Quando nel 1999 alcuni giovani ricercatori e studiosi del Centro culturale L'Areopago della parrocchia di
S.Melania e del Centro culturale Due pini della parrocchia di S.Chiara decisero di collaborare per dare vita al
volume I luoghi giubilari in Roma, come atto di amore alla chiesa ed alla città di Roma, nacque
immediatamente il problema di quale legame vi fosse fra il Giubileo e l'itinerario delle Sette Chiese, iniziato
da S.Filippo Neri. Nonostante molte guide agli itinerari giubilari fossero impostate proprio come introduzione
alle Sette Chiese, già ad una primissima analisi si palesò l'evidenza che - nonostante i due
itinerari di pellegrinaggio (quello giubilare e quello filippino) abbiano nutrito la spiritualità di
innumerevoli pellegrini - mai, fino al Giubileo dell'anno 2000, le Sette Chiese erano state inserite tutte
insieme nella venerazione degli Anni santi. L'itinerario filippino si era caratterizzato, invece, nella mente del
Santo e nella concreta espressione che ne era scaturita, proprio come una proposta rivolta ai cristiani di Roma
per maturare nella ricchezza della propria fede. E' solo con il Grande Giubileo dell’anno 2000, indetto da
Sua Santità Giovanni Paolo II, che tutte le Chiese delle famose peregrinazioni filippine, sono indicate,
per la prima volta - sebbene insieme ad altre - come luoghi nei quali recarsi per ricevere l'indulgenza propria
del Giubileo.
Guido Sacchi, con il suo abituale desiderio di rispetto del dato oggettivo della realtà storica e
della creatività dell'uomo in essa, volle anche in quel caso fare ricerche più accurate e ne
scaturì il presente breve saggio, che sottopose all'attenzione di tutti i collaboratori di quel
volume.
Avendo ritrovato quel suo contributo, desideriamo che non sia dimenticato e che il riproporlo sia atto che
manifesta nuovamente la grande stima ed il grande affetto che abbiamo avuto ed abbiamo per Guido, nella profonda
convinzione che lui, che ha raggiunto la meta e non cammina più con i passi del pellegrino, accompagni il
nostro incedere con la sua intercessione e che la preghiera per lui continui ad essere sorgente di comunione e di
speranza.
L’Areopago
Si può indicare con assoluta precisione la data di inizio della visita alle sette chiese, come la
intendiamo noi: è il giovedì grasso del 1552, quando San Filippo Neri per la prima volta oppose ai
festeggiamenti paganeggianti del carnevale romano la devozione ai luoghi più santi di Roma, e la
meditazione sulla Passione [1]. I primi storici di questo speciale
pellegrinaggio, con in testa Onofrio Panvinio [2], assicurano che
il santo si sarebbe limitato a dare nuovo smalto ad una tradizione antichissima. Noi proveremo perciò a
individuare le origini di questa secolare forma di devozione tipicamente romana.
Un primo limite cronologico oltre il quale non si può risalire, naturalmente, è la data della
fondazione delle sette basiliche: di esse, cinque (S. Pietro, S. Paolo, S. Giovanni, S. Lorenzo, S. Croce) furono
erette per iniziativa di Costantino o subito dopo, e quindi nella prima metà del IV secolo (320-50 circa,
fino al 400). S. Maria Maggiore risale alla metà del V secolo (430-40), anche se la leggenda di papa
Liberio ne anticipa la costruzione di cento anni, e quanto alle tombe dei martiri e al cimitero di S. Sebastiano,
il culto vi risale addirittura alla metà del II secolo (150 circa). Sarebbe dunque inutile cercare tracce
della visita alle sette basiliche prima del V-VI secolo. E se non bastassero le date di fondazione di questi
luoghi di culto, resterebbe comunque da considerare un altro elemento. I pellegrini sono sempre affluiti a Roma
numerosi, sin dai primi secoli dell’era cristiana, per venerare le numerosissime sepolture di martiri che
vi si trovavano. Si potrebbe pensare che anche la tradizione della visita alle sette chiese abbia qualcosa a che
vedere col culto dei santi, dal momento che quattro delle nostre chiese sono basiliche sepolcrali
(“memorie”), erette sulle tombe degli apostoli e dei martiri, S. Pietro, S. Paolo, S. Lorenzo e
appunto S. Sebastiano. In realtà, tutti i luoghi di sepoltura erano extra muros , esterni alla
cinta muraria, perché sino al 700 fu in vigore un’antica regola consuetudinaria che dichiarava le
tombe inviolabili e rendeva impossibile trasferire i resti dei martiri entro lo spazio cittadino [3]. I più antichi itinerari per i pellegrini, perciò, enumerano i
cimiteri extraurbani e le chiese entro la cinta delle mura aureliane in paragrafi distinti. Sembra improbabile,
insomma, che esistesse in epoca molto antica un itinerario che, come quello delle sette chiese, collegasse fra
loro santuari vicini e lontani dal centro cittadino: le strade dei pellegrini dovevano tenersi separate.
Non è quindi nella storia del culto dei martiri che dobbiamo cercare l’origine della nostra
tradizione, anche se, come è ovvio, quel culto è alla base di tutti gli altri che si sono
susseguiti a Roma. Piuttosto, la strada da percorrere sembra un’altra: la storia delle liturgie pontificie,
che nel corso dei secoli si andarono sempre più complicando e cristallizzando nelle forme che restarono
poi intatte per secoli. La tradizione che in particolare ci interessa è quella delle stationes : a
partire dal V secolo, con papa Ilaro (461-68), si fissò cioè l’abitudine, che risaliva a
subito dopo le fondazioni costantiniane, per cui il papa non celebrava la messa sempre nello stesso luogo, ma, a
secondo delle festività, si recava in processione con i prelati e il popolo presso una chiesa di
particolare prestigio, dove si fermava ( statio ) e celebrava l’eucaristia. Si venne così a
costituire una tradizione di processioni che attraversavano la città, giungendo sino ai cimiteri
extraurbani, che si manterrà ben viva almeno fino alla cattività avignonese, nel Trecento. E’
certo possibile che la visita alle sette chiese si sia sviluppata da questa diffusa tradizione processionale.
Anche se nel “calendario” che regolava la dislocazione delle stazioni di chiesa in chiesa, secondo le
feste del calendario liturgico, non figurano soltanto le nostre sette basiliche, sembra comunque di capire che
proprio ad esse (almeno a sei di loro, esclusa S. Sebastiano), fosse riconosciuto un prestigio superiore alle
altre [4]. Le stazioni che avevano per meta le sette basiliche in
questione, infatti, erano molto più numerose di tutte le altre, e qualitativamente superiori,
poiché si collocavano nelle feste più importanti dell’anno (la Pasqua, il Natale, e via
dicendo). E questo concorda in pieno con le poche testimonianze che possediamo di una devozione alle sette chiese
“in gruppo”, cioè, appunto, come complesso spirituale a sé, da venerare tutte
insieme.
Si possono ricostruire anche le fasi della formazione di questo insieme di luoghi santi, a partire dai
più antichi cataloghi delle chiese romane. In questi documenti, sin dai secoli IV e V, vengono isolate per
il loro prestigio spirituale e amministrativo le cosiddette “chiese principali”: la basilica
Costantiniana per eccellenza, cioè S. Giovanni, e poi S. Pietro, S. Paolo, S. Croce in Gerusalemme, S.
Maria Maggiore e S. Lorenzo. Quando, più tardi, S. Croce sarà esclusa dal novero delle chiese
più importanti, le restanti cinque saranno definite “patriarcali” (a partire dal 1100)
[5]; esse si distinguevano per il fatto di essere officiate
direttamente dal clero dell’amministrazione ecclesiastica centrale, i vescovi cardinali e i presbiteri
titolari. A partire da questa lista ristretta di cinque basiliche, con la reintegrazione della basilica della
Croce e l’inserimento di S. Sebastiano, si venne costituendo (nel XIV secolo, come vedremo) il gruppo delle
sette chiese [6].
Quanto però alla devozione e a pellegrinaggi che le comprendessero tutte e sette, le testimonianze sono
tarde e non sempre chiare. Gli itinerari per i pellegrini romani cominciarono ad essere scritti molto presto: il
più antico, la Notitia ecclesiarum urbis Romae è del VII secolo (sotto papa Onorio I,
625-38); poi vengono l’itinerario del monastero svizzero di Einsiedeln, che è all’incirca
dell’epoca di Carlo Magno, e il più famoso, i Mirabilia urbis Romae , che nella sua
più antica redazione risale al 1140 circa [7]. Ebbene, in
nessuno di questi itinerari più antichi le sette chiese hanno uno spazio autonomo: le incontriamo sempre
mescolate alle altre, e non fanno mai gruppo a sé, costringendoci a pensare che, almeno sino al 1100-1200,
non esistesse la tradizione cui S. Filippo si sarebbe ispirato.
Una prima indicazione preziosa ci viene però dalla biografia della santa medievale Begga, morta nel 709:
donna di nobile famiglia regale merovingia, ritiratasi a vita religiosa nel monastero da lei fondato ad
Andenne-sur-Meuse (in Belgio), sappiamo che compì un pellegrinaggio a Roma, e soprattutto che fece
costruire nel suo eremo, vicino alla chiesa principale, altri sei piccoli oratori, che diedero al monastero il
nome di “Sept-Eglises”, sette chiese [8]. E’
assai probabile che la santa abbia riportato in patria da Roma l’idea della venerazione di sette luoghi
particolari ed abbia voluto riprodurla; inoltre, bisogna pensare, questa tradizione doveva avere una certa
notorietà fin nelle Fiandre, altrimenti l’iniziativa di Begga sarebbe stata poco comprensibile.
Questa ambigua testimonianza, a ben guardare, prova soltanto un fatto, che già si poteva intuire dalla
tradizione delle stationes , e cioè che al gruppo delle sette basiliche era attribuito un primato
devozionale fra tutti i luoghi di culto della città, ma non dimostra che fosse diffuso e praticato un vero
itinerario di pellegrinaggio dall’una all’altra.
Per incontrare testimonianze più stringenti in questo senso dobbiamo aspettare sino al 1300. Al 1360
risale un itinerario per pellegrini, che chiama complessivamente le sette basiliche “chiese regali”,
perché papi e imperatori le avevano fondate e arricchite di tesori; un altro itinerario fiammingo,
precedente al 1369, descrive le indulgenze che vi si possono acquistare [9]. Naturalmente, se si parla di indulgenza legata al gruppo delle sette chiese, è
anche presumibile che a questa altezza esistesse l’uso del pellegrinaggio dall’una all’altra
basilica, anche se non ci è testimoniato precisamente.
Nel Trecento dunque esisteva di certo un culto delle sette basiliche segnalato negli itinerari per i pellegrini.
Un’altra testimonianza di tale culto la incontriamo due secoli dopo. Nel 1484-87 Innocenzo VIII concedeva
alle monache domenicane del convento di Santa Caterina di Augsburg, in Germania, il privilegio che i pellegrini
che visitassero il loro convento potessero lucrare le stesse indulgenze delle sette chiese di Roma. Per
l’occasione la comunità commissionò ad Hans Holbein il vecchio, a Hans Burgkmair e a un terzo
pittore sette tavole, che riproducevano le basiliche romane (e sappiamo quindi che si tratta esattamente delle
nostre sette: nel caso di S. Begga, invece, non possiamo affermarlo con certezza, anche se le probabilità
sono molto alte). Le tavole furono realizzate tra 1499 e 1504, probabilmente in occasione del giubileo
[10].
A questo punto siamo prossimi alla data dell’iniziativa di San Filippo, e possiamo fare il punto su questa
carrellata. Anzitutto, bisogna ammettere che non esistono testimonianze della tradizione antichissima cui il Neri
si sarebbe rifatto: i primi documenti certi sulla venerazione al gruppo delle sette chiese risalgono solo al XIV
secolo, pur con l’importante eccezione di S. Begga. Ma in nessun documento il primato spirituale delle
basiliche si traduce esplicitamente in un preciso itinerario, benché se ne possa spesso sospettare
l’esistenza. Si può immaginare ovviamente che qualcuno prima del santo fiorentino avesse già
compiuto il “suo” itinerario, per acquistare le indulgenze, e che magari esso fosse vivo come pratica
popolare: in ogni caso, non ce ne resta la documentazione precisa. Possiamo anche pensare che la visita alle
basiliche fosse facilitata, come già notava Panvinio nel 1570, dal fatto che esse erano facilmente
raggiungibili: date infatti le cinque basiliche patriarcali, se si passava da S. Paolo a S. Giovanni ci si poteva
fermare a S. Sebastiano, e allo stesso modo nel percorso da S. Giovanni a S. Lorenzo si poteva inserire S. Croce.
Questa dello storico cinquecentesco è una spiegazione “pragmatica”, non del tutto esatta
(abbiamo visto che esisteva un prestigio di gruppo delle sette chiese anche al di là del pellegrinaggio ad
esse), ma comunque molto verosimile.
Concludiamo insomma che Filippo non poteva contare su una tradizione di pellegrinaggio vivissima: semmai, poteva
essere stato preceduto da singole iniziative individuali. La sua vera grande invenzione fu quindi di fare della
“visita” una pratica collettiva [11], un momento di
aggregazione spirituale e di rinnovamento interiore, proprio quando il carnevale sembrava respingere fuori della
vita il pensiero della penitenza e della stessa vita cristiana. Questo grande interprete del cattolicesimo degli
anni del Concilio di Trento capisce che la strada da percorrere sta appunto nel porre l’accento sulla vita
religiosa di comunità, sulla spiritualità da vivere in gruppo, proprio come momento essenziale
della religiosità cattolica, in un’epoca in cui, invece, il protestantesimo sottolineava gli aspetti
individuali del rapporto con Dio. La creazione della visita cadeva insomma nel momento storico più adatto,
e se le autorità ecclesiastiche inizialmente addirittura la osteggiarono, ben presto capirono che
lì si poteva trovare una sorgente importante di rinnovamento spirituale per la città, e non solo.
Che poi i primi storici della “visita” filippina suggeriscano che l’idea del santo si
richiamava ad una tradizione molto antica, non stupisce: la Congregazione dell’Oratorio fondata da S.
Filippo infatti nutrì uno speciale interesse per i primi secoli del cristianesimo, e si impegnò in
un grosso lavoro di ricerca erudita delle fonti della chiesa antica, per rivitalizzare la chiesa contemporanea,
abbattuta dalla Riforma protestante, con l’esempio dei primi secoli. E’ molto probabile che allo
stesso modo si sia pensato di legare l’invenzione di S. Filippo ai secoli più lontani ed augusti
della chiesa romana.
Abbiamo descrizioni contemporanee della visita, che ci spiegano nei dettagli come essa si svolgeva negli anni di
S. Filippo e immediatamente dopo [12]. Il giovedì grasso,
partendo da S. Pietro, ci si recava nell’ordine a S. Paolo, S. Sebastiano, S. Giovanni, S. Croce, S.
Lorenzo, S. Maria Maggiore. I testi seicenteschi sulle sette chiese ricordano che ogni tratto di questo
itinerario doveva rappresentare uno dei sette viaggi di Cristo durante la Passione, in una specie di
anticipazione della Via Crucis: dal cenacolo al Getsemani; dall’orto alla casa di Anna; da questa alla casa
di Caifa; da lì al palazzo di Pilato; da quello di Pilato a quello di Erode; di nuovo da Erode a Pilato; e
infine dal palazzo di Pilato al Calvario. L’intero percorso veniva compiuto nella stessa giornata, oppure
si dedicava il primo giorno a S. Pietro e il giorno dopo alle altre. In ognuna delle sette basiliche si
veneravano sette altari “privilegiati”, cioè dotati di speciali grazie e indulgenze: la
basilica Vaticana fu la prima a possedere questo tesoro, che fu poi esteso alle altre chiese. La comitiva (che
nei tempi d’oro dell’Oratorio giunse a 5-6000 persone) in ogni chiesa tranne S. Pietro e S. Paolo
ascoltava dei sermoni, e lungo il percorso cantava inni e salmi, e in particolare il “Canto delle
vanità” attribuito a Giovanni Animuccia, uno dei primi compagni del santo: “Vanità di
vanità, / ogni cosa è vanità / tutto il mondo e ciò che ha: / ogni cosa è
vanità”. In S. Sebastiano, S. Filippo celebrava l’eucaristia e comunicava i presenti; quindi
ci si fermava per la refezione alla vigna dei nobili Massimo o Crescenzi oppure ancora a Villa Mattei
(Celimontana), dove il pranzo era accompagnato da canti e concerti di musica. I testi coevi ci riportano con
assoluta precisione il cerimoniale e i dettagli dell’organizzazione di questa sosta, che era in effetti un
momento di condivisione e socializzazione fondamentale nell’economia della giornata. Come si può
vedere anche da questa sommaria descrizione, l’apostolo di Roma, come fu chiamato il Neri, aveva concepito
una celebrazione spiritualmente molto moderna, e perfettamente consona allo spirito del tempo: da un lato, una
forte accentuazione degli aspetti penitenziali, di riflessione sulla fragilità dell’uomo e sulla sua
condizione di peccato (e proprio mentre il carnevale infuriava...); dall’altro lato, però, la fede
veniva vissuta anche nel suo aspetto gioioso, comunitario, festivo, anche con la collaborazione delle arti. Non
va dimenticato poi che fu proprio S. Filippo ad iniziare con l’Oratorio la “pastorale
giovanile”, che proprio su questi aspetti faceva affidamento.
Col passare del tempo, la visita diventò tradizione consolidata: a Roma, essa veniva integrata con
l’aggiunta, nel percorso, delle altre due chiese di S. Paolo alle Tre fontane (luogo del martirio
dell’Apostolo), e della SS. Annunziatella. Intanto, la trovata del santo veniva esportata anche fuori della
città dei papi: Gregorio XIII, su preghiera di S. Carlo Borromeo arcivescovo di Milano (contemporaneo di
S. Filippo), estese anche alle sette principali chiese della città lombarda le stesse indulgenze delle
sette basiliche romane.
Una trentina di anni dopo la prima visita del Neri, un papa fece del pellegrinaggio alle sette chiese un punto
di forza del suo programma di riforma della liturgia e delle devozioni romane. Parliamo di Sisto V Peretti
(1585-1590), un tipico rappresentante della Chiesa uscita dal Concilio di Trento (conclusosi nel 1563), che
valorizzò in modo del tutto innovativo le tradizioni devozionali della città, anzitutto
partecipando personalmente ad un altissimo numero di processioni e celebrazioni pubbliche. Nel suo progetto la
Chiesa ed il suo capo dovevano risultare ben visibili e agire direttamente sull’immaginario e la
spiritualità dei fedeli, e anzitutto nel luogo su cui si fondava lo stesso primato del pontefice, Roma.
Questo disegno si concretizzò nella bolla Egregia populi romani pietas , del 13 febbraio 1586
[13]: in essa il papa dà ufficialità e
centralità all’antica tradizione della visita alle Sette Chiese, che mai aveva interessato i
pontefici dal punto di vista pastorale. Sisto V decise che i papi avrebbero dovuto tenere “cappella”
(cioè celebrare o presenziare a celebrazioni liturgiche) ben 26 volte durante l'anno, secondo
l’antico calendario delle chiese stazionali, riesumato per l’occasione. Papa Peretti tenne a
sottolineare, nella lunga lista delle chiese che dovevano diventare meta delle processioni papali, proprio le
sette chiese, e per questo motivò il suo progetto con un’interessante spiegazione teologica. Come S.
Giovanni si rivolge, nell’Apocalisse, alle sette chiese dell’Asia, raffigurando in esse
l’unità della Chiesa universale che Dio riempie della grazia dei sette doni del suo Spirito,
così a Roma si venerano sette chiese, in cui è raffigurata l’unità della Chiesa, nel
suo capo, che è il papa. Anche la devozione popolare delle sette chiese, dunque, doveva rappresentare,
nelle intenzioni del pontefice, l’unità della Chiesa minacciata dalla Riforma.
Se nella bolla sistina (che ebbe peraltro efficacia limitatissima: dopo la morte del papa, nessuno dei suoi
successori ne rispettò le disposizioni) i valori spirituali delle sette chiese servivano ad un preciso
disegno complessivo, in molte altre pubblicazioni del secolo successivo il numero sette suggerì
accostamenti simbolici dei più astrusi. Oltre ai sette viaggi di Cristo nella Passione, come si diceva
sopra, i sette altari privilegiati delle chiese (ma anche le stesse sette basiliche) potevano significare: le
sette effusioni del sangue di Cristo, le sette parole di Cristo in croce, i sette doni dello Spirito Santo, i
sette sacramenti, le sette opere di misericordia. Questi accostamenti danno certo l’impressione di un gioco
infantile, ma in realtà bisogna pensare che dietro ciascuna di queste invenzioni numerologiche stavano dei
percorsi di meditazione, di preghiera, di riflessione: sulla Passione, sui doni di Dio alla Chiesa, per
ringraziarlo, sulle opere di carità per chiedere aiuto a compierle. Allo stesso modo si poteva invocare il
perdono dei sette peccati capitali, e chiedere le sette virtù contrarie, recitando i sette salmi
penitenziali [14].
Bisogna concludere questo breve discorso con una nota sul rapporto tra la tradizione delle sette chiese e il
giubileo. In realtà fra l’iniziativa annuale dell’Oratorio e la ricorrenza venticinquennale
dell’anno santo non ci fu nessun contatto: le bolle di indizione dei giubilei non menzionano mai le sette
chiese, ma soltanto le quattro patriarcali (escludendo anche S. Lorenzo), e sospendono per l’anno santo
tutte le indulgenze, al di fuori appunto di quelle da lucrare nelle basiliche maggiori. Anche le indulgenze della
“visita” perciò venivano cancellate dalle disposizioni giubilari, e di conseguenza gli
Oratoriani non praticarono il pellegrinaggio di San Filippo durante i giubilei, dedicandosi piuttosto
all’assistenza e accoglienza dei pellegrini nella Confraternita della SS. Trinità [15]. Oggi in effetti per il grande Giubileo del Duemila la tradizione delle
sette chiese è stata ripresa, anche se non esplicitamente: fra i luoghi da visitare per ottenere il
perdono giubilare troviamo infatti le quattro basiliche maggiori, ma anche S. Croce, S. Lorenzo e le Catacombe
[16] . Benché storicamente i due fatti non si siano
toccati, quindi, noi possiamo e anzi dobbiamo ricordarci della visita alle sette chiese durante il pellegrinaggio
giubilare a Roma. Nella pianta della città che il francese Antoine Lafréry stampò nel 1575,
proprio in occasione del giubileo, di tutto il tessuto urbano rimangono visibili soltanto le sette chiese, unite
fra loro dalle “pie turbe” dei pellegrini che si spostano dall’una all’altra: e anche per
il pellegrino moderno le sette antiche e nobili basiliche devono stagliarsi nella loro importanza e reclamare
l’attenzione come massimi tesori della storia spirituale della città.
Per altri articoli e studi su Roma presenti su questo sito, vedi la pagina Roma (itinerari artistici, archeologici, di storia della chiesa e di pellegrinaggio) nella sezione Percorsi tematici
[Nota 1] Per le notizie storiche, cf. A. Cistellini, San Filippo Neri. L’Oratorio e la congregazione oratoriana. Storia e spiritualità , vol. I, Brescia, Morcelliana, 1989, 96-97. La prima visita documentata è in realtà del 1559, ma i biografi del santo sostengono che la prima si sarebbe svolta sette anni prima.
[Nota 2] Si veda il suo volume Le Sette Chiese principali di Roma (Roma, Blado, 1570), il primo di una lunga serie.
[Nota 3] Cf. A. Vauchez, Reliquie, santi e santuari, spazi sacri e vagabondaggio religioso nel medioevo , in Storia dell’Italia religiosa. 1. L’antichità e il Medioevo , a c. di G. De Rosa, T. Gregory, A. Vauchez, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 456.
[Nota 4] Per una sintesi di questi problemi, si veda S. de Blaauw, Cultus et decor. Liturgia e architettura nella Roma tardoantica e medievale. Basilica Salvatoris, Sanctae Mariae, Sancti Petri , Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1994, pp. 27-72; e anche C. Pietri, Roma Christiana. Recherches sur l’Eglise de Rome, son organisation, sa politique, son idéologie de Miltiade à Sixte III (311-440) , Ecole française de Rome, 1976, p. 589.
[Nota 5] O. Panvinio ( Le Sette Chiese , cit.) spiega che le cinque basiliche sono dette patriarcali perché destinate ciascuna ad uno dei cinque patriarchi principali della chiesa cristiana, di Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, in modo che ognuno di questi capi spirituali avesse una sede laddove risiedeva il primo di tutti loro, il papa. Si tratta ovviamente di una spiegazione non esatta storicamente, ma notevole per il valore ecumenico (e insieme di sostegno al primato di Pietro) che si attribuisce alle basiliche.
[Nota 6] Cf. de Blaauw, cit., pp. 44-49.
[Nota 7] Li si legge in R. Valentini e G. Zucchetti, Codice topografico della città di Roma , 4 voll., Roma, R. Istituto storico italiano per il medio Evo, 1940-53.
[Nota 8] Cf. Bibliotheca Sanctorum , Istituto Giovanni XXIII, Pont. Univ. Lateranense, vol. II, Roma, 1962, coll. 1077-78. La notizia su santa Begga deriva dalla voce “Sette Chiese di Roma” di G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni , vol. LXIV, Venezia, Tipografia emiliana, 1853, pp. 290-96.
[Nota 9] Cf. sempre de Blauuw, cit., p. 48.
[Nota 10] Cf. Le Basiliche e il loro doppio: le sei tavole di Augsburg , in AAVV, Roma Sancta. La città delle basiliche , a c. di M. Fagiolo e M. L. Madonna, Roma-Reggio Calabria, Gangemi, 1985, pp. 47-51.
[Nota 11] Per questo aspetto dell’invenzione filippina, cf. M. Rosa, Spiritualità mistica e insegnamento popolare. L’Oratorio e le scuole pie , in Storia dell’Italia religiosa , cit., vol. II. L’età moderna , 1994, pp. 275.
[Nota 12] Per le notizie, cf. la voce del Moroni e C. Gasbarri, La spettacolarità del “Gaudium” di A. Lazzarini e la visita filippina delle Sette Chiese , Roma, Palombi, 1947.
[Nota 13] Per una descrizione dei contenuti del documento, si può vedere H. Gamrath, Roma Sancta renovata. Studi sull’urbanistica di Roma nella seconda metà del sec. XVI con particolare riferimento al pontificato di Sisto V (1585-1590) , Analecta Romana Instituti Danici - Supplementum XII, Roma, “L’Erma” di Bretschneider, 1987.
[Nota 14] Per queste notizie, desunte dalle opere del XVII secolo, si veda sempre la voce di Moroni.
[Nota 15] Così Moroni, con riferimento a disposizioni di Pio VII nel 1818. Per questo aspetto della questione si veda anche C. Abbamondi, Per le sacre vie della Roma santa , in ????, 20-34.
[Nota 16] Si veda la prima disposizione del Decreto della Penitenzieria Apostolica allegato alla bolla di indizione Incarnationis Mysterium .