell'esperienza. Ma Tolkien evita di dirci che Gandalf muore.

Frodo ha ricevuto l'Anello, spetta quindi a lui provvedere alla sua distruzione; Gandalf, che sarebbe certamente più qualificato, non cerca mai di sostituirsi a lui, ma lo esorta a portare a termine il suo compito, come anche gli altri membri della Compagnia dell'Anello. Nel tratto finale della salita alla Voragine del Fato, Frodo non è più in grado di proseguire e Sani, non potendo portare il "fardello" al posto suo neanche per pochi metri, si carica in spalla l'amico. Amicizia e compito: c'è un legame? E poi c'è la tenera amicizia che lega gli Hobbit. Che cosa è l'amicizia ne Il Signore degli Anelli!

Certamente l'amicizia ne Il Signore degli Anelli è affine a ciò cui Lewis si riferisce in The Four Loves (I quattro amori; ndr), all'interno della categoria phileo. È una delle manifestazioni dell'amore. Non ci potrebbe essere alcuna amicizia fra gli Orchi, o fra i Cavalieri Neri. Sauron odia i suoi servi. Ma il Bene dipende, per così dire, da questo legame disinteressato tra Frodo e Sam, o tra tutti i membri della Compagnia dell'Anello, poiché è una caratteristica della vera felicità (e deriva dal Bene) il fatto che noi «sopportiamo gli uni i pesi degli altri e così adempiamo la legge» di Cristo nella nostra storia e il Bene nella Terra di Mezzo. Vi è una duplice appropriatezza nel fatto che sia Frodo a dover essere il portatore dell'Anello: 1) questo fatto ingannerà Sauron, divertito solo all'idea che dei mezzi uomini possano intraprendere un compito tanto spaventoso; 2) Dio ha scelto ciò che è debole in questo mondo per confondere i forti (e potremmo tradurre tutto ciò in termini "tolkiani" senza troppe difficoltà). Lo stesso potere di Gandalf sarebbe pericoloso se fosse lui il portatore dell'Anello, e lui questo lo sa, così come ne sono consapevoli Galadriel ed Elrond. Gli Hobbit non sono, per natura, molto interessati al potere; per cui c'è un aspetto della loro natura che "coopera con" la grazia, o con ciò che vogliamo chiamare "grazia" nella saga.

Parliamo del film: uno dei tagli più rilevanti che Peter Jackson (il regista; ndr) ha operato nel film è quello che ha colpito il personaggio di Toni Bombadil, totalmente cancellato. Che cosa perde Il Signore degli Anelli senza questa sorta di uomo primigenio, senza peccato originale, e del suo sorprendente rapporto con la natura?

Il film perde molto eliminando la figura di Tom Bombadil. Ma, d'altra parte, Tom sfuggirebbe a tutti gli espedienti cinematografici, qualora il regista più geniale cercasse di mostrarcelo. Il risultato cinematografico sarebbe una triste parodia della pura e semplice gioia, della libertà e dell'allegria di Tom.
Ci sono delle qualità che si piegano solo ad alcune forme (puoi catturare certe emozioni solo quando il soprano raggiunge il la bemolle; si possono scorgere certi aspetti dell'ineffabile negli archi di Chartres e in nessun altro modo; certi aspetti del dolore si rivelano unicamente nella Pietà). Il cinema fallirebbe, forse qualsiasi modalità di rappresentazione visiva fallirebbe, nel rappresentare Tom Bombadil. Ciò che il film perde, senza dubbio, è proprio la splendida e gaia innocenza di Tom. Questo personaggio ha alcune qualità in comune con Adamo prima della caduta; per esempio, egli è il "Signore" della Vecchia Foresta, non ne è il proprietario. Tolkien riteneva che la sua storia avesse bisogno di una tale icona di pura e semplice e immacolata bontà, che fosse in forte contrasto con tutto il male presente in quella terra. Per quanto buoni siano Gandalf, Elrond, Galadriel e Balbalbero, per non parlare degli Hobbit, in Bombadil abbiamo una particolare epifania di pura bontà.

Boromir, Denethor, Saruman, Gollum sono alcuni esempi di personaggi in misura diversa corrotti dall'Anello. Il suo potere sembra agire su una predisposizione presente in tutti, Frodo compreso, pervertendo un desiderio dalla radice positiva. Qual è la tentazione dell'Anello?

L'Anello, nella Terra di Mezzo, dev'essere per certi aspetti analogo al "frutto" dell'Eden. La sua promessa è di renderti saggio e potente, di elevarti al di sopra della tua particolare condizione (nel Medioevo si direbbe la tua "classe") e fare di te un dio. Il bene che può esserci alla radice di questa vulnerabilità è la coscienza che qualsiasi creatura intelligente, che sia uno Hobbit, un uomo o un Elfo, ha della dignità della propria persona. Il problema è che questa coscienza si trasforma ben presto in "ambizione", secondo l'originario significato di "desiderare di scalare in modo illegittimo la scala gerarchica", manifestando quindi un malcontento per la posizione assegnatagli. «E meglio regnare negli inferi che servire in cielo», dice il Satana di Milton; e lo stesso dicono Sauron, Saruman e anche Gollum, sebbene l'immaginazione di quest'ultimo sembri essere miserabilmente insufficiente a una cosa tanto elevata come il potere. Semplicemente egli desidera il suo tesoro. Se Adamo vuole essere un dio. tragicamente perde la maestà che è propria dell'"uomo"; e presumibilmente, se un arcangelo è divorato dall'ambizione di essere un dominatore o un principe, allora è nei guai. Un arcangelo o uno Hobbit o un Vaia (letteralmente "i potenti", detti anche i Signori dell'Occidente; ndr) porta a compimento il proprio glorioso destino semplicemente essendo quello che è, così come un cane conserva la singolare eccellenza propria dei cani e non delle aquile.

Nel romanzo, l'elemento divino non partecipa mai all'azione e i riferimenti a esso sono oscuri per chi non ha letto Il Silmarillion; inoltre i personaggi non hanno atteggiamenti religiosi. Eppure i più saggi tra loro sono restii a condannare senza appello, perché tutti possono «avere una parte da recitare» prima della fine: il mondo sembra ordinato secondo un disegno. Cosa c'è oltre il mare, a occidente, e che importanza ha?

L'apparente assenza di un essere supremo che disponga le cose per il Bene è un fatto naturalmente sconcertante per molti lettori della Trilogia. "Dio" non interviene mai. I personaggi sembrano lasciati a se stessi, e fanno quello che possono contro il Male. Questa è una trovata geniale da parte di Tolkien. Nelle fiabe di solito c'è qualche talismano che sistema tutto. Nella Terra di Mezzo non ce ne sono. Questo perché il racconto di Tolkien è situato a un livello infinitamente più elevato e serio dei vostri abracadabra.
Quelle storie sono affascinanti: ma la storia di Tolkien è seria tanto quanto la nostra stessa storia. E uno degli aspetti sconcertanti della nostra storia è "il silenzio di Dio". La Compagnia dell'Anello (come i nostri santi) si arrabatta, fa del suo meglio con le sue proprie risorse, senza il lusso di qualche HocusPocus a portata di mano che possa disperdere i Cavalieri Neri o cacciare gli Orchi. E la nostra storia sembra essere spesso molto simile. Dov'è Dio? E i personaggi di Tolkien non sono "religiosi". Nessuno dice le sue preghiere (c'è un'occasione in cui Faramir e compagni fanno una pausa prima di mangiare; ma questo, penso, al massimo può essere paragonato al momento in cui noi ci prepariamo alla preghiera, a meno che il grido «O Elbereth! Gilthoniel!» non sia una preghiera). I lettori troveranno la seguente osservazione un po' stravagante, ma da convertito al cattolicesimo quale pure io sono, in tale inespressività dei personaggi, per ciò che riguarda la "fede", io vedo una caratteristica specificatamente cattolica. I cattolici di solito non chiacchierano della fede. I protestanti, specialmente gli evangelici, sono sconcertati da questo silenzio. Secondo loro i cattolici non sono credenti se non sono in grado di "balbettare" almeno qualche "prova" della loro fede. Ma Tolkien, cattolico fin dall'infanzia, non vorrebbe, anzi non potrebbe, far chiacchierare sempre i suoi personaggi di Dio, così come lui (Tolkien medesimo) non potrebbe mai partecipare a un incontro di testimonianze. I fugaci riferimenti all'Occidente, e l'immagine degli Elfi che «migrano, migrano, migrano» («passing, passing, passing») verso Occidente tingono di gloria l'intera narrazione. Non qui, non qui, sembra dire quella parola, è la tua dimora definitiva. Per quanto meravigliosi e attraenti possano essere luoghi come la Contea, Rivendell o Lothlorien, anch'essi non sono la patria definitiva della felicità. Tutto deve muoversi verso Occidente. Anche in questo caso vediamo come Tolkien abbia costruito la sua storia in modo tale che virtualmente essa non è così diversa dalla nostra, e acquista perciò una gravita altrimenti impossibile.

Che ruolo ha avuto Tolkien nella letteratura europea del Novecento e in particolare in quella cattolica?

Tolkien ha avuto un ruolo nel panorama letterario europeo, anzi mondiale, del ventesimo secolo che ha fatto infuriare i critici. Ha semplicemente ignorato l'intera tradizione narrativa che ha regnato sovrana dal diciottesimo seco lo, e cioè la tradizione del romanzo "realistico" e "psicologico". Egli è ritornato al più antico e nobile genere narrativo, ossia l'Epica. L'uomo cartesiano non ha le categorie necessarie per trattare con questo genere di cose, se non classificandole con superiorità "primitive" e "frivole". Per un cattolico, l'opera di Tolkien giunge come un fiume di limpida fresca acqua in una fetida e malsana palude, portando con sé tutte le glorie scomparse con l'avvento della modernità, come la maestosità, la solennità, l'ineffabilità, il timore reverenziale, la purezza, la santità, l'eroismo e la stessa gloria. Descartes e Hume avrebbero delle difficoltà a spiegare cos'è la gloria usando il loro vocabolario e i loro successori, tristi, non hanno la minima idea di ciò che è andato perduto. Tolkien forse ha reintrodotto i poveri figli della modernità alla Gloria.


La versione filmica de Il Signore degli Anelli è molto meno infedele al testo e allo spirito della grande saga tolkieniana di quanto si sarebbe potuto temere: rallegriamocene. Ma con prudenza: ché un conto sono le intenzioni del regista e del soggettista, un altro gli esiti che un qualunque film tratto da un'opera letteraria possono produrre negli spettatori. Le orde di uomini, donne, giovani e giovanissimi e bambini che in queste settimane hanno preso d'assalto le sale di proiezione di tutto l'Occidente sono solo in modestissima misura costituite di persone che hanno sul serio letto l'opera maggiore di Tolkien; fra essi, una minoranza infima è in grado di contestualizzarla all'interno degli altri libri tolkieniani che è necessario conoscere per entrare nello spirito di essa, vale a dire quanto meno Lo Hobbit e Il Silmarillion; e sono ben pochi, tra questi ultimi, quelli in grado di padroneggiare la problematica complessa che a queste opere presiede, il rapporto fra la fede cattolica di questo grande studioso inglese, nato da una madre presto convertitasi al cattolicesimo, e il suo impegno di filologo e di medievista e la sua fantasia mitopoietica.
Siamo perseguitati da parecchi decenni da una storia di genere kitsch che ci arriva dagli Stati Uniti d'America: improbabili e di solito abbastanza ributtanti mostracci e mostriciattoli, accompagnati dagli effetti speciali alla Steven Spielberg, si sono impadroniti del cinema imponendo un genere sado-maso-horror spesso accompagnato alla ricostruzione fantastica di saghe epiche ambientate in «universi paralleli». A questa già dubbia miscela si è aggiunto un ritorno alla fantasia magica, com'è attestato dal successo dei libri e del film dedicati ad Harry Potter. Ora, che cosa potranno capire i nuovi fans di Tolkien, quelli che ai suoi libri giungono dopo averne vista la versione cinematografica, e che, digiuni di autentici miti e di archetipi ben compresi, poco o niente sanno di saghe, di letteratura cavalleresca, e magari hanno attinto le «leggende del graal» attraverso le grottesche deformazioni d'una letteratura occultistica da tempo arrivata ormai nelle edicole e le ambigue affabulazioni del new age?
Natura serena e schiva ma tormentata da segrete inquietudini, John Ronald Reuel Tolkien - nato in Sudafrica nel 1892, residente in Inghilterra dall'età di tre anni circa, convertito al cattolicesimo con la madre nel 1900 - aveva cominciato a organizzare il suo mondo di «fiabe perdute» fin dal 1917, quando aveva 25 anni. Filologo e specialista di letteratura inglese medievale, docente a Oxford fin dal 1925, egli aveva partecipato all'eterogeneo cenacolo degli «Inklings», umanisti anti-modernisti, e aveva per lunghi anni accompagnato la crescita segreta del suo mondo di miti. Il Signore degli Anelli è in realtà una trilogia, pubblicata fra 1954 e 1955. Pochi anni dopo, con la nascita del movimento hippy, quello strano fluviale poema in prosa dove si parlava di maghi, di talismani e di avventure divenne una specie di Bibbia dell'esperienza esistenziale alternativa. Tolkien lo aveva detto con chiarezza: letteratura di «evasione» sì, ma nel senso di «evasione del prigioniero», cioè del prigioniero di guerra, che evade per tornare a combattere; non in quello di «fuga del disertore», che scappa per salvare la pelle e viene meno così facendo al suo dovere. Negli anni Sessanta-Settanta (Tolkien sarebbe morto, ottantunenne, nel 1973) il successo dello scrittore inglese raggiunse l'Europa: e lo si guardò come un fenomeno «di destra» appunto perché postulava l'«evasione del prigioniero», la scoperta di modelli e di prospettive di tipo alternativo rispetto al determinismo materialista e al «pensiero unico di tipo marxista che in quegli anni costituivano l'atmosfera che quasi uniformemente si respirava a livello intellettuale. Qualcuno, superficialmente, giudicando il mondo mitico di Tolkien e i suoi dèi, parlò di «neopaganesimo», suggerendo che si potesse trattare quasi di un esperimento di fantasia neonazista. Era una calunnia infame: Tolkien, che aveva orrore di Hitler, gli rimproverava anche questo, l'aver inquinato l'immagine dell'antica mitologia germanica piegandola alla sua perversa propaganda. Ma, dinanzi al conformismo di quegli anni, quella fuga nel mondo dei maghi e degli anelli incantati era salutare.
Da allora, troppa acqua è passata sotto i ponti. Il materialismo dialettico è scomparso, per lasciare il posto a un materialismo volgare fatto di consumismo e di corsa al profitto e al successo. Ma l'angoscia che nel mondo occidentale si è diffusa come contraccolpo di questo inaridirsi di prospettive ha generato, fra le altre cose, un «ritorno selvaggio del sacro» che a sua volta si è tradotto in infinite mistificazioni pseudoreligiose e neoreligiose cavalcate da sette e conventicole neo-orientali, neoceltiche o sedicenti tali. Dinanzi a questa confusione dove allignano perfino pennellate di ridicolo satanismo, dinanzi a questo balbettar di falsi e nuovi miti che scopre al tempo stesso l'incapacità di attingere correttamente al Sacro e di servirsi in modo ordinato della fantasia, ma anche il bisogno dell'uno e dell'altra, Tolkien va riletto non già lasciando spazio a un libero gioco fantastico che quasi nessuno sembra avere più gli strumenti per sostenere, bensì procedendo a una sua rigorosa rifilologizzazione.
Tale scelta ci conduce a sottolineare quel che, sotto l'aspetto della saga pagana c'è in Tolkien di profondamente cristiano, anzi cristiano-cattolico. Che cosa? Assolutamente tutto. E cominciamo pure dallo stile del Silmarillion, che parla di antichi dèi immaginari ma suggerisce una tematica profondamente e radicalmente monoteista e creazionista, ispirata direttamente allo stile biblico (nel 1960 Tolkien collaborò alla traduzione della «Bibbia di Gerusalemme» dal francese all'inglese). Per proseguire poi in un'analisi sul carattere cristico della figura di Aragorn come Sovrano del Secondo Ritorno, al pari di Artù - ma anche e soprattutto del Cristo - rex venturus; e su analogo carattere di quella di Frodo Baggins, il «portatore dell'Anello» che si carica del malvagio potere dell'oggetto terribile come il Cristo si è caricato della croce di tutti i peccati del mondo. Si è parlato de Il Signore degli Anelli come di un «romanzo manicheo», dove Bene e Male si distinguono chiaramente: Giorno contro Notte, Luce contro Tenebra. Niente di più falso. Nel romanzo, trionfa proprio il grigio: il colore dello stregone Gandalf. Bene e Male si mischiano di continuo, come nella vita degli esseri umani. La vera grande vittoria del bene è quella che Frodo riporta dentro e contro se stesso, rinunziando al potere dell'anello.
Ma questi dati fondamentali sono del tutto trascurati e sconosciuti almeno a livello massmediale: dove trionfa la lettura di Tolkien, specie dopo il successo del film, in termini di semplice heroic fantasy e di ambigua spiritualità di tipo new age. Nel mare di sciocchezze scritte e pubblicate di recente al riguardo, poche cose si salvano. Segnalo Le radici non gelano. Il conflitto fra tradizione e modernità in Tolkien, di Stefano Giuliano (ed. Ripostes) e Tolkien, Il mito e la grazia, di Paolo Gulisano (ed. Ancora). Significativamente, sono solo alcuni piccoli coraggiosi editori a prestar voce alle voci più giudiziose, naturalmente minoritarie. Il resto è consumismo volgare, maghi da baraccone e draghi di plastica aggravati dai trucchi informatici.
L'Occidente opulento e sicuro di aver ragione rischia di confondere Aragorn con Bush e Sauron con Bin Laden: e non si rende conto di quanto sia pericolosa l'avanzata del Saruman globalizzatore, di quanto sia urgente liberarsi dell'Anello del nuovo materialismo.

F.Cardini


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