Non è facile imbattersi in riflessioni sul dolore umano che
aiutino l'animo a trovare speranza, senza svilire la fatica del lutto e della nostalgia per
l'assenza della persona amata. “Diario di un dolore” di C.S.Lewis è uno di
questi rari testi.
C.S.Lewis pubblicò, con lo pseudonimo di N.W.Clerk. lo splendido A Grief Observed
(letteralmente “Osservando un sepolcro”, tradotto in italiano dall'Adelphi, con il
titolo “Diario di un dolore”, Milano, 1990) le riflessioni autobiografiche
suscitate nel suo animo dalla morte della moglie Joy Davidman Gresham, che aveva sposato
quattro anni prima e con la quale aveva avuto due figli. Il volume è del 1961, solo un
anno dopo la morte di Joy. Lewis vivrà fino al 1963.
Lewis ci ha lasciato, anche un suo secondo libro autobiografico precedente,
“Surprised by Joy” (“Sorpreso dalla gioia”, con il voluto gioco di
parole “gioia” e “Joy”), scritto nel 1955, nel quale racconta la sua
conversione in età giovanile alla fede cristiana. Sono ancora più noti i suoi
bellissimi scritti sul cristianesimo, come le famose “Lettere di Berlicche”,
immaginario epistolario del diavolo Berlicche che scrive a suo nipote Malacoda, inesperto
nell'arte di condurre a perdizione l'uomo, su come aiutare l'animo umano a smarrire la via di
Dio, lettura a rovescio della via di salvezza, nella quale Dio è chiamato, l'Avversario
nostro, libro pieno di sapienza cristiana e di humour finissimo, o come il noto “Il
cristianesimo così com'è”, discorso a temi a difesa del cristianesimo, nel
quale l'autore inglese affronta le principali critiche rivolte al cristianesimo e ne espone la
bellezza delle principali affermazioni.
Lewis è noto anche per i suoi romanzi di fantascienza, come “Le cronache di
Narnia” e per la sua amicizia con J.R.R.Tolkien, l'autore de Il signore degli anelli.
L'anglicano Lewis ed il cattolico Tolkien furono infatti legati da profondo affetto e scambio
intellettuale e spirituale.
Il lutto di C.S.Lewis è narrato anche nel film Viaggio in Inghilterra (Shadowlands),
di Sir Richard Attenborough, che ha fatto conoscere ancor più la sua figura in tutto il
mondo. Vogliamo, per questo, far seguire, ad una presentazione dei testi di Lewis sul dolore
per la morte della moglie, la recensione molto puntuale di Bruce L. Edwards al film, per
mettere in guardia chi lo avesse visto, circa l'attendibilità di ciò che è
lì rappresentato, pur nella bellezza della finzione scenica. La recensione è
stata per noi tradotta da Emi Benghi. Restiamo a disposizione per la pronta rimozione se la
messa a disposizione on-line non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Diario di un dolore è un testo che non si riesce a leggere, se non tutto d'un fiato (con l'esigenza poi di riprenderlo da capo). I quattro brevi quaderni che lo compongono si dipanano come un filo, che non disegna una teoria del dolore, ma ne vede l'evolversi, passo dopo passo. Quello che sembrava assoluto un giorno, si fa insignificante, o si trasforma il giorno dopo. Di questo prende coscienza l'autore, ad una svolta del diario:
Credevo di poter descrivere uno stato, fare una mappa dell'afflizione. Invece l'afflizione si è rivelata non uno stato, ma un processo. Non le serve una mappa ma una storia, e se non smetto di scrivere questa storia in un punto del tutto arbitrario, non vedo per quale motivo dovrei mai smettere. Ogni giorno c'è qualche novità da registrare. Il dolore di un lutto è come una lunga valle, una valle tortuosa dove qualsiasi curva può rivelare un paesaggio affatto nuovo. Come ho già notato, ciò non accade con tutte le curve. A volte la sorpresa è di segno opposto: ti trovi di fronte lo stesso paesaggio che pensavi di esserti lasciato alle spalle chilometri prima. E' allora che ti chiedi se per caso la valle non sia una trincea circolare. Ma no. Ci sono, è vero, ritorni parziali, ma la sequenza non si ripete.
Vogliamo, lo stesso, raggruppare alcuni pensieri del Diario per temi,
lasciando al lettore che vorrà affrontare poi il testo, di apprezzarlo, invece, nel suo
dipanarsi.
Nel secondo quaderno, per la prima volta, il pensiero dell'autore rifiuta l'idea che la morte
sia il tornare al nulla o sottomettersi al semplice susseguirsi naturale della trasformazione
perenne di tutte le cose:
Se H. “non è”, allora non è mai stata, e io ho
scambiato per una persona una nube di atomi. La gente non esiste, non è mai esistita. La
morte non fa che rivelare il vuoto che c'era da sempre. I cosiddetti vivi sono semplicemente
quelli che non sono stati ancora smascherati. Tutti in bancarotta, anche se per alcuni non
ancora dichiarata.
Ma questo deve essere assurdo! Il vuoto rivelato a chi? Bancarotta dichiarata a chi? Ad
altri fuochi d'artificio o nubi di atomi. Non crederò mai – o più
esattamente: non mi è possibile credere – che un insieme di eventi fisici possa
essere, o commettere, un errore riguardo ad altri insiemi di eventi fisici.
No, la mia paura reale non è il materialismo.
Ho molta più paura che siamo in realtà topi in trappola. O peggio: topi di
laboratorio. Qualcuno, mi pare, ha detto: “Dio geometrizza sempre”. E se la
verità fosse: “Dio viviseziona sempre”?
E' aperta, per un tratto, la possibilità che, poiché Dio e le anime esistono, Dio non sia però fonte e custodia della vita ed il dolore umano sia, allora, asettico riflesso di un Dio simile ad un freddo medico che cura il bene, indifferente al sentire dell'uomo:
Tutte queste note non sono forse gli assurdi contorcimenti di chi non vuole accettare il fatto che nella sofferenza non si può fare altro che soffrire? Di chi è ancora convinto che esista un sistema (se solo riuscisse a trovarlo!) per cambiare il soffrire in non soffrire. Non fa differenza stringere i braccioli della poltrona del dentista o tenere le mani in grembo. Il trapano continua a trapanare.
E ancora:
Che cosa vogliono dire quelli che proclamano: “Non ho paura di Dio, perché so che è buono”? Non sono mai stati da un dentista?
Ma il giorno dopo, si corregge la prospettiva che aveva anche solo ipotizzato che Dio potesse essere solo un Sadico, uno scienziato che misura gli uomini, studiandoli dall'alto e creando loro sempre nuove situazioni di verifica:
Il ritratto che tracciavo ieri sera, invece, è solo quello di un uomo come S.C., che sedeva vicino a me a cena e mi raccontava che cosa aveva fatto ai gatti nel pomeriggio. Ora, un essere come S.C., ingrandito quanto si vuole, non saprebbe inventare o creare o governare alcunché. Preparerebbe le trappole e cercherebbe le esche. Ma non gli sarebbero mai venute in mente esche come l'amore, le risate, i narcisi, un tramonto sulla campagna gelata. Lui, fare un universo? Ma se non saprebbe nemmeno fare una battuta, o un inchino, chiedere scusa, fare amicizia.
E' solo perché si è offesi, che ci si illude che l'offendere dia piacere e ristoro. E si arriva così ad ipotizzare un'offesa a Dio:
Tutto quel parlare di un Sadico Cosmico non veniva tanto da una riflessione, quanto dall'odio. Ne ricavavo l'unico piacere possibile per chi è tormentato: il piacere di restituire i colpi. Erano solo vituperi, insulti, “dire in faccia a Dio quello che pensavo di Lui”. E naturalmente, come in tutti gli insulti, “quello che pensavo” non significava quello che ritenevo fosse la verità, bensì solo quello che ritenevo L'avrebbe offeso di più (e con Lui i Suoi adoratori). Sono cose che non si dicono mai senza un certo gusto. Ci si toglie “il peso dallo stomaco”, e per un po' si sta meglio.
Pian piano si fa strada la consapevolezza che il ricordo è una realtà molto ambigua, non necessariamente espressione d'amore:
Grazie a Dio, il ricordo di lei è ancora troppo forte (ma lo sarà sempre?)
per permettermi di farla franca.
Perché H. era tutto il contrario. La sua mente era agile, scattante e muscolosa come
un leopardo. Una mente che né passione, né affetto, né sofferenza potevano
disarmare. Coglieva nell'aria il minimo sentore di ipocrisia o di vacuità; poi spiccava
il balzo, e ti atterrava prima ancora che tu capissi che cosa era successo. Quante mie bolle di
sapone ha fatto scoppiare! Ho imparato presto a non dire idiozie con lei, se non per il puro
piacere (un'altra stilettata rovente) di essere scoperto e canzonato. Non sono mai stato meno
fatuo che come amante di H.
Mantenere le promesse fatte ai morti, o a chiunque altro, è un ottimo proposito. Ma comincio a capire che il “rispetto per le volontà dei defunti” è una trappola. Ieri mi sono frenato appena in tempo mentre stavo per dire, a proposito di non so che sciocchezza: “A H. non sarebbe piaciuto”. E' un'ingiustizia verso gli altri. Presto userei “quello che sarebbe piaciuto a H.” come strumento di tirannia domestica; i presunti gusti di H. diventerebbero una maschera, sempre più trasparente, dei miei.
Anzi l'amore si manifesta proprio nell'irriducibilità di ciò che l'altro realmente è alla nostra idea dell'altro:
Il dono più prezioso che ho avuto dal matrimonio è stato questo continuo impatto con qualcosa di molto vicino e intimo e tuttavia sempre e inconfondibilmente altro, resistente – in una parola, reale. Tutta quest'opera dovrà andare distrutta? Ciò che io continuerò a chiamare H. è destinato a ricadere orribilmente nella fumosità delle mie vecchie fantasticherie di scapolo? Oh mia cara, mia cara, torna per un momento solo a scacciare questo meschino fantasma. Oh Dio, Dio, perché ti sei tanto adoperato a tirar fuori questa creatura dal suo guscio, se ora è condannata a strisciarvi dentro nuovamente, a essere risucchiata in esso?
Se il ricordo non può non trasfigurare il passato -
Lentamente, silenziosamente, come fiocchi di neve - quei fiocchi lievi che preannunciano una nevicata che durerà tutta la notte - sulla sua immagine si stanno depositando piccole scaglie di me, mie impressioni, mie scelte. E alla fine la forma reale ne sarà completamente nascosta. Dieci minuti, dieci secondi, della vera H. basterebbero a correggere tutto ciò. Ma anche se mi venissero concessi, un secondo più tardi i piccoli fiocchi ricomincerebbero a cadere. Il sapore aspro, mordente, purificatore, della sua alterità è scomparso.
Tuttavia la coscienza dell'alterità della persona amata torna continuamente ad imporsi, anche se non è più presente fisicamente:
Era H. che amavo. Come potrei pensare di innamorarmi del
mio ricordo di lei, di un'immagine creata dalla mia mente? Sarebbe una specie
di incesto.
Ricordo il mio moto di ripugnanza, un mattino d'estate di molti anni
fa, quando un omone dalla faccia allegra, entrando nel nostro cimitero con una
zappa e un annaffiatoio e tirandosi dietro il cancello, gridò da sopra
la spalla a due amici: “Faccio una visitina a Ma' e vi raggiungo”.
Voleva dire che andava a riassettare la tomba della madre, a strappare le erbacce
e bagnare i fiori. Ne provai ripugnanza perché questo modo di sentire
(la tomba, i fiori e tutto il resto) lo trovavo e lo trovo ancora semplicemente
odioso, per non dire inconcepibile. Ma alla luce dei mie recenti pensieri, comincio
a chiedermi se il punto di vista di quell'uomo, per chi lo può adottare
(io non posso), non abbia i suoi vantaggi. Un'aiuola di due metri per uno era
diventata “Ma'”. Era il simbolo che lui aveva trovato per la madre,
il suo aggancio con lei. Prendersi cura di quell'aiuola era farle una visitina.
Non potrebbe essere meglio, in un certo senso, che conservare e accarezzare
un'immagine nella memoria? La tomba e l'immagine sono entrambe agganci con ciò
che è irrecuperabile e simboli di ciò che è inimmaginabile.
Ma l'immagine ha in più lo svantaggio di essere pronta a fare tutto quello
che vogliamo. Sorriderà o si rabbuierà, sarà tenera, gaia,
sboccata o polemica, secondo ciò che chiede il nostro umore. E' una marionetta
di cui reggiamo i fili. Non ancora, naturalmente. La realtà è
troppo fresca: ricordi genuini e del tutto involontari possono ancora, grazie
a Dio, irrompere e strapparmi di mano quei fili. Ma la fatale obbedienza dell'immagine,
la sua insipida arrendevolezza, inevitabilmente cresceranno. L'aiuola, invece,
è una realtà ostinata, resistente, spesso intrattabile, come certo
era Ma' da viva. Come era H.
Inoltre l'amore non spegne l'interesse per altri aspetti della creazione. L'amore stesso del Creatore, persiste, pur nell'ebbrezza dell'amore umano:
Una cosa, comunque, devo al matrimonio. Mai più crederò che la religione sia un prodotto dei nostri appetiti inconsci e insoddisfatti e un surrogato del sesso. I pochi anni che io e H. abbiamo passato insieme sono stati un vero banchetto d'amore; l'amore in tutte le sue modulazioni: solenne e festoso, romantico e realistico, a volte clamoroso come un temporale, a volte dimesso e accogliente come infilarsi le pantofole. Non un angolo del cuore e del corpo è rimasto insoddisfatto. Se Dio fosse un surrogato dell'amore, avremmo dovuto perdere ogni interesse per Lui. Perché sprecare il tempo con i surrogati, quando si ha l'originale? Ma non è così. Sapevamo entrambi che volevamo qualcosa oltre l'altro – qualcosa di affatto diverso, il cui bisogno era affatto diverso. Tanto varrebbe dire che due amanti, ciascuno avendo l'altro, non vorranno mai più leggere, mangiare, o respirare.
Ed anche nei momenti della malattia, il dolore non ha impedito la gioia:
E' incredibile quanta felicità, e persino quanta allegria, abbiamo a volte conosciuto insieme, dopo che ogni speranza era scomparsa. Come abbiamo parlato a lungo, quietamente, nutrendoci l'uno con l'altra, quell'ultima sera!
Così, anche nel momento del lutto, pian piano si fa strada la convinzione che l'amore per chi non è più su questa terra non domandi l'arresto della vita al momento in cui è avvenuto il distacco, la rottura, la perdita:
All'inizio mi atterriva l'idea di ritornare nei posti dove H. e io siamo stati felici: il nostro pub preferito, il nostro bosco. Ma ho deciso di farlo subito: come quando si rimanda in servizio un pilota che ha appena avuto un incidente di volo. Con mia sorpresa, non è successo nulla. La sua assenza non è più insistente in quei luoghi che altrove. Non è un'assenza localizzata. Se ci venisse proibito il sale, probabilmente non ne sentiremmo la mancanza più in una pietanza che in un'altra. Tutto il cibo sarebbe diverso, ogni giorno, ad ogni pasto. Ora è lo stesso. E' l'atto di vivere che è diverso in ogni momento. La sua assenza è come il cielo, si stende sopra ogni cosa.
Il cammino è lungo. Bisogna affrontare l'imbarazzo degli altri, ora così diversi da prima:
Una strana conseguenza del mio lutto è che mi rendo
conto di essere imbarazzante per tutti quelli che incontro. Al lavoro, al club,
per strada, quando qualcuno mi avvicina, gli leggo in faccia l'incertezza se
“accennarne” o no. Per me è odioso sia che ne parlino sia
che non ne parlino. Alcuni, poi, battono in ritirata. R. mi evita da una settimana.
Molto, molto meglio i giovanotti educati, poco più che ragazzi, che mi
affrontano come se fossi il dentista, avvampano, si tolgono il peso e, appena
le buone maniere lo permettono, sgattaiolano verso il bar. Forse chi è
in lutto dovrebbe essere isolato in quartieri speciali, come i lebbrosi.
Per alcuni sono peggio che un imbarazzo, sono un teschio. Quando incontro
due sposi felici, so che pensano: “Un giorno uno di noi due sarà
come è lui ora”.
Bisogna affrontare la questione se veramente la fede che abbiamo professato in altri momenti è realmente àncora sicura di vita:
Non si può mai sapere con quanta convinzione crediamo a qualcosa, fino a quando la verità o la falsità di questo qualcosa non diventano una questione di vita o di morte. Prendiamo una corda: è facile dire che la crediamo sana e robusta finché la usiamo per legare un baule. Ma immaginiamo di doverci restare appesi sopra un precipizio. Non vorremmo prima scoprire fino a che punto ce ne fidiamo? Lo stesso vale con la gente. Per anni sarei stato pronto a dire che avevo completa fiducia in B.R. Poi venne il momento in cui dovetti decidere se confidargli o no un segreto molto grave, e questo dilemma gettò una luce del tutto nuova su quella che io chiamavo la mia “fiducia” in lui. Scoprii che questa fiducia non esisteva. Solo un rischio vero mette alla prova la realtà di una convinzione. A quanto pare, la fede (ciò che io credevo fosse fede) che mi permette di pregare per gli altri morti mi è sembrata forte solo perché non mi è mai importato gran che, non mi è mai importato disperatamente, che quei morti esistessero o no. Eppure ero convinto del contrario.
Se il mio castello è crollato al primo colpo, è perché era un castello di carte. La fede che “aveva messo in conto queste cose” non era fede ma fantasia. Metterle in conto non era vera partecipazione umana. Se mi fosse veramente importato, come credevo, dei dolori del mondo, non sarei poi stato travolto dal mio. Era una fede immaginaria che si trastullava con gettoni innocui con sopra scritto “malattia”, “sofferenza”, “morte”, “solitudine”. Credevo di avere fiducia nella corda, finché è venuto il momento di sapere se essa mi avrebbe retto. Ora che deve reggermi, scopro che la mia fiducia non esiste.
Eppure si fa strada la consapevolezza che la felice eternità non può essere la mera prosecuzione di ciò che esiste in terra:
Parlatemi della verità della religione e ascolterò con gioia. Parlatemi del dovere della religione e ascolterò con umiltà. Ma non venite a parlarmi delle consolazioni della religione, o sospetterò che non capite. A meno, naturalmente, di non prendere per buone tutte quelle storie di ricongiungimenti “sull'altra riva”, dipinti in termini affatto terreni. Ma sono cose che non hanno nulla a che fare con le Scritture, cose derivate da inni e litografie dozzinali. Nella Bibbia non ce n'è traccia. E poi suonano false. Lo sappiamo che non può essere così. La realtà non si ripete. Ciò che viene tolto e ciò che viene ridato non sono mai la stessa identica cosa. Com'è astuta l'esca degli occultisti! “Qui da noi le cose non sono poi tanto diverse”. Sigari in Paradiso. Perché è questo che vorremmo tutti: riavere indietro il passato felice.
Solo lentamente l'uomo prende coscienza che nell'espressione del proprio dolore possa esserci tanto egoismo:
Ma che genere di amante sono, se in cima ai miei pensieri, molto prima di lei, metto la mia afflizione? Anche quel folle grido: “Ritorna!”, l'ho lanciato pensando a me. Non mi è mai venuto in mente di chiedermi se un tale ritorno, ammettendo che fosse possibile, sarebbe un bene per lei. Io la rivoglio come ingrediente della restituzione del mio passato. Potevo augurarle qualcosa di peggio? Tornare indietro, dopo aver conosciuto la morte, e in un momento futuro dover ricominciare daccapo a morire? Stefano è detto il protomartire. Ma a Lazzaro non è toccato di peggio?
Certo nell'evoluzione di questa comprensione non egocentrata del dolore c'è anche il lento ristabilirsi del fisico, la pace data dal riposo che restituisce forza all'uomo. E', soprattutto, la fede nella vita eterna che rende possibile e manifesta una diversa forma di presenza di chi solo apparentemente non c'è più:
E' accaduta una cosa del tutto inattesa. Stamattina presto. Per una serie di ragioni, in sé niente affatto misteriose, mi sentivo il cuore più leggero di quanto non mi succedesse da settimane. Prima di tutto, è probabile che mi stia riprendendo dalla pura prostrazione fisica. L'altro ieri, poi, sono stato in movimento per dodici ore di fila, una stancata salutare, cui è seguito un sonno più lungo e più profondo del solito; e dopo dieci giorni di cielo basso e grigio e di umidità calda e immobile, è tornato il sole e si è levata una brezza leggera. E all'improvviso, proprio nel momento in cui il dolore per H.era meno forte, ho avuto di lei un ricordo vivo come non mai. Anzi, qualcosa di meglio (quasi) di un ricordo: è stata un'impressione istantanea, incontrovertibile. Dire che è stato come un incontro sarebbe troppo. Eppure aveva una qualità che quasi induce a usare quelle parole. E' stato come se l'attenuarsi della pena avesse rimosso una barriera.
E' l'avvenimento di una nuova comprensione:
Perché nessuno mi ha mai detto queste cose? Come sarebbe stato facile essere ingiusto con un altro nella stessa situazione. Avrei detto forse: “Ne è venuto fuori. Ha dimenticato sua moglie”, mentre la verità sarebbe stata: “La ricorda meglio perché ne è in parte venuto fuori”.
Questo il fatto. E credo di potergli dare un senso. E' impossibile vedere bene quando gli occhi sono offuscati dalle lacrime. E' impossibile, il più delle volte, ottenere ciò che si vuole se lo si vuole troppo intensamente; o almeno, è impossibile trarne il meglio. “Facciamo una bella chiacchierata” è una frase che garantisce il silenzio generale. “Questa notte devo assolutamente dormire” è il preludio a ore di veglia. Le bevande più buone sono sprecate quando la sete è furibonda. Che sia quindi l'intensità stessa del rimpianto a far scendere la cortina di ferro, a darci l'impressione di fissare il vuoto quando pensiamo ai nostri morti? Chi chiede (o perlomeno, chi chiede con troppa insistenza) non ottiene. Forse se lo preclude.
Però è stato detto: “Bussate e vi sarà aperto”. Ma bussare significa dare pugni e calci alla porta come un invasato? E anche: “A chi ha sarà dato”. Dopotutto, a chi non ha la capacità di ricevere, neanche l'onnipotenza può dare. Forse il tuo stesso smaniare distrugge temporaneamente questa capacità.
La coscienza, ancora non tematizzata chiaramente, che esista una vita eterna di gioia, permette di pensare alla vita come un cammino verso il bene che non si arresta
“Era troppo perfetto per durare”: questo sono tentato di dire
del nostro matrimonio. Ma lo si può intendere in due modi. Può essere
un'espressione di cupo pessimismo: come se Dio, accortosi che due delle Sue creature erano
felici, le avesse subito interrotte (“Basta! Finitela!”). Come se Dio fosse simile
a una padrona di casa che durante un cocktail separa due ospiti che danno segno di aver
cominciato una conversazione troppo seria. Ma potrebbe anche voler dire: “Aveva raggiunto
la sua perfezione. Aveva realizzato ciò che era implicito in esso, e quindi non c'era
motivo di prolungarlo”. Come se Dio avesse detto: “Bravi, questo esercizio l'avete
imparato proprio bene. Sono molto contento. Ora potete affrontare il prossimo”. Una volta
che sappiamo risolvere le equazioni di secondo grado e ci proviamo gusto, l'insegnante non
insiste e passa ad altro.
Perché noi abbiamo imparato qualcosa e abbiamo raggiunto qualcosa. Nascosta o
esibita, c'è una spada che separa i sessi, finché un matrimonio totale non li
riconcilia. E' nostra arroganza definire “maschili” la schiettezza, la
lealtà e la cavalleria quando le vediamo in una donna; è loro arroganza
descrivere come “femminili” la sensibilità, il tatto o la dolcezza di un
uomo. Ma, del resto, che poveri frammenti deformi di umanità devono essere gli uomini
solo uomini e le donne solo donne, per rendere plausibili i sottintesi di tale arroganza. Il
matrimonio sana questa frattura. Uniti, i due diventano pienamente umani. “A immagine di
Dio Egli li creò”. In questo modo, con un paradosso, questo carnevale di
sessualità ci porta al di là del nostro sesso.
E poi uno dei due muore. E noi lo vediamo come un amore interrotto; come una danza
arrestata a metà giravolta, o un fiore con la corolla miseramente strappata: qualcosa di
troncato, e quindi privo della sua giusta forma. Ma è così? Se, come non posso
fare a meno di sospettare, anche i morti sentono i tormenti della separazione (e questa
potrebbe essere una delle loro pene purgatoriali), allora per entrambi gli amanti, e per tutte
le coppie di amanti, senza eccezioni, la perdita dell'altro è una parte universale e
integrante dell'esperienza d'amore. Essa segue il matrimonio con la stessa normalità con
cui il matrimonio segue il corteggiamento o l'autunno l'estate. Non è un troncamento del
processo, ma una delle sue fasi; non è l'interruzione della danza, ma la figura
successiva. Noi siamo “tratti fuori di noi” dall'amata fintanto che essa è
qui. Poi viene la figura tragica della danza, nella quale dobbiamo imparare a essere ugualmente
tratti fuori di noi, anche se la presenza corporea è stata tolta; dobbiamo imparare ad
amare lei, e a non ripiegare sull'amore del nostro passato, o del nostro ricordo, o del nostro
dolore, o del nostro sollievo dal dolore, o sull'amore del nostro stesso amore.
Non è segno del perdurare dell'amore la tragicità emotiva che si avverte permanere, anzi...
Però non posso negare che in un certo senso “mi sento
meglio”, e subito provo una sorta di vergogna, e l'impressione di avere per così
dire l'obbligo di proteggere, coltivare e prolungare la mia infelicità. L'avevo letto
nei libri, ma non avrei mai immaginato di sperimentarlo di persona. Sono sicuro che H. non
approverebbe. Mi direbbe di non fare lo stupido. E lo stesso, ne sono convinto, farebbe Dio.
Che cosa c'è dietro?
In parte, certo, la vanità. Vogliamo dimostrare a noi stessi che siamo amanti
speciali, sublimi, eroi tragici: che nello sterminato esercito di chi ha subito un lutto non
siamo semplici fanti che affrontano pazientemente una lunga marcia. Ma questo non spiega
tutto.
Sebbene questo non sia detto a giudizio di chi non riesce altrettanto, matura la coscienza che il dolore di chi è vivo in terra non piace ai morti!
Tanto di guadagnato. Perché, come ho scoperto, l'abbandono al
dolore, invece di legarci ai morti, ce ne distacca. Questo mi diventa sempre più chiaro.
E' proprio nei momenti in cui la pena è meno forte (al mattino, per esempio, quando
entro nell'acqua del bagno) che H. invade di colpo la mia mente nella sua piena realtà,
nella sua alterità. Non, come nei momenti peggiori, scorciata, resa patetica, resa
solenne dalla mia cupezza, ma così come essa è, come è davvero. Questo fa
bene, e tonifica.
Mi tornano in mente (ma non saprei citare nessun esempio) tutte quelle ballate e quei
racconti popolari dove i morti vengono a dirci che il nostro pianto gli fa in qualche modo del
male, e ci pregano di smettere. Sono storie nelle quali forse si cela una profondità che
non sospettavo. E in tal caso, la generazione dei nostri nonni andava in una direzione
completamente sbagliata. Tutti quei riti di cordoglio (magari per la vita) – visitare le
tombe, celebrare gli anniversari, lasciare la camera da letto vuota esattamente come la teneva
“lo scomparso”, non pronunciare mai più il suo nome oppure pronunciarlo in
tono speciale, e magari (come faceva la regina Vittoria) ordinare che ogni sera venissero
preparati i suoi vestiti per la cena – erano una sorta di mummificazione. Che rendeva i
morti ancora più morti.
Non ho nessun diritto di giudicarli, però. Le mie sono solo supposizioni, e farei meglio a risparmiare il fiato per la mia minestra. Il mio programma, comunque, è chiaro: mi volgerò a lei quanto più spesso potrò in letizia. Magari salutandola con una risata. Meno la piango, mi sembra, più le sono vicino.
E' proprio nella serenità pacificata che si manifesta la presenza eterna dell'altro che, vicino a Dio, non smette di essere presente a noi:
Guardando indietro, vedo che solo poco tempo fa mi tormentava l'idea del mio ricordo di H. e di una sua possibile falsificazione. Per non so quale ragione (l'unica che mi venga in mente è il misericordioso buonsenso di Dio) ho smesso di preoccuparmene. E la cosa straordinaria è che, da quando ho smesso di preoccuparmene, lei mi viene incontro dappertutto. Venire incontro è un'espressione troppo forte. Non intendo nulla di lontanamente simile a un'apparizione o a una voce. E non intendo nemmeno un'esperienza fortemente emotiva legata a un momento particolare. E' piuttosto come una sensazione discreta e tuttavia massiccia che lei sia, ora non meno di prima, un fatto con cui devo fare i conti.
E' solo nel quarto quaderno che l'animo di Lewis evolve in una adorazione di Dio:
Queste note parlano di me, di H. e di Dio. In quest'ordine. L'ordine e le proporzioni sono l'esatto contrario di quelli che avrebbero dovuto essere. E vedo che in nessun punto mi è accaduto di rivolgermi all'uno o all'altra con quel modo del pensiero che chiamiamo lode. Eppure sarebbe stata, per me, la cosa migliore. La lode è il modo dell'amore che ha sempre in sé un elemento di gioia. Lode nel giusto ordine: di Lui come donatore, di lei come dono. Non godiamo forse un poco, nella lode, ciò che lodiamo, anche se ne siamo lontani? Devo farlo più spesso.
E poi, di lei, e di ogni cosa creata che lodo, dovrei dire: “In
qualche modo, in un modo che le è unico, simile a Colui che l'ha fatta”.
E così risalire dal giardino al Giardiniere, dalla spada al Fabbro. Alla Vita
vivificante e alla Bellezza che dà bellezza.
Come l'immagine di Joy si è rivelata inadeguata, rispetto alla sua vera realtà, così è della presenza di Dio:
Io ho bisogno di Cristo, e non di qualcosa che Gli somigli. Voglio H., e
non qualcosa che sia simile a lei. Una fotografia veramente bella potrebbe alla fine diventare
una trappola, un orrore, e un ostacolo.
Le immagini, devo supporre, hanno una loro utilità, o non sarebbero così
diffuse (non fa differenza che siano dentro o fuori la mente, ritratti e statue oppure
costrutti dell'immaginazione). Ma per me è più evidente il loro pericolo. Le
immagini del Sacro diventano facilmente immagini sacre, sacrosante. La mia idea di Dio non
è un'idea divina. Deve essere continuamente mandata in frantumi. Ed è Lui stesso
a farlo. Lui, il grande iconoclasta. Non potremmo quasi dire che questa frantumazione è
uno dei segni della Sua presenza? L'esempio supremo è l'Incarnazione, che lascia
distrutte dietro di sé tutte le precedenti idee del Messia. I più sono
“offesi” dall'iconoclastia; e beati quelli che non lo sono. Ma la stessa cosa
accade nelle nostre preghiere private.
Tutta la realtà è iconoclastica. L'amata terrena, già in questa vita,
trionfa incessantemente sulla semplice idea che abbiamo di lei. E noi vogliamo che sia
così: la vogliamo con tutte le sue resistenze, i suoi difetti, la sua
imprevedibilità. Ossia, nella sua realtà solida e indipendente. Ed è
questo, e non un'immagine, o un ricordo, che dobbiamo continuare ad amare, dopo che è
morta.
“Questo”, però, non è immaginabile ora. H. e tutti i morti sono,
in questo senso, simili a Dio. In questo senso amarla è diventato, nella sua misura,
come amare Lui.
Il distacco è una tappa nel cammino che porta ad amare il Creatore e la creatura nella loro esistenza reale e non come meri pensieri della nostra mente:
Non la mia idea di Dio, ma Dio. Non la mia idea di H., ma H. Sì, e
anche non la mia idea del mio prossimo, ma il mio prossimo. Forse che non facciamo spesso
questo errore con chi è ancora vivo, con chi è accanto a noi nella stessa stanza?
Rivolgendo le nostre parole e le nostre azioni non all'uomo vero ma al ritratto, al riassunto,
quasi, che ne abbiamo fatto nella nostra mente? E bisogna che lui se ne discosti in modo
radicale perché noi arriviamo ad accorgercene. Nella vita reale (è una delle
differenze tra la vita e i romanzi) le sue parole e le sue azioni, a osservarle bene, non sono
quasi mai “in carattere”, ossia, non rientrano in ciò che chiamiamo il suo
personaggio. Nella sua mano c'è sempre una carta di cui non sapevamo nulla.
Ciò che mi fa supporre di comportarmi in questo modo con gli altri è il
vedere quante volte gli altri si comportano palesemente in questo modo con me. Ci illudiamo
tutti di conoscerci l'un l'altro a menadito.
Tante domande su cui tanto si è insistito, si rivelano senza senso, già in questa vita. Cosa ne sarà delle nostre questioni al cospetto di Dio?
Può un mortale fare domande che Dio trova senza risposta?
Facilissimo, direi. Ogni domanda senza senso non ha risposta. Quante ore ci sono in un metro?
Giallo è quadrato o rotondo? E' probabile che buona parte dei nostri interrogativi
– buona parte delle nostre grandi questioni teologiche e metafisiche – siano
domande di questo genere.
E ora che ci penso, davanti a me non c'è nessunissimo problema pratico. Conosco i
due grandi comandamenti, ed è ora che cominci ad osservarli. Anzi, la morte di H. ha
messo fine al problema pratico. Finché era viva, avrei potuto, in pratica, anteporla a
Dio; ossia avrei potuto fare la volontà di lei, invece che quella di Lui; se fossero
state in conflitto.
L'unione mistica da un lato. La resurrezione del corpo dall'altro. Io non so raggiungere neppure la parvenza di un'immagine, di una formula, anche solo di una sensazione, che le combini. Eppure, secondo quello che ci viene detto, la realtà lo fa. La realtà, ancora una volta iconoclastica. Il cielo risolverà i nostri problemi, ma non, credo, mostrandoci sottili riconciliazioni fra tutte le idee che a noi apparivano contraddittorie. Quelle idee ci verranno strappate da sotto i piedi. Scopriremo che non c'era mai stato alcun problema.
Dobbiamo arrivare a vedere la vita come Dio la vede. E con i suoi stessi occhi. Là dove conoscenza e amore non si oppongono:
Si pensa spesso che i morti ci vedano. E noi assumiamo, ragionevolmente o
no, che, se è davvero così, essi ci vedono più chiaramente di prima. H.
vede ora quanta superficialità o quanti orpelli c'erano in quello che lei chiamava, che
io chiamo, il mio amore? Così sia. Guarda fino in fondo, cara. Non mi nasconderei
nemmeno se potessi. Noi non ci siamo idealizzati l'un l'altro. Abbiamo cercato di non avere
segreti fra noi. Tu già conoscevi gran parte delle mie zone guaste. Se ora vedi di
peggio, posso sopportarlo. E anche tu. Rimprovera, spiega, canzona, perdona. Perché
questo è uno dei miracoli dell'amore: che esso dà – a entrambi, ma forse
soprattutto alla donna – la capacità di vedere al di là dei suoi
incantamenti, ma senza che l'incanto scompaia.
Vedere in qualche misura, come Dio. Il Suo amore e la Sua conoscenza non sono distinti
l'uno dall'altra, né sono distinti da Lui. Potremmo quasi dire che Egli vede
perché ama, e quindi ama benché veda.
Ed ecco la coscienza che, se mai l'amore avrà termine, così mai esso sarà rivolto solo da una creatura all'altra, ma le creature stesse si volgono all'eterna fonte del loro essere, della loro vita e del loro amore:
Quando la fine fu vicina, le dissi: “Se puoi... se è permesso... vieni da me quando sarò anch'io sul letto di morte”. “Se è permesso!” rispose. “Il Cielo avrebbe un bel daffare a trattenermi. Quanto all'Inferno, lo ridurrei in briciole”. Sapeva di usare una sorta di linguaggio mitologico, con una nota di arguzia, perfino. Negli occhi, insieme alle lacrime, le brillava una risata. Ma non c'erano miti o scherzi nel lampo della volontà, più profonda di qualsiasi sentimento.
Tuttavia, l'esser giunto a fraintendere un po' meno totalmente che cosa potrebbe essere una pura intelligenza non deve farmi sporgere troppo in là. C'è anche, qualunque ne sia il significato, la resurrezione della carne. Non possiamo capire. Il meglio è forse ciò che meno comprendiamo.
Non si disputava un tempo per stabilire se la visione finale di Dio fosse soprattutto un atto di intelligenza oppure di amore? E' probabilmente una delle tante domande senza senso.
Che malvagità sarebbe, se ne avessimo il potere, richiamare in vita i morti! Non a me, ma al cappellano, disse: “Sono in pace con Dio”. E sorrise, ma non a me. Poi si tornò all'etterna fontana.
Viaggio in Inghilterra (Shadowlands), film ispirato (assai)
liberamente alla vita di Clive Staples Lewis e al suo matrimonio con Joy Davidman Gresham per
la regia di Sir Richard Attenborough, uscì negli USA il giorno di Natale 1993. Una
piéce dallo stesso titolo, opera di William Nicholson era stata prodotta dalla
BBC nel 1988 e da allora va in onda in America sulla PBS. La sceneggiatura del film rappresenta
un adattamento e un ampliamento dell'originale per mano dello stesso autore e viene descritta
nei titoli di testa come “una storia vera”. La pellicola ha conquistato in patria
un pubblico sempre più numeroso grazie alla bravura dei protagonisti, Debra Winger, nel
ruolo di Joy Davidman Gresham e Anthony Hopkins in quello di Lewis nonché all'elemento
di novità rappresentato dall'improbabile storia d'amore tra un attempato professore di
Oxford e un'ebrea americana divorziata convertitasi al cristianesimo. Visto il successo in
qualche modo sorprendente della pellicola che ha guadagnato alla Winger una nomination
all'Oscar, forse molti cristiani e ammiratori di C.S. (Jack) Lewis si chiederanno quanto il
film sia specchio fedele dell'ultimo decennio della vita del protagonista e viva testimonianza
della fede cristiana della coppia. Procederò quindi ad un'analisi della pellicola sotto
due distinti aspetti, quello strettamente filmico e quello biografico.
Va premesso che il film è assolutamente gradevole. Ho sorriso quando Joy piomba (quasi
letteralmente) nella vita da scapolo inveterato di Lewis, sconvolgendo le rigide consuetudini
dell'austera società maschile britannica con il suo esuberante, femminilissimo desiderio
di sapere e il suo chiassoso umorismo americano. E mi sono ritrovato con gli occhi umidi
quando, nell'ultima parte del film, la coraggiosa moglie di Jack prima lotta e poi soccombe ad
una neoplasia ossea. La pellicola rende bene inoltre i capricci e le eccentricità della
vita accademica britannica e dà vita ad alcune scene secondo me eccezionali in cui Lewis
dà prova delle sue formidabili qualità di insegnante ed esaminatore. Il linea
generale sia Anthony Hopkins nel ruolo di Jack, che Debra Winger alias Joy riescono ad evocare
magistralmente lo spirito se non il carisma di questa coppia insolita ed improbabile. Non
saprei immaginare un'interpretazione più autentica che meglio sappia catturare la
sfolgorante energia, l'emozione e l'intensa intellettualità del rapporto tra queste due
geniali creature di Dio. Riesco invece ad immaginare una sceneggiatura più rispettosa
dei dati biografici della vita matrimoniale di Joy e Jack – sicuramente altrettanto se
non più avvincenti delle invenzioni cinematografiche di cui è fondamentalmente
intessuta la trama. Interrogato sulle mie impressioni sul film ho spesso risposto con questa
battuta: “Molto bello. Peccato che non fosse su C.S. Lewis”.
Non intendo con questo cavillare su un paio di episodi inesatti inseriti in una sceneggiatura
altrimenti cronologicamente e biograficamente adeguata. Il film comprime maldestramente in due
anni un decennio di corrispondenza (iniziata nel 1950), i primi incontri e il
“corteggiamento” che infine portò alle nozze con Joy. I due figli avuti in
realtà da Joy, David e Douglas, diventano inspiegabilmente uno solo. L'amicizia
tempestosa e ricca di contrasti di opinione tra Lewis e personaggi britannici come J.R.R.
Tolkien e addirittura Dorothy L. Sayers, viene ignorata; a rappresentarli insieme al
“pubblico” di Lewis vengono chiamati personaggi di fantasia.
Il disprezzo manifestato da Lewis per le macchine moderne, le automobili in particolare, viene
risibilmente ignorato in parecchie scene grossolanamente travisate. Il semplice spettatore
critica qui la carenza di verosimiglianza. Si tratta tuttavia di compressioni e fusioni comuni
alla maggior parte delle biografie cinematografiche, in certa misura prevedibili. Ma non si
può passar sopra al fatto che la sceneggiatura in pratica non dà alcuna
espressione alla chiara, notoria, difesa della fede cristiana operata da Lewis nelle sue opere
letterarie e critiche, nella vita accademica e attraverso la sua persona pubblica come
commentatore radiofonico della BBC. Nel momento in cui Joy Gresham entra nella vita di Lewis
egli è certamente quella che oggi definiremmo una “celebrità
mediatica”, ed un cristiano, in tempi in cui a differenza dei nostri, personaggi del
genere erano rari. Nei primi anni '50 Lewis era famoso sulle due sponde dell'Atlantico per le
trasmissioni della BBC durante la II guerra mondiale in cui invitava i suoi compatrioti a non
abbandonare la fede e per la sua difesa ragionata del cristianesimo e delle sue dottrine
cardinali. Godeva di una solida reputazione (se pur offuscata tra i colleghi di Oxford e
Cambridge) di comunicatore cristiano e di teologo (benché si schermisse nel sentirsi
definire in questi termini). Uno dei principali motivi per cui Joy aveva cercato di mettersi in
contatto con Jack all'inizio degli anni '50 era per parlare di Cristianesimo – essendosi
convertita a Cristo durante una crisi di coscienza, avendo una visione del mondo simile a
quella di lui ed essendo lei stessa autrice di poesie e di scritti permeati da una fede
profonda. Il film accenna solo marginalmente a queste motivazioni, lo spettatore deve esserne a
conoscenza per conto suo oppure saper leggere con attenzione tra le righe per comprendere che i
due avevano in comune la cosa più importante che una coppia possa condividere: la fede
nel Vangelo.
Quando nel film si vede il protagonista impegnato in una delle sue abituali conferenze,
inevitabilmente parla di sofferenza – ironia vuole che si tratti di uno dei rari punti in
cui la sceneggiatura cita alla lettera le parole di Lewis - dando involontariamente
l'impressione che la sua prima ed unica preoccupazione fosse la collera divina o la disciplina.
In realtà Lewis scrisse un solo intenso saggio sulla sofferenza, The problem of
Pain, nel 1940 e all'inizio e alla metà degli anni '50 la sua attenzione si
concentrava su altri argomenti, preso com'era dalla stesura delle Cronache di Narnia e
dall'opera che considerava il proprio capolavoro, Till We Have Faces. Poiché la
sceneggiatura non presenta adeguatamente la carriera di Lewis come apologeta e autore di
narrativa e trascura di inserire nel contesto la fede condivisa da Joy e Jack, il pubblico
è portato a concludere che il cristianesimo sia per il protagonista una sorta di svago o
un retaggio delle sue origini irlandesi, non funzionale ad alcun obiettivo fondante della sua
vita, sia prima che dopo l'entrata in scena di Joy, se non in modo alquanto astratto e
intellettualizzato. Ma non fu affatto così. Fare un film su Jack e Joy minimizzando o
ignorando la centralità di Cristo nelle loro vite è come mettere in scena la vita
di Michael Jordan facendo minimo accenno alla pallacanestro.
Inoltre, poiché il fil rouge di Viaggio in Inghilterra è la
capacità di Joy di disarmare in qualche modo Lewis suscitando in lui dal profondo
sentimenti ed emozioni in precedenza soffocati o assenti, il pubblico è portato a
credere che Lewis mancasse di una vera esperienza delle cose del mondo – dovuta
all'isolamento derivante dalla sua posizione di accademico o da una fuga dalla realtà
iniziata a nove anni di età, con la morte della madre. E' vero, ovviamente, che Lewis
non era un individuo particolarmente emotivo o sentimentale secondo i canoni del moderno
maschio “sensibile” appartenente al mito e alla rovina di Hollywood. Era in
realtà una persona riservata, come si evince dalla sua autobiografia, Sorpreso dalla
gioia, in cui, rispetto agli standard moderni, pochissimo spazio è lasciato al
pettegolezzo, ai dettagli personali e a ciò che non ha parte diretta nella storia della
sua conversione.
Non ci sono prove tuttavia che si debba a Joy un Lewis “nuovo e migliore”, per la
prima volta nella sua vita “capace di esprimere i propri sentimenti”. Lewis non era
uno stoico, né dal punto di vista filosofico né altrimenti. Nessun individuo
dotato della sua sensibilità avrebbe potuto resistere alla commozione di fronte alla
fede e al coraggio dimostrati da Joy nella malattia e il film è credibile quando
descrive la sincera partecipazione del marito alla sua battaglia. La scena in cui Lewis
distrutto e disperato, inconsolabile e privo di qualsiasi conforto derivante dalla sua fede
cristiana si abbandona ad un pianto incontrollato con il piccolo “orfano” di Joy
è tuttavia deplorevole al massimo. Che una situazione del genere si sia verificata, non
c'è dubbio, ma che sia emblematica della vita della coppia e della fede in Dio del
protagonista è una mera assurdità. Il vero Lewis emerse dalle terre d'ombra del
lutto e della disperazione ad una fede ritrovata e rafforzata che pervade la sua ultima opera,
forse più la più rassicurante di tutte, Letters to Malcom, Chiefly on
Prayer.
Nonostante i numerosi pregi come pellicola, Viaggio in Inghilterra ha troppe pecche per
essere una guida attendibile alla comprensione della vera Joy e del vero Jack Lewis o del loro
ragionato impegno cristiano. Molti aspetti drammatici della vita di Joy che preludono al suo
incontro con Jack non vengono narrati nel film, e analogamente nella loro vita insieme, prima e
dopo la malattia di lei, sono presenti aspetti ancor più amari immotivatamente rimossi
dalla sceneggiatura. Reputo comunque positivo che il film abbia visto la luce, benché mi
lasci insoddisfatto il mancato utilizzo di dati biografici più attendibili. Il mio
più sincero auspicio è che il film porti il pubblico a scoprire in libreria
qualcosa di più sui Lewis, guadagnandosi il privilegio di fare la conoscenza di una
coppia dotata di una fede palese e pubblica nel Dio della Bibbia e nel Redentore che
salvò loro l'anima. Per chi non sa da dove iniziare suggerisco questi quattro testi
And God Came In, di Lyle Dorsett (Crossway) attendibile cronaca della relazione di Lewis
con Joy Davidman Gresham; Sorpreso dalla gioia (Jaca Book, Milano 1981), in cui Lewis
racconta la sua infanzia e la conversione in età adulta, A Grief Observed,
(Macmillan) mesto, dolente diario del lutto e del contrasto con la fede dopo la morte di Joy, e
Jack, di George Sayer (Crossway), ad oggi la più equilibrata biografia di
Lewis.
(traduzione di Emilia Benghi)
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