Presentiamo on-line la trascrizione di una relazione di don Andrea Lonardo. L’intervento
era stato preparato per il primo dei due incontri di prefettura proposti dalla diocesi di Roma agli operatori di
pastorale per l’anno 2007/2008. I testi a cui si accenna nel corso della relazione sono stati distribuiti in
fotocopia e sono allegati on-line al punto 10.
La trascrizione della seconda relazione sulla chiesa, compagnia affidabile, sarà presto disponibile
on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (12/2/2008)
Prima di entrare nel tema, voglio rivolgervi un ringraziamento ed una richiesta di scuse.
Il ringraziamento è perché siete catechisti o impegnati nei diversi servizi delle vostre parrocchie.
Per una comunità cristiana –e per i vostri preti- trovare persone come voi è la ricchezza
più bella. Siete di un’importanza enorme e tenere questi incontri è anche un modo di dirvi
grazie, di incoraggiarvi e di dirvi che se avete bisogno, potete contare su di noi per qualsiasi cosa.
Pensate, per comprendere questo ringraziamento, a due cose che sono straordinariamente belle. Primo: una persona
che si mette a disposizione dei bambini, dei giovani, degli adulti, dei fidanzati, già solo con questo dice la
bellezza della vita.
La chiesa non si limita a parlare della vita, ad annunziare che è bello avere un bambino in più. La
chiesa non solo dice pubblicamente che la famiglia può e deve avere tanti bambini, ma attraverso la catechesi,
l’oratorio, li aiuta veramente. Un catechista con la sua sola presenza, talvolta senza neanche accorgersene,
dice ai genitori: “Hai fatto bene ad avere un bambino! Sei stato proprio bravo; io sono contento che tu
abbia un figlio, per questo ti aiuto”. I catechisti non sono retribuiti, come gli istruttori della scuola
calcio o del tennis, ma svolgono il loro compito come a dire: “Io ti aiuto, ti sto vicino. Che cosa potevi fare
di meglio che far nascere una creatura? È faticoso, ma io sono contento con te”. Con la catechesi e gli
altri servizi la parrocchia dice innanzitutto questo. Voi con la vostra vita già dite questo annunzio di
gioia.
Secondo: il vostro ruolo essenziale è bellissimo perché siete gli unici a dire che quei bambini,
quei giovani, quei fidanzati, hanno bisogno di Dio. Cosa che a volte viene trascurata, sebbene sia la più
importante. Le persone si addormentano spesso tristi o arrabbiate, e pensano sempre che il problema stia da
un’altra parte. Se facesse meno freddo, o se lo sciopero non mi avesse lasciato senza benzina, o se avessi due
euro in più, o se cambiasse questo o quello, io mi addormenterei sereno. In realtà invece -questo
annunzia la Chiesa- è altrove il motivo radicale della mancanza di serenità e pace: finché non
si percepisce il senso della vita –e questo ci viene solo da Dio- ci manca qualcosa. La catechesi, al di
là delle singole realtà che annuncia (la comunione, i sacramenti, i comandamenti, cose di una bellezza
infinita!) dice una cosa più fondamentale: “Tu bambino, tu famiglia, tu separato, tu persona che cerca
la serenità, hai bisogno di Dio. Te l’hanno mai detto? Ti accorgi che è questo il punto da cui
partire per recuperare insieme il gusto di ogni frammento della vita?”
Vi ringrazio proprio perché voi siete questo. E non dimenticatevi mai di dirlo. Ogni tanto bisogna ricordare
ai genitori dei bambini delle comunioni, ai fidanzati che si preparano al matrimonio, ai ragazzi: “Guarda che
noi siamo qui semplicemente per dirti che puoi vivere questa comunione con Dio”.
La richiesta di scuse è più breve. Dovremo parlare oggi di Gesù e cercare di dire due parole che
possono esservi utili su questo libro che il papa ha scritto, Gesù di Nazaret, perché può
essere utile meditarlo, riflettere, e la prossima volta sulla Chiesa. Sono due temi enormi, che è difficile
affrontare in poco tempo, e d’altro canto sono temi con i quali voi lavorate da tutta una vita. Siete
catechisti perché amate Gesù e perché siete nella Chiesa. È, il nostro, solo uno spunto
per farvi riflettere.
“So a chi ho creduto”: con questo versetto della seconda lettera a Timoteo, ho
intitolato il primo punto. Cerco di spiegarvi perché.
Benedetto XVI sa che la fede è affidare la propria vita a Cristo. Ma proprio perché la posta in
gioco è così alta –io dono a Dio niente di meno che me stesso, tutto me stesso- ecco che è
importante sapere a chi la dono. In un passaggio del libro Gesù di Nazaret mostra come la
discussione sulla verità del cristianesimo sia necessaria. E spiega che, se appena si scava un po’
in profondità, tutti lo capiscono benissimo, anche quelli che in un primo momento pensavano che in fondo era
corretto affermare che tutte le religioni sono uguali.
Il pensiero contemporaneo tende a dire che ognuno dovrebbe vivere la propria religione, o forse anche
l’ateismo in cui si trova. In questo modo arriverebbe la salvezza. Un’opinione simile presuppone
un’immagine molto strana di Dio e una strana idea dell’uomo e del modo corretto dell’essere uomo.
Cerchiamo di chiarirci questo punto con un paio di domande pratiche. Forse qualcuno diventa beato e verrà
riconosciuto come giusto da Dio perché ha rispettato secondo coscienza i doveri della vendetta di sangue?
Perché si è impegnato con forza per la e nella «guerra santa»? O perché ha offerto
in sacrificio determinati animali? O perché ha rispettato abluzioni rituali o altre osservanze religiose?
Perché ha dichiarato norma di coscienza le sue opinioni e i suoi desideri e in questo modo ha elevato se
stesso a criterio? No, Dio esige il contrario: esige il risveglio interiore per il suo silenzioso parlarci, che
è presente in noi e ci strappa alle mere abitudini conducendoci sulla via della verità; esige
persone che «hanno fame e sete della giustizia» - questa è la via aperta a tutti; è la via
che approda a Gesù Cristo.
È ben diverso essere cristiani oppure fare un sacrificio agli dei sgozzando degli animali, come facevano gi
antichi romani, o ancora attuando il terrorismo suicida. Anche un bambino si accorge che questi tre modi possono
essere chiamati insieme fede, ma, in realtà, sono radicalmente diversi l’uno
dall’altro.
Così noi siamo cristiani perché sappiamo a chi abbiamo creduto. Io non posso dire: “Io
credo”, e basta. Se io non so indicare in chi credo, chi è costui, che cosa mi ha rivelato, la mia
fede è un’ombra, una cosa emotiva, una cosa senza senso. La fede cristiana sa spiegare perché
crediamo e chi è Colui al quale noi crediamo. Proprio il Credo ce lo mostra: noi crediamo che Dio
è Padre e creatore, che ha mandato il Figlio, che il Figlio è morto sotto Ponzio Pilato, che è
resuscitato, ecc. ecc.
Questa affermazione non è scontata: pochi giorni fa mi trovavo in una pizzeria e due persone si sono messe a
parlare e concordavano nel dire che la fede è come l’appartenenza alla squadra del cuore. Essere della
Roma o della Lazio dipende dall’essere nati da genitori dell’una o dell’altra squadra, non
c’è nessuna motivazione, è così e basta! Io ho sorriso ed ho provato a dire che non
è così, che esiste la conversione proprio perché si scopre il vero volto di Dio.
La fede cristiana dice da sempre che non è così e Benedetto XIV lo ripete con grande forza. La fede
cristiana ama discutere. Noi siamo cristiani perché capiamo che essere cristiani è diverso
dall’essere atei, con tutto il rispetto per gli atei -perché sapere chi sono io non mi porta ad odiare o
a disprezzare l’altro, ma mi fa capire chi sono e chi è l’altro, così come l’altro sa
benissimo di essere ateo, o musulmano, o testimone di Geova e di non essere cattolico. La fede sa spiegare, ama il
dibattito, la comprensione, perché cerca la verità. Io credo proprio perché ho scoperto che
Dio ha il volto di Gesù Cristo e non lo cambierei con nessun altro.
Facciamo subito un altro esempio, che riguarda l’ambito dell’affettività umana, ma può
farci capire cosa vuol dire questo “So a chi ho creduto”. La fede ha un aspetto conoscitivo esattamente
come l’amore. Perché alcune ragazze (ma è lo stesso per i ragazzi) fanno dei matrimoni terribili?
Perché dicono: “Io lo amo, emotivamente mi sento di andare verso quel ragazzo”. Questo capita
soprattutto ad alcune ragazze che si fanno facilmente trasportare dalle emozioni. Poi l’altro è uno che
non ha voglia di studiare o di lavorare, non fa niente, non è fedele alla parola data, è una persona
problematica. Ma tutto questo a loro non importa, continuano ad affermare di amare quel ragazzo. Poi, dopo il
matrimonio, si rendono conto che mancano i soldi in casa, che l’altro è un irresponsabile, che non vuole
avere un bambino ecc. Perché l’amore per essere reale deve conoscere l’altro. L’amore non
è la mia emozione che mi spinge verso di te, ma implica, quando diventa serio, un reale rapporto con la
verità dell’altro. Io per amare l’altro devo capire chi è veramente, altrimenti la mia
è solo un’emozione che andrà fatalmente a scontrarsi con la realtà dell’altro.
A livello molto più grande la fede cristiana ci dice, e noi lo capiamo benissimo, che noi siamo cristiani
proprio perché sappiamo chi è questo Gesù. Capiamo il suo amore, la sua misericordia, il suo
perdono, il suo essere la presenza di Dio in mezzo agli uomini. Ed è perché sappiamo chi è che
gli crediamo.
Ma deve esserci anche l’altro aspetto: se noi dicessimo che veramente Gesù è stato mandato
dal Padre, che veramente Dio è misericordia, e però poi non gli affidassimo la nostra vita, non
mettessimo la vita nelle sue mani, mancherebbe una parte, perché una volta che io ho conosciuto il
Signore, poi mi devo affidare a Lui. Pensate tornando all’esempio di prima, se una persona dicesse: “Quel
ragazzo è bravo, buono, intelligente, studia, però io non mi fido!”. Alcune persone non si fidano
mai. Sono amate da venti anni e ancora, appena si presenta un problema, sono pronte a rimettere tutto in discussione,
a dire: “Ma tu non mi hai mai amato”, e non si affidano mai, non lasciano mai le redini della loro
vita.
Ecco, la fede è questa fiducia per cui io dico: “Fai di me secondo la tua volontà”. Io non
devo avere il controllo di tutto ciò che avviene, perché ho fiducia in te, ma ho fiducia perché
ti conosco e ti conosco perché ho fiducia. E’ un circolo virtuoso. Queste due cose non si possono
separare.
Vedete come il CCC 150 sintetizzi questo aspetto con le parole:La fede è
innanzi tutto una adesione personale dell'uomo a Dio;
Quando Gesù dice: “Seguimi”, noi lo seguiamo. Noi siamo cristiani perché diciamo:
“Siamo tuoi discepoli”. Anche se non capiamo sempre e subito, noi lo seguiamo, per la fiducia che diamo
direttamente alla sua persona ed alla sua parola.
Continua il CCC 150: Al tempo stesso ed inseparabilmente, la fede è l'assenso libero a tutta la
verità che Dio ha rivelato.
Noi diciamo anche: “Ti conosco, so chi sei e quali verità hai donato, al punto che ne posso parlare e le
posso spiegare ad altri. Io non sono solo uno che ‘crede’, ma sono uno che ‘crede che’
Gesù è il Signore, che crede che il Padre ha mandato Gesù, crede che Gesù è morto
per i nostri peccati, crede che Gesù è risorto, che ha costituito la Chiesa”.
L’espressione corretta della nostra fede è anche: “Io credo che...”.
Così l’aspetto della fiducia al Cristo stesso viene chiamata fides qua creditur,
cioè ‘la fede con la quale io credo’, cioè il mio abbandono, la mia totale
disponibilità, la mia certezza nella sua misericordia. Invece, l’aspetto del contenuto della fede
viene chiamata fides quae creditur, cioè ‘la fede che io credo’, con tutta la
sua verità, con tutta la comprensione di chi è colui al quale ho creduto. Benedetto XVI ci ricorda
continuamente che queste due dimensioni sono inseparabili.
Questo è decisivo per noi, ma anche per la catechesi, per l’evangelizzazione, per la pastorale.
C’è un brano del discorso che il Papa ha fatto a Verona che racconta come la Chiesa, nei primi secoli
del cristianesimo, ha conquistato il mondo pagano. Come ha fatto il cristianesimo che era perseguitato, che non
solo non aveva armi, ma che le armi le subiva, a convincere il mondo pagano della fede? Benedetto XVI dice che il
cristianesimo ha conquistato il mondo tenendo insieme il logos e
l’agape. Logos è una parola greca che vuol dire la sapienza, il senso. Questa
parola è stata usata perché Dio è la sapienza originaria di tutto, che viene prima della
bellezza del mondo, prima delle meraviglie delle galassie, del nostro corpo, del nostro amore. Noi possiamo capire,
perché Dio è sapienza. L’evangelista Giovanni nel suo prologo dirà che il logos
è Gesù stesso, è il Figlio fatto carne. Per questo il cristianesimo ha cominciato a discutere
con i filosofi, chiedendo: “Ma perché credete agli idoli? Sono di pietra. Non vedete che non sono veri?
Noi, invece, possiamo darvi ragione della nostra fede, della nostra speranza”.
Pensate anche a quel passaggio del discorso che il papa avrebbe dovuto tenere all’università La
Sapienza nel quale si dice che la domanda di Socrate sulla verità della religione i cristiani non
l’hanno ritenuta irreligiosa, ma anzi l’hanno accolta come corrispondente alla verità della
fede che ama discutere e capire!
Ma insieme a questo e inseparabilmente da questo il cristianesimo è amore. Agape vuol
dire amore di donazione, amore generoso che di tutti ha cura, perché Dio è amore, oltre che
sapienza e saggezza. È quell’amore sorto nel cristianesimo per cui gli esseri umani sono fratelli
tra loro, per cui gli orfani e le vedove erano trattati bene fin dagli inizi della chiesa, e così i poveri, e
così anche color che appartenevano ad altri culti religiosi. Le persone erano conquistate da questo.
Il papa dice che il cristianesimo ha convinto il mondo tenendo insieme queste due cose. Ci fosse stata solo la
sapienza, il logos, sarebbe mancato l’amore. Ci fosse stato solo l’amore,l’amore può
essere un impulso cieco, una sbandata, un’emozione; in realtà il cristianesimo, fin dagli inizi, ha
tenuto insieme queste due cose.
Questo logos e questo agape non si possono mai separare. Così il cristianesimo ha conquistato i
cuori e le menti di coloro che erano pagani e ancora oggi questa è la sua via.
Veniamo al secondo punto di questa riflessione che stiamo facendo. Dunque questo libro
Gesù di Nazaret cerca di dire: ma se noi dovessimo spiegare cos’è il cristianesimo,
cosa diremmo? Qual è la differenza tra l’essere cristiano e l’essere ateo, buddista, testimone
di Geova?
Proprio questo è il genere letterario del libro del papa. Non è un trattato completo di esegesi
neotestamentaria e nemmeno un trattato sistematico di teologia dogmatica –e chi lo affronta da questo punto di
vista, commette un errore- ma il suo genere letterario è quello di un’opera sull’essenza del
cristianesimo, un volume che cerca di definire qual è l’essenza del cristianesimo.
Il papa, già con il titolo dell’opera, risponde che il cristianesimo non è un’idea, non
è un pensiero, non è un valore, ma è la persona di Gesù di Nazaret. Benedetto XVI si
richiama fin dalla Premessa ad alcuni autori che hanno cercato nel secolo passato di presentare perché
la fede cristiana è basata su Gesù.
Il riferimento d’obbligo è a Romano Guardini e al suo libro L’essenza del
cristianesimo. Noi possiamo rifarci al suo modo di procedere per comprendere il volume del papa. Guardini
spiega come sarebbe facile trovare alcuni che potrebbero affermare che l’essenza del cristianesimo è
l’amore. Basta vivere l’amore e sei cristiano. Cos’è il cristianesimo? –direbbero
costoro. È volersi bene! Il papa –seguendo Guardini e tutta la tradizione cristiana fin dalle origini-
ci avverte che questo è sbagliato.
Da un lato è vero che solo in quelle culture che hanno le loro radici nel cristianesimo la risposta
immediata alla questione di quale sia il valore supremo è: l’amore, la carità. Nella vita
ciò che conta è la carità. Per noi veramente l’amore è al cuore di tutto.
L’immediatezza nel ritenere la carità il cuore dell’esistenza è una risposta tipicamente
cristiana. Roberto Benigni nello spettacolo su Dante che sta presentando in questo periodo dice: “La
carità l’ha inventata Gesù! Quando nel Colosseo si assisteva per divertimento
all’uccisione di esseri umani, Seneca, che era un grandissimo filosofo, diceva che lui a questo spettacolo si
annoiava, non si divertiva. Era il massimo a cui si arrivava, non diceva che era una cosa orribile, che non era
possibile far morire così delle persone, perché era un atto contro l’amore, contro la
carità”.
Il cristianesimo segnerà la fine del Colosseo, perché entrerà pian piano nei cuori e
nelle menti delle persone e queste si renderanno conto che quel tipo di intrattenimento è orrendo,
perché l’uomo deve essere amato.
Il papa però ci dice che il cristianesimo non è carità, ma è Gesù che è
carità. Il cristianesimo non è l’amore o la carità in astratto, perché noi il
termine carità lo pieghiamo alle nostre esigenze. Uno uccide la moglie e dice: “L’ho fatto per
amore, l’amavo talmente da non poterla vedere tra le braccia di un altro”. Un altro dice: “Amo mio
figlio e per questo lo obbligo a fare una cosa invece di un’altra”.
Cos’è l’amore? È una domanda importante. Ma soprattutto come si fa ad amare quando io
sono tradito? Come fa un palestinese che ha avuto l’intera famiglia sterminata, o un israeliano che ha
visto morire tanti suoi parenti? Come faccio io a voler bene ad un altro che mi ha ferito? A mia moglie che se
n’è andata con un altro? E dove trovo la forza della carità quando io ho tradito, ho ucciso, sono
nel peccato?
La risposta cristiana, bellissima è che la carità è possibile perché Cristo ha amato
noi. La carità non comincia con la nostra vita, ma è Cristo stesso che ci ama, e per questo noi
amiamo, e per questo noi, anche se non ci riusciamo, diciamo che bisogna amarsi lo stesso. Perché Lui è
la carità. La risposta quindi è che il cristianesimo è Gesù, non è la
carità. È vero allora che il cristianesimo è la carità, che la centralità
dell’amore è nata dalla storia di Gesù –anche qui ricordiamo Benigni che spiega come
l’amore cortese, l’amore con tutto il rispetto della donna, nasce dall’annunciazione, da Dio che
attende il sì di Maria e non può imporle nulla contro la sua volontà. Ma, più
profondamente, il cristianesimo è appunto la carità di Cristo che rende possibile la carità del
mondo.
Fermiamoci ancora a riflettere su questo, perché è molto importante. Altri, alla domanda qual
è l’essenza del cristianesimo, potrebbero rispondere che il cristianesimo è il perdono, che
l’essenza della fede cristiana consiste nel perdono, che il perdono è la caratteristica propria del
cristianesimo.
Da un lato questo è vero, nel senso che solamente all’interno del cristianesimo il perdono viene ad
essere considerato un valore altissimo. Pensate ad una cosa che succede spesso in televisione. C’è
uno al quale hanno ucciso dei cari e subito si presenta un giornalista che lo incalza: “Ma tu perdoni?”.
Il perdono è così dentro la nostra civiltà che noi subito (in questo caso in modo improprio) ci
poniamo la domanda. In altri contesti culturali e religiosi non succederebbe perché il concetto di perdono non
fa parte del patrimonio comune in modo così forte. Il perdono è veramente al centro della fede, ma,
di nuovo, è il nostro perdono o c’è il perdono di Gesù? Noi diciamo che il cristianesimo
è la croce di Cristo che ci perdona. È il Suo perdono che ci salva. Il cristianesimo è
Gesù, non il perdono. È la sua persona.
Una terza risposta che è facile incontrare è quella di coloro che sostengono che il cristianesimo
è l’affermazione del valore assoluto dell’uomo, del singolo, della persona. Non importa che
vinca un popolo, una classe, come nel fascismo, nel comunismo, dove non importa cosa succede al singolo purché
alla fine la propria concezione della società esca vittoriosa. Il cristiano afferma che ogni singola persona
è preziosa, non si può arrivare ad una società giusta passando sul cadavere fosse anche di un
solo uomo. La persona è fondamentale. Pensate a quanto voi stessi siete espressione di questo, quando ai
genitori dite con la vostra presenza che il loro figlio è importante. La Chiesa dice che dall’embrione,
al bambino, al ragazzo, all’adulto, all’ergastolano, al cattivo, al vecchio, la persona è
importante. Guai a chi tocca la persona. In occasione della tragedia nella quale hanno perso la vita degli operai a
Torino, il nostro Primo Ministro ha usato l’espressione: “La vita è sacra”. E chi
è ateo o laicista, questa volta non ha protestato. Eppure come si fa a dire la vita è sacra se si
è atei? È un paradosso, ma è un paradosso ineliminabile! Da un lato ci si spinge continuamente a
ragionare solo secondo le regole della scienza, dall’altro si usa un termine che attiene alla fede. Il
cristianesimo non dice semplicemente che “la persona è sacra”, ma anche che la persona è
sacra perché Cristo l’ha amata, perché prima della persona c’è Dio che l’ha
voluta. Ci fosse solo la natura, l’evoluzione della materia, la persona non sarebbe sacra, perché la
natura non piange la morte degli uomini.
In sintesi, il libro Gesù di Nazaret ci invita innanzitutto a questo punto essenziale:
l’essenza del cristianesimo è una persona, è Gesù di Nazaret ed è dalla sua
persona che scaturiscono quelle realtà delle quali andiamo giustamente fieri, il primato della carità,
l’altissimo valore del perdono ed, infine, la dignità, l’inviolabilità e la libertà
della singola persona umana.
Così Benedetto XVI scrive un libro sull’essenza del cristianesimo e lo fa ponendo
Gesù al centro dell’attenzione. Il terzo passo che facciamo insieme è quello di cercare di
comprendere qual è il cuore della personalità di Gesù di Nazaret, che cosa ha portato di
veramente nuovo al mondo. Se tornate a leggere il libro Gesù di Nazaret vi accorgete che sono queste
le domande che ricorrono più frequentemente nel testo: “Che cosa ha portato Gesù? Qual è
il vero centro della sua personalità?”
Possiamo leggere, ad esempio, in Gesù di Nazaret:
Qui sorge però la grande domanda che ci accompagnerà per tutto questo libro: ma che cosa ha portato
Gesù veramente, se non ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, un mondo migliore? Che cosa ha
portato? La risposta è molto semplice: Dio. Ha portato Dio. Quel Dio, il cui volto si era prima
manifestato a poco a poco da Abramo fino alla letteratura sapienziale, passando per Mosè e i Profeti –
quel Dio che solo in Israele aveva mostrato il suo volto e che, pur sotto molteplici ombre, era stato onorato nel
mondo delle genti – questo Dio, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio vero Egli ha portato ai
popoli della terra. Ha portato Dio: ora noi conosciamo il suo volto, ora noi possiamo invocarlo. Ora conosciamo la
strada che, come uomini, dobbiamo prendere in questo mondo. Gesù ha portato Dio e con Lui la verità sul
nostro destino e la nostra provenienza; la fede, la speranza e l’amore. Solo la nostra durezza di cuore ci
fa ritenere che ciò sia poco. Sì, il potere di Dio nel mondo è silenzioso, ma è il potere
vero, duraturo.
E’ molto bella questa conclusione. Quello che Gesù ha fatto portandoci Dio è veramente la cosa
più grande che potesse avvenire sulla Terra ed è il grande motivo per cui noi siamo cristiani.
“Solo la nostra durezza di cuore ci fa ritenere che ciò sia poco!”
Ma subito l’Autore aggiunge una considerazione fondamentale per capire questa affermazione. Gesù
può fare questo, perché è il Figlio unico del Padre. La sua rivelazione di Dio è vera
ed è diversa da tutti i tentativi di parlare di Dio che l’hanno preceduto e che lo seguiranno, proprio
perché egli parla del Padre essendone Figlio. Insomma, Gesù non porta un annuncio che è
esterno a lui, come se egli stesso non ne facesse parte. Gesù di Nazaret spiega questo in tanti passaggi.
Vediamo almeno uno che, nella sua semplicità, chiarisce il cammino proposto. Benedetto XVI ricorda che un
autore dei primi del ‘900, von Harnack aveva affermato che l’annuncio di Gesù sarebbe un annuncio
sul Padre, di cui il Figlio non farebbe parte. Gesù sarebbe così semplicemente un credente, uno che
crede che Dio è Padre. Così scrive il papa:
La famosa affermazione di Adolf von Harnack secondo la quale l’annuncio di Gesù sarebbe un annuncio
sul Padre, di cui il Figlio non farebbe parte – e dunque la cristologia non apparterrebbe all’annuncio di
Gesù – è una tesi che si smentisce da sola. Gesù può parlare del Padre,
così come fa, solo perché è il Figlio e vive in comunione filiale con il Padre. La
dimensione cristologia, cioè il mistero del Figlio come rivelatore del Padre, la «cristologia»,
è presente in tutti i discorsi e in tutte le azioni di Gesù.
Il papa cerca di mostrare così come dai vangeli emerga una realtà profondamente diversa, più
ricca e più bella anche del nostro essere credenti: io capisco chi è il Padre perché amo il
Figlio. Non posso chiamare Dio Padre, se non comprendendo in che maniera Gesù ne è veramente il
Figlio che me ne parla, me lo manifesta, lo rende presente nei suoi gesti, nella sua vita stessa, nella sua
realtà. Realmente Gesù ha la consapevolezza di portare Dio nel mondo in maniera assolutamente
unica.
Potremmo sintetizzare tutto questo discorso con una riflessione sintetica molto bella proposta dal cardinal Ruini
nella presentazione che ha fatto ai sacerdoti di Roma del libro di Benedetto XVI. Il cardinale, portando il discorso
all’essenziale, indicava che per capire chi è Dio bisogna guardare Gesù. Il cristianesimo
dice che Dio c’è, che è bellissimo che esista, ma che per conoscerlo dobbiamo guardare a
Gesù. È Lui e solo Lui che ci fa capire chi è Dio e cosa sono per Dio il perdono, la
carità, la bellezza.
Ma, continuava, c’è una constatazione simmetrica che dobbiamo fare: se vogliamo conoscere
Gesù, chi è veramente Gesù, dobbiamo guardare a Dio che ce lo ha mandato come Figlio. Come
non possiamo capire chi è Dio, senza guardare a Gesù, così non possiamo capire chi è
Gesù senza guardare a Dio.
Chi è Gesù? Cosa ha di diverso dalle altre persone? Perché proprio Lui e non un altro ci
rivela il Padre? Il libro del papa risponde in maniera straordinariamente semplice e al contempo ricchissima,
dicendo che Gesù non ci parla di Dio come di un altro da sé. Gesù non dice solo “Credete
in Dio”, ma anche “credete in me, le parole che io vi dico sono le parole del Padre, le opere che io
compio sono le sue opere”; Gesù ci parla come Colui che, unico, conosce Dio, perché di Dio sono
le parole che Gesù dice ed il Padre ama e salva dentro l’amore stesso di Gesù.
Per approfondire questo possiamo fare riferimento ad una parola che è usata dal Nuovo
Testamento: il misterodi Dio. È un termine utilizzato in particolare da san Paolo
che però aggiunge subito che questo mistero Dio ce lo ha rivelato. Dio, donandoci Gesù, ci ha
rivelato se stesso. È importante capire correttamente questa parola. Nell’accezione comune
mistero è qualcosa del quale non si capisce nulla, qualcosa che è incomprensibile. Tanti
pensano: “La fede è un mistero perché non ci si capisce niente”.
Il Nuovo Testamento invece dice che il mistero “ci è stato fatto conoscere”. Per capire questo
significato di mistero possiamo rifarci ad un’esperienza umana. Ogni persona è in realtà
un mistero. Quante volte, dopo anni che conosciamo una persona, improvvisamente la capiamo, perché ci racconta
un episodio della sua infanzia, ci racconta perché ha sofferto. A noi sacerdoti succede spesso nella
confessione. Talvolta una persona decide di confessarsi dopo tanti anni e il suo racconto ci fa finalmente capire
perché è triste, perché è arrabbiata, il perché di alcune sue reazioni che prima
ci erano incomprensibili. Quella persona ci ha svelato il suo mistero. Se lei non ce lo racconta, noi non possiamo
capirla.
Prendete anche il caso tipico dell’adolescente. Il bambino racconta tutto quello che gli succede, poi
improvvisamente, con la crescita, smette di parlare ai genitori. Io ero esattamente così. Tornavo a casa e mia
madre mi chiedeva: “Come è andata a scuola?”, “Ma sei triste?”, “Come mai oggi
sei così elegante? Così contento?”. Le risposte erano sempre le stesse: “Bene”,
“Normale”, “Niente”. Poi magari eri disperato perché la ragazza ti aveva lasciato, o
felice perché eri innamorato, ma tra te e gli altri c’era una parete impenetrabile.
Perché io il mio mistero non te lo faccio conoscere e posso farti conoscere chi sono solamente quando decido
di raccontarmi. Quando le madri sottopongono i figli a continui interrogatori, sollecitando una risposta, compiono
un’operazione completamente inutile. Perché il nostro mistero è una porta che può
essere aperta solo dall’interno, non può essere forzata dall’esterno. Solo noi possiamo
rivelarci.
Questo che è vero per l’uomo è massimamente vero per Dio. Come può l’uomo
pretendere di sapere chi è Dio? In questo l’islam e l’ebraismo hanno ragione, e lo dice il
papa all’inizio del libro. L’ebraismo nega che si possa vedere Dio. Mosè può vedere solo le
spalle di Dio, non il suo volto. Perché se tu lo vedi vuol dire che non è Dio, perché Dio
è così grande che tu non puoi conoscerlo.
Ancora di più nell’islam, Dio è inconoscibile. Il Corano non dice chi è Dio, ma solo cosa
l’uomo deve fare per essere nella volontà di Dio. Io non posso entrare nel cuore di Dio perché
Dio è assolutamente trascendente. Per questo l’islam e l’ebraismo sono aniconici, Dio non si
può nemmeno raffigurare. Mentre nel cattolicesimo è obbligatorio fare le immagini, perché
siccome c’è l’immagine che è Cristo, se un cristiano non dipinge vuol dire che sta perdendo
la fede. Nel Concilio Niceno II si è arrivati a questa definizione: non solo che si possono fare le immagini,
ma che è obbligatorio.
Il cristianesimo riconosce che queste altre due religioni dicono il vero su tale aspetto, non è possibile
conoscere Dio. Ma subito il cristianesimo fa un aggiunta importantissima: a meno che Lui stesso non decida di farsi
conoscere! Il cristiano è uno che riconosce che mai l’uomo potrebbe arrivare a Dio con le sue forze,
ma se Dio decide di farsi conoscere, noi possiamo dire: “Io so a chi credo, io lo conosco”. Noi siamo
cristiani perché crediamo che in Gesù il Padre si è veramente fatto conoscere.
Mai, prima di Gesù Cristo, nessuno è stato cristiano. Tutti erano liberi di esserlo, ma la
libertà non dipende soltanto da me, non basta che io desideri una cosa, questa cosa deve essermi donata
perché io la possa accogliere. Se non ci fosse la catechesi nessuno potrebbe essere cristiano. A volte le
persone dicono: io sono libero di essere cristiano, libero di fare la comunione. Ma si nasconde un passaggio: tu sei
libero di fare la comunione se c’è un altro che te la dà.
È una cosa che in modo semplice può divenire materia di riflessione anche per dei bambini. Potete dire:
“Pensate, quando voi avrete dei figli e dei nipoti, se qualcuno di voi bambini nel frattempo non sarà
diventato prete, uno vorrà avere la comunione, ma non potrà riceverla perché non ci sarà
nessuno che gliela darà!” I preti devono nascere in ogni generazione, perché se tu desideri la
comunione, essa ti possa essere donata.
Il mistero della rivelazione di Dio ci è così svelata in Cristo. Questo mistero è così un
dono che viene da Dio verso di noi. È mistero che ci viene offerto. E, come dice la Dei Verbum,
Cristo ne è il mediatore e ne è la pienezza. Cioè innanzitutto ci arriva solo tramite la sua
mediazione. Potremmo aprire qui una lunga digressione –ma il tempo ce lo impedisce- su quella cultura
dell’immediato, cioè del non mediato in cui siamo immersi, per mostrare come ciò che è
mediato è più verificabile di ciò che è immediato, contrariamente a ciò che si
pensa superficialmente, perché l’uomo vive nelle mediazioni.
Ma non solo Cristo è il mediatore. Egli è anche la pienezza della rivelazione, perché Dio si
dona e si rivela totalmente in Lui. Ed è per questo che noi siamo cristiani.
Veniamo ad un ulteriore passaggio, quello del Gesù storico, del “Gesù
reale” su cui molto insiste il libro, perché anche noi torniamo a soffermarci su questo nella
catechesi e nell’annuncio. È un passaggio molto importante e molto insistito nel volume.
Se Gesù, cioè, non fosse stato realmente quello che sostanzialmente i vangeli ci dicono, noi
sbaglieremmo a dirci cristiani. Se i vangeli avessero ricostruito una immagine di Gesù sostanzialmente
difforme dalla sua realtà, la fede non avrebbe senso. Attenzione, è importante chiarire bene
questo: non in tutti i singoli particolari, sui quali anzi la chiesa afferma che un legittimo dibattito è
ammesso –pensate solo alle discrepanze che ci sono fra i vari testi- ma in quel nucleo che è
riportato unanimemente e saldamente attestato proprio nella differenza dei punti di vista prospettici dei sinottici,
di Giovanni, di Paolo e degli altri autori.
Se avessero ragione quelli che sostengono che Gesù in fondo non era Dio e non pensava di esserlo, che è
morto condannato politicamente, perché lo hanno perseguitato, ma non per i nostri peccati, non liberamente per
istituire nel nome di Dio la nuova alleanza, la fede non avrebbe più senso. Facciamo un esempio che i ragazzi
sicuramente conoscono. Pensate alla grande astuzia commerciale di Dan Brown, l’autore del romanzetto
“Il Codice da Vinci”. In fondo qual è l’assunto di questo immeritatamente famoso libro?
Che Gesù, dopo aver parlato delle beatitudini, dell’amore ai nemici, del morire in croce, della
castità, della povertà, dell’obbedienza, di Dio il Padre, ecc., arriva all’ultima cena, al
momento in cui deve perdere tutto, deve donarsi completamente, arriva a quell’ultima notte nella quale tutti
sono radunati intorno a lui per la Pasqua, e dice: “Scusate ragazzi, mi sono sbagliato, mi sposo, metto su
famiglia, me ne vado. Tanti saluti, abbiamo scherzato”. E fonda la dinastia dei Merovingi che lotteranno contro
altri re. Insomma Gesù sarebbe un monarchico, fondatore di una dinastia regale, contrapposta ad altre.
Non mi interessa qui mostrare come questo sia offensivo non solo del Signore, ma anche di Leonardo da Vinci che nel
Cenacolo ha voluto mostrare proprio il dramma di Gesù che annunzia il suo tradimento e la sua morte, prima che
essa avvenga. Mi interessa piuttosto farvi rifletter sulla posta che è in gioco. L’eucarestia
è l’anticipazione della croce. C’è un nesso indissolubile fra ultima cena e croce.
Quando Gesù dice, in quell’ultima cena: “Questo è il mio corpo che è dato per voi...
questo è il mio sangue per la nuova alleanza, per il perdono dei peccati”, sta certamente istituendo
l’eucarestia per sempre, ma prima ancora sta dicendo che è lui ad offrire la sua vita per noi e per
tutti. Sta annunciando che certo morirà per le accuse del Sinedrio, per il tradimento di Giuda, per
l’irresponsabilità di Pilato, ma ancor più, per sua libera decisione di amore, di compiere il
disegno del Padre. Se Gesù non fosse morto realmente e se ne fosse andato dalla cena, scappando per
salvarsi, o se fosse morto per decisione altrui, ma non offrendo se stesso, tutta la fede cristiana sarebbe vuota e
senza senso! Dio non ci avrebbe amati e salvati in Cristo.
Questa è la novità del cristianesimo, che il peccato che commette l’uomo, cade sulle spalle di
Dio. E questo avviene in Gesù, ed il “Gesù reale” ha vissuto questo. Se non fosse vero
questo, se Gesù fosse solo, come dicono alcuni autori della cosiddetta Third Quest, la terza ricerca su
Gesù, un rabbino molto intelligente, liberale, aperto, morto perché tutti i giusti vengono prima o poi
perseguitati, il cristianesimo allora cosa sarebbe? Sarebbe solo una bella idea inventata successivamente dagli
apostoli, che, paradossalmente, sarebbero migliori del loro maestro. Sarebbero loro ad aver cambiato il corso
della storia del mondo introducendovi l’idea più bella e più ricca mai pensata prima! Non ci
sarebbe più il cuore del cristianesimo. Vedremo fra un attimo cosa possiamo dire per argomentare sulla
storicità del Nuovo Testamento.
Prima di questo è importante soffermarsi a considerare come è proprio questo Gesù reale ad
essere rilevante, interessante per l’uomo. A volte, infatti, si è pensato che una riduzione della
figura di Gesù fosse necessaria non tanto per ragioni storiche, quanto proprio per una maggiore
accettabilità della fede nel contesto odierno. Il tacere sull’identità di Cristo –secondo
queste correnti di pensiero- lo renderebbe più vicino, più interessante, più comprensibile al
nostro contemporaneo. È vero, piuttosto, il contrario: un Gesù sminuito e ridotto al rango di
predicatore di valori, come tanti maestri di morale, come altri rabbini che si sforzavano di dare una loro
plausibile interpretazione dell’Antico Testamento, perderebbe ogni sua rilevanza e
credibilità!
Anche qui un esempio. Ho meditato in questi giorni il tema della creazione, come lo presenta la Spe
salvi. Il papa presenta due possibilità che sono sempre state dibattute
dall’umanità. Prima possibilità: esiste la materia, esiste la sua evoluzione, ma non
c’è niente prima della materia e dell’evoluzione stessa. In questo caso l’amore, la
libertà, il senso emergono solo ad un certo punto, cioè quando compare l’uomo, ma non sono
originari. Sono così destinati a scomparire. Quando la materia inghiottirà nuovamente la vita, vuoi per
una glaciazione, vuoi per un incidente cosmico, la vita terminerà e nessuno si ricorderà nemmeno che
l’amore è mai esistito. Pensate ai dinosauri che hanno abitato per lunghissimo tempo la terra e sono poi
scomparsi per la selezione naturale -le specie scompaiono non solo a causa dell’uomo, ma è la natura
stessa ad essere indifferente alla sorte delle specie!
Seconda possibilità: sono reali ed interessantissime sia la materia che l’evoluzione, ma prima di
esse c’è la libertà, l’amore, il senso, cioè c’è il Dio creatore che
sta prima e sopra e dentro l’evoluzione stessa. La comparsa, allora, dell’amore sulla terra non
è un caso fortuito e passeggero, ma corrisponde a questa origine libera. Questa origine in un disegno libero
di amore che crea motiva e fonda la speranza che questa nostra vita è così importante per Dio che egli
la salverà, anzi la nostra speranza è certa perché è radicata nel fatto che egli ha
inviato il suo figlio proprio per l’amore che porta a questa nostra vita.
Nel cristianesimo è questo che è interessante, è questo rapporto con Dio che riempie di
senso le cose. Quando si parla della creazione anche ai piccoli è di questo che dobbiamo parlare; è
questo che a loro interessa, è questa scoperta che tutto potrebbe essere senza senso, ma ancor più, che
invece la fede manifesta che tutto ha un senso nel disegno di Dio creatore e redentore.
Un secondo esempio della rilevanza che ha precisamente il Gesù dei vangeli e non una sua ricostruzione moderna
che prescindesse dal fatto che egli ci ha portato Dio la troviamo in Gesù di Nazaret quando il papa,
trattando delle tentazioni nel deserto, mostra i danni che può fare il tentativo di venire in aiuto a paesi
in via di sviluppo, senza curare la sete di Dio che c’è nel cuore di ogni uomo:
Gli aiuti dell’Occidente ai Paesi in via di sviluppo, basati su principi puramente tecnico-materiali, che
non solo hanno lasciato da parte Dio, ma hanno anche allontanato gli uomini da Lui con l’orgoglio della loro
saccenteria, hanno fatto del Terzo Mondo il Terzo Mondo in senso moderno. Tali aiuti hanno messo da parte le
strutture religiose, morali e sociali esistenti e introdotto la loro mentalità tecnicistica nel vuoto.
Credevano di poter trasformare le pietre in pane, ma hanno dato pietre al posto del pane. È in gioco il
primato di Dio. Si tratta di riconoscerlo come realtà, una realtà senza la quale nient’altro
può essere buono. Non si può governare la storia con mere strutture materiali, prescindendo da Dio.
Se il cuore dell’uomo non è buono, allora nessuna altra cosa può diventare buona. E la
bontà di cuore può venire solo da Colui che è Egli stesso la Bontà, il Bene.
Se togliamo Dio dai paesi in via di sviluppo e portiamo solo del denaro, facendo del criptomarxismo, provochiamo
un disastro totale, perché togliamo alle persone il motivo che solo conferisce dignità piena alla
vita, cioè il riferimento alla presenza di Dio. Il missionario non è semplicemente uno che aiuta
economicamente a vivere o a studiare, ma è uno che, a partire da Cristo, aiuta ad avere speranza nella vita,
è uno che aiuta a scoprire quale è la via per sanare la cattiveria che c’è in ogni
cuore.
Arriviamo ora ad affrontare la questione della storicità dei vangeli. Cosa possiamo dire
a chi vuole comprendere il motivo per il quale i vangeli sono affidabili? Suddivido questo punto –anche qui
il discorso sarebbe enorme ed è possibile in un tempo così limitato solo qualche accenno- in due parti,
una negativa e l’altra positiva. Parte negativa: perché noi non ci rivolgiamo ai vangeli apocrifi? Parte
positiva: perché riteniamo affidabili Marco, Matteo, Luca e Giovanni?
Cominciamo dalla parte negativa, che ho chiamato “vicolo cieco”. Perché i vangeli apocrifi non
ci portano da nessuna parte nella conoscenza reale di Gesù? Voi sapete che alcuni dicono che gli apocrifi
sono più affidabili dei vangeli canonici, che leggendo quei testi si arriverebbe a conoscere meglio il vero
Gesù.
La risposta può essere data analizzando semplicemente da dove venga e cosa significhi la parola
apocrifo. Apocrifo viene dal greco (precisamente dal verbo apo-crypto) e significa
nascosto.
Le persone più ignoranti pensano che gli apocrifi si chiamano nascosti perché i
primi cristiani hanno scelto solo i vangeli che più rispondevano alle loro esigenze, nascondendo gli
altri per impedire alle persone di avere accesso a questi testi che sarebbero pericolosi per la fede ortodossa.
Così dicendo ci insultano accusandoci di voler nascondere la verità.
In realtà gli apocrifi sono scritti molto dopo i vangeli canonici. La loro redazione viene, infatti, posta
intorno al 150 d.C. per i più antichi, mentre voi sapete che alla fine del I secolo, cioè intorno
all’anno 95, già tutti gli scritti del Nuovo Testamento hanno avuto la loro redazione finale ed il primo
di essi, la I lettera ai Tessalonicesi, è addirittura del 50/52 d.C. Insomma i primi apocrifi sono stati
scritti fra 50 e 100 anni dopo gli scritti neotestamentari, ma la maggior parte è di molto successiva.
Probabilmente il più antico apocrifo è il Vangelo copto di Tommaso che è databile al 150
d.C. circa. Se l’autore di questo testo si fosse limitato a presentarlo affermando che era antico come gli
altri vangeli, non avrebbe avuto alcuna credibilità, perché tutti conoscevano gli altri quattro,
mentre le affermazioni di questo testo sono assolutamente nuove, poiché rispecchiano le dottrine gnostiche che
sono del II secolo d.C.
Vedete come comincia il Vangelo di Tommaso:
Sono queste le parole segrete che Gesù, il vivente, ha proferito e Didimo Giuda Tommaso ha messo in
iscritto.
L’autore ha usato un espediente, sostenendo che, in realtà, era stato Gesù a raccontare queste
cose di nascosto a Tommaso, che Tommaso a sua volta le aveva nascoste agli altri apostoli e le aveva, invece,
rivelate solo ad una ristretta cerchia di suoi discepoli sempre con la consegna del segreto e così via fino al
150. La consegna del segreto era allora stata rotta ed il testo conosciuto. Insomma il testo stesso mostra che la
chiesa non aveva mai nascosto i vangeli apocrifi. Non li aveva nascosti semplicemente perché non erano
ancora stati scritti! L’affermare che i discepoli stessi di Tommaso li avevano volutamente tenuti nascosti
era un espediente letterario per cercare di occultare il fatto che non erano testi antichi come i quattro vangeli
del Nuovo Testamento.
In questo modo l’autore poteva sostenere l’autenticità dello scritto in suo possesso sostenendo
che solo allora era possibile mostrarlo, ma che esisteva già da tanto tempo.
Vale la pena, comunque, leggerli, perché anche il contenuto di questi testi ci mostra quanto siano lontani
dalla predicazione di Gesù. Possiamo leggere, solo per fare un esempio, il loghion
–cioè il detto- 114 di questo vangelo apocrifo, trovato a Nag Hammadi. Questo versetto parla della donna
e, poiché siamo in un contesto gnostico, la donna è vista come il massimo della materialità,
della carnalità, della passionalità, come inadatta quindi a possedere in sé la vita divina,
riservata ai soli maschi gnostici:
Simon Pietro disse loro: "Maria deve andar via da noi! Perché le femmine non sono degne della vita".
Gesù disse: "Ecco, io la guiderò in modo da farne un maschio, affinché ella diventi uno spirito
vivo uguale a voi maschi. Poiché ogni femmina che si fa maschio entrerà nel Regno dei cieli".
Proprio per cercare di attribuire a Gesù episodi come questi l’autore del vangelo si è visto
costretto all’espediente letterario del nascondimento.
Cosa possiamo dire, invece, in positivo, per mostrare che i vangeli canonici sono ragionevolmente affidabili? Di
tutte le problematiche -che vanno dai diversi stadi di redazione dei vangeli alla questione dei criteri di
autenticità- possiamo presentarne solo una, quella che è la fondamentale e che è proposta dallo
stesso Concilio Vaticano II, ancora nella Dei Verbum. Ai tempi del Concilio, ma già da molto prima,
si agitava una questione che è tuttora dibattuta: i vangeli sono attribuiti a Matteo e Giovanni, due apostoli
ed a Marco e Luca, discepoli di due apostoli, ma sono veramente essi ad averli scritti? Se così fosse,
come spiegare allora che Matteo, secondo la teoria detta delle due fonti, segue la traccia di Marco, lui che avrebbe
invece visto con i suoi occhi Gesù, se fosse suo apostolo? E come mai in Giovanni troviamo dei versetti alla
prima persona plurale come “Noi sappiamo che egli dice il vero”?
Il Concilio ha voluto lasciare aperta la questione, di modo che gli esegeti possono liberamente affermare che
realmente Giovanni l’apostolo è l’autore del vangelo oppure che non lo è e che il quarto
vangelo sarebbe piuttosto opera di un discepolo o di un discepolo di un discepolo o di una scuola giovannea, ecc.
ecc. Il Concilio ha, però, aggiunto una affermazione importantissima e cioè che, chiunque sia stato
l’autore dei vangeli, essi sono tutti “di origine apostolica”.
Con questa espressione più generale non si vuole prendere posizione con precisione sull’autore, ma
affermare che ciò che nei vangeli è contenuto risale alla predicazione apostolica e non se ne
discosta, anche se la redazione fosse di un autore che non è stato apostolo. Questo perché i
vangeli erano scritti all’interno delle comunità e proclamati nella liturgia o nella catechesi, alla
presenza degli stessi apostoli o di persone che conoscevano bene la loro predicazione. Se, allora, qualcuno si
fosse discostato significativamente –non nei singoli particolari, nei quali si possono dare differenze ed
errori- da questa predicazione, gli altri sarebbero insorti a contestare mostrando che quelle parole non
corrispondevano al Gesù che tutti avevano conosciuto.
È come se fra venti o trent’anni vi ritrovaste a leggere gli appunti di questa sera e qualcuno dicesse:
“Don Andrea disse durante il nostro incontro che solo Dan Brown ha veramente capito le vere intenzioni di
Gesù!” Gli altri subito lo sbugiarderebbero, dicendo che era stato detto proprio il
contrario.
Gli appunti certo conterrebbero delle sottolineature particolari, qualcuno avrà privilegiato una cosa o
un’altra, vi si troverebbe forse anche qualche imprecisione o travisamento di particolari, ma, leggendoli
nell’insieme, non uno stravolgimento di ciò che questa sera ci stiamo dicendo!
Potete verificare come in questa prospettiva si muova la presentazione dell’evangelista Giovanni in
Gesù di Nazaret.
Detto questo, non posso che lasciare a voi la fatica di rileggere i singoli capitoli del libro. Essi raggruppano per tematiche le grandi linee della predicazione e della vita di Gesù, secondo la linea che abbiamo cercato di descrivere. Accenno solo ad un esempio, tratto dal capitolo sulle parabole. Quando il papa presenta la parabola del padre misericordioso e dei suoi due figli, mostra come la parabola non sia solo uno straordinario racconto, ma sia un modo per parlare non solo del Padre, ma anche del Figlio che cena con i peccatori per mostrare loro il vero volto di Dio che risplende in lui. E similmente che Gesù esca a chiamare anche il primogenito, per esprimere parimenti la presenza del Padre che ama farisei e scribi che recalcitrano a partecipare al banchetto. Gesù parla del Padre, ma al contempo, parla di se stesso, poiché è lui a portarci Dio!
Vogliamo infine riflettere su alcune conseguenze pastorali di tutto ciò che stiamo dicendo.
Vogliamo farlo fin d’ora, anche se più specificamente sarà il prossimo incontro, sulla chiesa
compagnia affidabile, a farci riflettere su questo.
Abbiamo visto che la fede è un unico atto, che abbraccia tutte le dimensioni dell’umano, l’amore
come la ragionevolezza, poiché Dio è Agape e Logos. Tutto questo è un forte invito a superare
definitivamente l’opposizione tra contenuto ed esperienza che ha talvolta caratterizzato il dibattito pastorale
nei tempi passati. Talvolta, infatti, si creavano nella discussione come due atteggiamenti che sembravano
talvolta contrapporsi. Alcuni dicevano che nella catechesi, nella parrocchia, nella carità, nel rapporto con
gli extracomunitari, con gli appartenenti ad altre religioni, non importava dire il contenuto della fede, ma
ciò che contava era trasmetterne l’esperienza. Era importante innanzitutto amare le persone, accogliere,
voler loro bene, ascoltarle. Era importante dare testimonianza con la vita, anche tacendo ciò che si
credeva.
Altri subito rispondevano: “Ma no, noi siamo cristiani, dobbiamo mostrare in cosa crediamo, spiegare i
contenuti della fede”. Indicavano con forza che la fede era l’opera di Dio ed era questa che andava
conosciuta. Affermavano che non poteva essere conosciuta se ci si limitava ad una prassi giusta, che però non
giungesse ad annunciare tutta la ricchezza della fede che supera ogni testimonianza che è possibile darne.
Qualcuno insisteva solamente su questi contenuti, senza preoccuparsi minimamente di mostrare con quale cammino
concretamente accompagnare le persone a fare esperienza di tutto questo.
In realtà Benedetto XVI ci sta mostrando, con grande forza e bellezza, che queste due parti non possono
essere mai separate. Invece di discutere se è più importante comprendere o amare, queste due
dimensioni vanno tenute insieme perché la fede è l’una e l’altra e bisogna trarre fuori il
meglio dell’amare e del comprendere.
Il contenuto e l’esperienza non sono due realtà in contrapposizione nella fede, perché il
cristiano sa in chi crede e, sentendosi amato ed amando Colui in cui crede, vuole bene a sua volta.
Nel discorso sull’educazione dei giovani, durante il convegno della diocesi di giugno, il papa ha
così fatto innanzitutto riferimento a quella vicinanza propria dell’amore, senza la quale la persona, ed
il giovane in particolare, non si sente accolto ed atteso. È un invito forte ad una grande attenzione a
tutti ed, in particolare, alle nuove generazioni. La diocesi ci spinge a crescere nella disponibilità, in uno
stile non solo di accoglienza, ma anche di primo annunzio ed evangelizzazione.
Come potrebbe realizzarsi questo se non ci fossero preti disponibili per questo? O se le parrocchie non
avessero il gusto di accompagnare i giovani? Chi si dedicherà giorno e notte –sapete quanto la notte o
almeno la sera è importante per le giovani generazioni!- per questo? Alcuni sacerdoti e laici di una diocesi
del nord raccontavano che, invitati a pensare un cammino di pastorale giovanile, avevano iniziato affermando che,
come in una casa si sceglie una stanza bella e luminosa per i propri figli perché possano studiare al meglio
delle condizioni, così una parrocchia che volesse dare uno spazio reale alla pastorale giovanile dovrebbe
similmente prendere le sue cose migliori –ed anche le sue persone migliori- e metterle a disposizione degli
adolescenti e dei giovani.
Questo –è bene sottolinearlo- non ad esclusione delle altre realtà che già esistono. Si
tratta cioè non di chiedere agli educatori che ci sono di fare più cose, ma di farne sorgere di
nuovi. Il papa sottolineava come i giovani non vogliono essere solo passivi, ma si esprimono con la
creatività loro propria. È tempo, allora, soprattutto negli itinerari che portano alla cresima, di
chiamare anche giovani e non solo adulti ad accompagnare il cammino dei pre-adolescenti e degli adolescenti,
perché essi, oltre alla sapienza dell’adulto, crescano figure più vicine a loro, nelle quali
vedere realizzate quelle aspirazioni che li animano.
Senza dimenticare che per tre anni abbiamo già maturato questa stessa scelta verso le famiglie delle
parrocchie. Abbiamo, infatti, coniugato, negli anni passati la catechesi degli adulti come catechesi con le
famiglie, perché l’adulto maturo è una persona-in-relazione, carico di responsabilità
verso coloro che gli sono affidati. Anche lì, la diocesi ci ha stimolato a domandarci come far crescere
l’accoglienza verso ogni famiglia e come far maturare educatori che accompagnassero i cammini, spesso
difficili, delle famiglie.
Ma, d’altro canto, questa esperienza di amore ha bisogno della luce che viene dalla rivelazione, dalla saggezza
di Dio. Anzi proprio l’adolescente cerca risposte alla sua domanda di verità che una pastorale basata
solo sull’affettività e l’esperienza non sarebbe in grado di illuminare. Al convegno di giugno
Benedetto XVI ha parlato così di una “pastorale dell’intelligenza” che è
essenziale nei confronti dell’adolescenza e dell’età giovanile. Se il bambino riempie di domande
l’adulto, egli è spinto dalla curiosità, dal desiderio di imparare; il pre-adolescente e
l’adolescente, invece, pongono le loro domande come domande critiche, poiché vogliono verificare la
solidità delle risposte dell’adulto. Una pastorale ed una catechesi che non affrontassero seriamente
questo aspetto non potrebbero accompagnare realmente le nuove generazioni.
Esse, inoltre, vivono un contesto scolastico ricco di provocazioni e talvolta anche di feroci critiche verso la
fede cristiana, vuoi nel campo storico o filosofico, vuoi in quello scientifico, oltre a sentire in loro
l’emergere delle grandi tematiche dell’affettività e della sessualità, unitamente a
quelle più ampie dell’amicizia e della vita di gruppo.
Una “pastorale dell’intelligenza” non può lasciare inevase queste questioni, non
può non aiutare in un discernimento. Solo così la fede si dimostra pertinente alla vita reale e non una
fuga da essa.
Vi lascio alcune indicazioni per continuare personalmente il lavoro. Oltre a leggere i testi che trovate nei fogli che vi sono stati consegnati (e potete risalire da essi ai testi che sono citati), vi invito a riflettere su come il Credo, il Simbolo della fede, sia uno sviluppo assolutamente coerente della fede della chiesa: Gesù è il Signore. La festa dei cresimandi di quest’anno ci aiuterà ad approfondire questo. Trovate anche i riferimenti ai catechismi del progetto catechistico italiano con i luoghi nei quali viene maggiormente esplicitata la rivelazione di Dio che si compie in Cristo.
Gesù è il Signore. La fede e il Simbolo degli Apostoli nella prospettiva del primo annunzio
Il pensiero contemporaneo tende a dire che ognuno dovrebbe vivere la propria religione, o forse anche l’ateismo in cui si trova. In questo modo arriverebbe la salvezza. Un’opinione simile presuppone un’immagine molto strana di Dio e una strana idea dell’uomo e del modo corretto dell’essere uomo. Cerchiamo di chiarirci questo punto con un paio di domande pratiche. Forse qualcuno diventa beato e verrà riconosciuto come giusto da Dio perché ha rispettato secondo coscienza i doveri della vendetta di sangue? Perché si è impegnato con forza per la e nella «guerra santa»? O perché ha offerto in sacrificio determinati animali? O perché ha rispettato abluzioni rituali o altre osservanze religiose? Perché ha dichiarato norma di coscienza le sue opinioni e i suoi desideri e in questo modo ha elevato se stesso a criterio? No, Dio esige il contrario: esige il risveglio interiore per il suo silenzioso parlarci, che è presente in noi e ci strappa alle mere abitudini conducendoci sulla via della verità; esige persone che «hanno fame e sete della giustizia» - questa è la via aperta a tutti; è la via che approda a Gesù Cristo.
La fede è innanzi tutto una adesione personale dell'uomo a Dio; al tempo stesso ed
inseparabilmente, è l'assenso libero a tutta la verità che Dio ha rivelato.
Fides qua creditur (la fede con la quale io credo, cioè la fiducia, l’adesione della vita a
Cristo, l’affidare se stessi a lui)
Fides quae creditur (la fede che io credo, la conoscenza di quel Dio a cui mi affido, l’assenso alla
verità che la Rivelazione cristiana svela all’uomo)
La forte unità che si è realizzata nella Chiesa dei primi secoli tra una fede amica dell'intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall'amore reciproco e dall'attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti ha reso possibile la prima grande espansione missionaria del cristianesimo nel mondo ellenistico-romano. Così è avvenuto anche in seguito, in diversi contesti culturali e situazioni storiche. Questa rimane la strada maestra per l'evangelizzazione: il Signore ci guidi a vivere questa unità tra verità e amore nelle condizioni proprie del nostro tempo, per l'evangelizzazione dell'Italia e del mondo di oggi.
L’uomo vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di
Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio –
per menzionare soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione
mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano
realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente
dire che tutto ciò è vero?" (6 b – c).
In questa domanda apparentemente poco devota – che, però, in Socrate derivava da una
religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino – i cristiani
dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo
positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento
della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al
contempo Ragione-Amore. Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla
vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di
religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno,
quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e
riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza
della verità intera.
Intendiamo porre il libro del Papa al centro dell’attenzione della Diocesi nel prossimo anno pastorale. Quest’anno potremmo concentrarci su due aspetti che stanno al cuore del libro del Papa. Il primo è costituito da quella che, con una formula classica, veniva chiamata «L’essenza del cristianesimo». Il libro si occupa molto di questo, chiedendosi qual è il volto di Dio che ci viene rivelato in Gesù Cristo, il compito e il destino dell’uomo, la nostra speranza come ce la propone Gesù Cristo.
Il problema relativo all’ “essenza” del cristianesimo è stato risolto
in diverse maniere. Si è detto che tale essenza consiste nel fatto che la personalità
individuale viene ad occupare il punto centrale della coscienza religiosa; che Dio si manifesta come Padre
e il singolo sta dinanzi a lui in un rapporto di pura immediatezza; che l’amore del prossimo diventa il
valore decisivo e simili, - fino ai tentativi di dimostrare il cristianesimo come la religione perfetta,
semplicemente perché esso sarebbe al massimo conforme alla ragione, conterrebbe la moralità
più pura e si accorderebbe nel modo migliore con le esigenze della natura.
Queste risposte sono tutte errate... Quelle risposte però sono false anche per questo – e qui
sta l’elemento decisivo – che sono date nella forma di astratta definizione, che riducono il loro
“oggetto” a un concetto generale; ma proprio questo contrasta con la coscienza più profonda
del cristianesimo perché in tale maniera esso è riportato a presupposti naturali: e precisamente a
ciò che esperienza e pensiero intendono sotto il nome di personalità, immediatezza religiosa, amore,
ragione, etica, natura ecc. In verità proprio il cristianesimo non si risolve in siffatte categorie
naturali. Quel che Cristo predica come “amore”, quello che Paolo e Giovanni intendono quando essi parlano
di amore alla luce della loro coscienza cristiana, non è quel fenomeno universale umano che si suole designare
con questa parola e non è neppure la sua purificazione ovvero la sua sublimazione, ma qualcosa d’altro.
Esso presuppone la figliolanza di Dio. Questa a sua volta si distingue nettamente da quello che s’intende col
comune concetto della storia delle religioni, quando ad esempio si dice che l’uomo religioso si avvicina alla
divinità nella forma del rapporto figlio-padre. Essa significa piuttosto la rinascita del credente nel Dio
vivo, che si compie mediante lo Spirito di Cristo. Così l’amore del prossimo nel senso del Nuovo
Testamento vuol significare quell’apprezzamento e quell’atteggiamento che sono possibili in quella
prospettiva...
Il cristianesimo non è una teoria della Verità, o una interpretazione della vita. Esso è
anche questo, ma non in questo consiste il suo nucleo essenziale. Questo è costituito da Gesù di
Nazaret, dalla sua concreta esistenza, dalla sua opera, dal suo destino — cioè da una
personalità storica... Il cristianesimo afferma che per l’incarnazione del Figlio di Dio, per la sua
morte e la sua risurrezione, per il mistero della fede e della grazia, a tutta la creazione è richiesto di
rinunciare alla sua — apparente —autonomia e di mettersi sotto la signoria di una persona concreta,
cioè di Gesù Cristo, e di fare di ciò la propria norma decisiva. Dal punto di vista della
logica questo è un paradosso, perché sembra mettere in pericolo la stessa realtà della persona.
Ma anche il sentimento personale si ribella contro questo. Poiché l’accettare una legge generale che
si è dimostrata giusta — sia essa una legge della natura o del pensiero o della moralità —
non è difficile per la persona. Essa avverte che in tale legge essa continua ad essere se stessa; anzi,
che il riconoscimento di siffatte leggi generali può tradursi senz’altro in un’azione personale.
Ma all’esigenza di riconoscere un’«altra» persona come legge suprema di tutta la sfera
della vita religiosa e con ciò della propria esistenza — la persona contrasta con vivacità
elementare, e si capisce che cosa può significare la richiesta di «rinunciare alla propria
anima».
In concreto, la via che conduce a Dio è Gesù Cristo: soltanto in lui infatti possiamo conoscere il volto di Dio, il suo atteggiamento verso di noi e il mistero della sua vita intima, e soltanto nella croce del Figlio – manifestazione radicale ed estrema dell’amore di Dio per noi – può trovare una risposta, misteriosa ma convincente, il problema del male e della sofferenza, che è la fonte del dubbio più grave circa l’esistenza di Dio. Vorrei ora percorrere, per così dire, la strada inversa, mostrando che per conoscere davvero Gesù Cristo è necessario fare spazio a Dio. Se infatti Dio non c’è, o comunque non può agire nella storia e manifestarsi personalmente a noi, il Gesù dei Vangeli, in concreto il Gesù reale e storico, perde consistenza e svanisce inevitabilmente: non solo non potrebbe aver operato dei miracoli e tanto meno essere risorto dai morti, ma il suo stesso rapporto intimo, anzi unico con Dio e il suo porsi come colui nel quale si incontra Dio potrebbero essere al massimo una nobile illusione.
La famosa affermazione di Adolf von Harnack secondo la quale l’annuncio di Gesù sarebbe un annuncio sul Padre, di cui il Figlio non farebbe parte – e dunque la cristologia non apparterrebbe all’annuncio di Gesù – è una tesi che si smentisce da sola. Gesù può parlare del Padre, così come fa, solo perché è il Figlio e vive in comunione filiale con il Padre. La dimensione cristologia, cioè il mistero del Figlio come rivelatore del Padre, la «cristologia», è presente in tutti i discorsi e in tutte le azioni di Gesù... Ed è questo che davvero salva: il trascendere i limiti dell’essere uomo – un passo che, in lui, per la sua somiglianza con Dio è già predisposto, come attesa e possibilità, fin dalla creazione.
Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e far conoscere il mistero
della sua volontà (cfr. Ef 1, 9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne,
nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della natura divina (cfr. Ef 2, 18; 2 Pt 1,
4)...
La profonda verità, poi, che questa Rivelazione manifesta su Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende per
noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione...
Dopo aver a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei profeti, Dio «alla fine, nei
giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Mandò infatti suo Figlio,
cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e spiegasse loro
i segreti di Dio (cfr. Gv 1,1-18)...
L'economia cristiana dunque, in quanto è l'Alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non
è da aspettarsi alcun'altra Rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro
Gesù Cristo (cfr. 1 Tm 6,14 e Tt 2,13).
Dalla Relazione conclusiva del 14 giugno 2007 del cardinal Camillo Ruini al Convegno
ecclesiale della Diocesi di Roma
[Il] cristianesimo [...] richiede anzitutto che l’uomo Gesù di Nazareth, nella sua realtà
storica, sia stato effettivamente il Figlio di Dio e abbia avuto coscienza di esserlo, abbia avuto coscienza
della missione che scaturiva da qui per la salvezza dell’umanità. In concreto il Papa chi ha detto che
Gesù Cristo ci ha portato Dio, ha reso, in maniera nuova e unica, Dio presente nel mondo e così ci ha
portato ciò di cui abbiamo realmente bisogno per vivere. Questo è il centro propulsore della vita e
della crescita della persona cristiana, come della famiglia cristiana e del popolo cristiano, anzi della crescita
dell’uomo in quanto tale e dell’umanità. Dobbiamo avere il coraggio di dire questo e il coraggio
di pensarlo e di crederlo, la gioia di vivere di questo, perché il fulcro dell’educazione alla fede, in
realtà, è anche il fulcro di una educazione umana piena e autentica.
Gregorio Nazianzeno dice che nel momento in cui i magi guidati dalla stella adorarono il nuovo re
Cristo, giunse la fine dell'astrologia, perché ormai le stelle girano secondo l'orbita determinata da Cristo.
Di fatto, in questa scena è capovolta la concezione del mondo di allora che, in modo diverso, è
nuovamente in auge anche oggi.
Non sono gli elementi del cosmo, le leggi della materia che in definitiva governano il mondo e l'uomo, ma un Dio
personale governa le stelle, cioè l'universo; non le leggi della materia e dell'evoluzione sono l'ultima
istanza, ma ragione, volontà, amore – una Persona. E se conosciamo questa Persona e Lei conosce noi,
allora veramente l'inesorabile potere degli elementi materiali non è più l'ultima istanza; allora non
siamo schiavi dell'universo e delle sue leggi, allora siamo liberi. Una tale consapevolezza ha determinato
nell'antichità gli spiriti schietti in ricerca. Il cielo non è vuoto. La vita non è un semplice
prodotto delle leggi e della casualità della materia, ma in tutto e contemporaneamente al di sopra di tutto
c'è una volontà personale, c'è uno Spirito che in Gesù si è rivelato come
Amore.
Non vogliamo credere che la verità è bella. In base alla nostra esperienza alla
fine la verità il più delle volte è crudele e sporca. E quando per una volta non sembra
essere così, allora ci mettiamo a scavare fino a che non vediamo confermati i nostri sospetti.
Una volta è stato detto dell’arte che è al servizio del bello, e che il bello a sua volta
è splendor veritatis, splendore di verità, la sua luce interiore. Ma oggi l’arte il
più delle volte ritiene che il suo compito più alto sia quello di smascherare l’uomo come essere
immondo e disgustoso. Se pensiamo ai drammi di Bertolt Brecht, ci accorgiamo che anche in essi tutto il genio del
poeta è teso a svelare la verità, ma non più per mostrarne la luce, bensì per dimostrare
che la verità è sporca, che la sporcizia è la verità. L’incontro con la
verità non nobilita più, anzi degrada. Da ciò il dileggio sul Natale, la derisione della nostra
gioia. E in effetti, se Dio non esiste, non c’è alcuna luce, c’è solo terra sporca.
In questo consiste la verità davvero tragica di una simile "poesia".[...]
Egli è venuto come un bambino per vincere la nostra superbia. Forse ci saremmo arresi più facilmente
di fronte alla potenza, di fronte alla saggezza. Ma egli non vuole la nostra resa, vuole il nostro amore. Vuole
liberarci dalla nostra superbia e renderci così veramente liberi. Lasciamo dunque che la gioia di questo
giorno pervada la nostra anima. Non è un’illusione. È la verità. Perché la
verità –la più alta, la più autentica- è bella. Ed è buona. Incontrarla fa
bene agli uomini. La verità parla con le parole del bambino che è il figlio di Dio.
A questo proposito c’è una frase del gesuita tedesco Alfred Delp, messo a morte dai
nazisti: «Il pane è importante, la libertà è più importante, ma la cosa più
importante di tutte è la costante fedeltà e l’adorazione mai tradita».
Laddove questo ordine dei beni non viene rispettato, non ne consegue più la giustizia, non si bada più
all’uomo che soffre, ma si creano dissesto e distruzione anche nell’ambito dei beni materiali. Laddove
Dio è considerato una grandezza secondaria, che si può temporaneamente o stabilmente mettere da parte
in nome di cose più importanti, allora falliscono queste presunte cose più importanti. Non lo dimostra
soltanto l’esito negativo dell’esperienza marxista.
Gli aiuti dell’Occidente ai Paesi in via di sviluppo, basati su principi puramente tecnico-materiali, che
non solo hanno lasciato da parte Dio, ma hanno anche allontanato gli uomini da Lui con l’orgoglio della loro
saccenteria, hanno fatto del Terzo Mondo il Terzo Mondo in senso moderno. Tali aiuti hanno messo
da parte le strutture religiose, morali e sociali esistenti e introdotto la loro mentalità tecnicistica nel
vuoto. Credevano di poter trasformare le pietre in pane, ma hanno dato pietre al posto del pane. E’ in gioco il
primato di Dio. Si tratta di riconoscerlo come realtà, una realtà senza la quale nient’altro
può essere buono. Non si può governare la storia con mere strutture materiali, prescindendo da Dio. Se
il cuore dell’uomo non è buono, allora nessuna altra cosa può diventare buona. E la bontà
di cuore può venire solo da Colui che è Egli stesso la Bontà, il Bene.
Quanto Lei ha detto sul problema degli adolescenti, sulla loro solitudine e sull'incomprensione da parte degli adulti, lo tocchiamo con mano, oggi. È interessante che questa gioventù, che cerca nelle discoteche di essere vicinissima, soffra in realtà di una grande solitudine, e naturalmente anche di incomprensione. Mi sembra questo, in un certo senso, espressione del fatto che i padri, come è stato detto, in gran parte sono assenti dalla formazione della famiglia. Ma anche le madri devono lavorare fuori casa. La comunione tra loro è molto fragile. Ognuno vive il suo mondo: sono isole del pensiero, del sentimento, che non si uniscono. Il grande problema proprio di questo tempo — nel quale ognuno, volendo avere la vita per sé, la perde perché si isola e isola l'altro da sé — è di ritrovare la profonda comunione che alla fine può venire soltanto da un fondo comune a tutte le anime, dalla presenza divina che ci unisce tutti. Mi sembra che la condizione sia di superare la solitudine e anche di superare l'incomprensione, perché anche quest'ultima è il risultato del fatto che il pensiero oggi è frammentato. Ognuno cerca il suo modo di pensare, di vivere, e non c'è una comunicazione in una profonda visione della vita. La gioventù si sente esposta a nuovi orizzonti non partecipati dalla generazione precedente perché manca la continuità della visione del mondo, preso in una sequela sempre più rapida di nuove invenzioni. In dieci anni si sono realizzati cambiamenti che in passato neppure in cento anni si erano verificati. Così si separano realmente mondi. Penso alla mia gioventù e all'ingenuità, se così posso dire, nella quale abbiamo vissuto, in una società del tutto agraria in confronto con la società di oggi. Vediamo come il mondo cambia sempre più rapidamente, cosicché si frammenta anche con questi cambiamenti. Perciò, in un momento di rinnovamento e di cambiamento, l'elemento del permanente diventa più importante. Mi ricordo quando è stata discussa la Costituzione conciliare Gaudium et spes. Da una parte, c'era il riconoscimento del nuovo, della novità, il «Sì» della Chiesa all'epoca nuova con le sue innovazioni, il «No» al romanticismo del passato, un «No» giusto e necessario. Ma poi i Padri — se ne trova la prova anche nel testo — hanno detto anche che nonostante questo, nonostante la necessaria disponibilità ad andare avanti, a lasciar cadere anche altre cose che ci erano care, c'è qualcosa che non cambia, perché è l'umano stesso, la creaturalità. L'uomo non è del tutto storico. L'assolutizzazione dello storicismo, nel senso che l'uomo sarebbe solo e sempre creatura frutto di un certo periodo, non è vera. C'è la creaturalità e proprio essa ci dà la possibilità anche di vivere nel cambiamento e di rimanere identici a noi stessi.
Qui sorge però la grande domanda che ci accompagnerà per tutto questo libro: ma
che cosa ha portato Gesù veramente, se non ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, un mondo
migliore? Che cosa ha portato?
La risposta è molto semplice: Dio. Ha portato Dio. Quel Dio, il cui volto si era prima manifestato a
poco a poco da Abramo fino alla letteratura sapienziale, passando per Mosè e i Profeti – quel Dio che
solo in Israele aveva mostrato il suo volto e che, pur sotto molteplici ombre, era stato onorato nel mondo delle
genti – questo Dio, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio vero Egli ha portato ai popoli della
terra. Ha portato Dio: ora noi conosciamo il suo volto, ora noi possiamo invocarlo. Ora conosciamo la strada che,
come uomini, dobbiamo prendere in questo mondo. Gesù ha portato Dio e con Lui la verità sul nostro
destino e la nostra provenienza: la fede, la speranza e l’amore. Solo la nostra durezza di cuore ci fa
ritenere che ciò sia poco. Sì, il potere di Dio nel mondo è silenzioso, ma è il
potere vero, duraturo.
In quell’epoca [immediatamente dopo il Concilio]io avevo inviato un piccolo lavoro ad Hans
Urs von Balthasar, il quale come sempre mi ringraziò immediatamente con un cartoncino ed al ringraziamento
aggiunse una frase pregnante che per me divenne indimenticabile: non presupporre, ma proporre la fede. Fu un
imperativo che mi colpì. L’ampio spaziare in nuovi campi era buono e necessario, ma solo a partire dal
presupposto che esso stesso traesse origine dalla luce centrale della fede e da questa luce fosse sostenuto. La fede
non ha permanenza di per se stessa. Non la si può mai semplicemente presupporre come una cosa già in se
conclusa. Deve continuamente essere rivissuta. E poiché è un atto, che abbraccia tutte le dimensioni
della nostra esistenza, deve anche essere sempre ripensata e sempre di nuovo testimoniata.
Perciò i grandi temi della fede - Dio, Cristo, Spirito Santo, Grazia e peccato, Sacramenti e Chiesa,
morte e vita eterna - non sono mai temi vecchi. Sono sempre i temi, che ci colpiscono più nel profondo.
Devono sempre rimanere centro dell’annuncio e quindi anche centro nel pensiero teologico.
(per un approfondimento dei vangeli apocrifi e dello gnosticismo,
vedi i testi di G.Lettieri, G.Biguzzi e A.Lonardo nella pagina tematica Sacra
Scrittura di www.gliscritti.it e, sullo stesso sito, la mostra sulla Bibbia, L’ignoranza
delle Scritture)
Dal vangelo apocrifo copto di Tommaso (gnostico; trovato a Nag Hammadi, ma già conosciuto; ca.150
d.C.)
Son queste le parole segrete che Gesù, il vivente, ha proferito e Didimo Giuda Tommaso ha messo in iscritto
ed ha detto: Chi troverà la spiegazione di queste parole, non gusterà la morte. [19] Gesù disse:
"Beato colui che era prima di divenire. Se diverrete miei discepoli e ascolterete le mie parole, queste pietre
saranno al vostro servizio... [52] I suoi discepoli gli dissero: "In Israele parlarono ventiquattro profeti e tutti
parlarono in te". Egli rispose loro: "Avete lasciato il Vivente che è davanti a voi e avete parlato dei
morti". [7 (8)] Egli disse: "L'uomo è simile a un pescatore saggio che gettò la sua rete in mare, e
dal mare la ritirò carica di pesci piccoli. In mezzo a quelli il saggio pescatore scorse un bel pesce grosso;
allora gettò via, in mare, tutti i pesci piccoli e scelse, senza sforzo, il pesce grande. Chi ha
orecchie da intendere, intenda!". [61] Gesù disse: "Due riposeranno su un letto: uno morirà e l'altro
vivrà". Salome gli domandò: "Chi tu sei, uomo che, come colui che è dall'Uno, sei salito sul mio
lettuccio e hai mangiato alla mia mensa?". Gesù rispose: "Io sono colui che proviene dall'Indiviso: a me
furono date cose (che sono) del Padre mio". Salome disse: "Io sono tua discepola!". E Gesù a lei:
"Perciò io dico: Quando (il letto) sarà indiviso sarà ricolmo di luce; ma quando è
diviso sarà ricolmo di tenebre". [87] Gesù disse: "Misero è il corpo che dipende da un
corpo, e misera è l'anima che dipende da ambedue". [114] Simon Pietro disse loro: "Maria deve andar via
da noi! Perché le femmine non sono degne della vita". Gesù disse: "Ecco, io la guiderò in modo
da farne un maschio, affinché ella diventi uno spirito vivo uguale a voi maschi. Poiché ogni
femmina che si fa maschio entrerà nel Regno dei cieli".
Vangelo apocrifo di Giuda (originale fra il 120 ed il 180 d.C.)
51 Dalla nuvola comparve un [angelo], il cui viso mandava lampi di fuoco e con un aspetto contaminato dal sangue.
Egli si chiamava Nebro, che significa ‘ribelle’; altri lo chiamano Yaldabaoth. Anche un altro angelo,
Saklas, venne fuori dalla nuvola. Nebro quindi creò sei angeli—oltre a Saklas— perchè
fossero aiutanti, e questi produssero dodici angeli nei cieli, ciascuno dei quali ricevette una porzione di
cielo.
52 Allora Saklas disse ai suoi angeli, ‘Creiamo un essere umano a somiglianza ed immagine’. Essi
formarono Adamo e sua moglie Eva, che dentro la nuvola viene chiamata Zoe.
Natività di Maria o Protovangelo di Giacomo (ca.200 d.C.)
XIX 3. Poi la levatrice uscì dalla spelonca e Salome s’imbattè con lei. Ella disse: Salome,
Salome, devo raccontarti uno spettacolo nuovo: una vergine ha dato alla luce, cosa che la natura non permette.
Salome rispose: Vive il Signore, mio Dio: se non pongo il mio dito e non scruto la sua natura, non crederò
che una vergine abbia dato alla luce!.
XX 1. La levatrice entrò e disse a Maria: Mettiti in posizione: non lieve contrasto si presenta a tuo
riguardo! Salome mise il suo dito nella natura di lei. Allora gettò un grido: Guai al mio peccato e alla
mia incredulità! Ho tentato il Dio vivo; perciò la mia mano mi si stacca, consumata dal
fuoco.
2. Allora piegò le sue ginocchia innanzi all’Onnipotente e pregò: Dio dei miei padri, ricordati
che io sono discendenza d’Abramo, Isacco e Giacobbe. Non fare di me esempio pubblico per i figli di Israele, ma
restituiscimi ai poveri. Tu sai difatti, o Onnipotente, che per amor del tuo nome prodigavo le mie cure e ricevevo la
mia mercede da te.
3. Ed ecco, un angelo del Signore le si presentò e le disse: Salome, Salome: il Signore t’ha esaudita.
Accosta la tua mano al bambino prendilo su e sarà per te salvezza e gioia.
4. Ella su accostò con gioia e lo prese su, dicendo: Voglio adorarlo, perché è nato un gran re
per Israele. Salome guarì immediatamente ed uscì dalla grotta, giustificata. Ed ecco una voce disse:
Salome, Salome non divulgare le cose meravigliose che hai viste prima che il bimbo arrivi a Gerusalemme.
Dalla Dei Verbum 18-19
18. A nessuno sfugge che tra tutte le Scritture, anche quelle del Nuovo Testamento, i Vangeli possiedono una
superiorità meritata, in quanto costituiscono la principale testimonianza relativa alla vita e alla dottrina
del Verbo incarnato, nostro Salvatore. La Chiesa ha sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i quattro
Vangeli sono di origine apostolica. Infatti, ciò che gli apostoli per mandato di Cristo predicarono, in
seguito, per ispirazione dello Spirito Santo, fu dagli stessi e da uomini della loro cerchia tramandato in scritti
che sono il fondamento della fede, cioè l'Evangelo quadriforme secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni.
19. La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e con la più grande costanza che i quattro
suindicati Vangeli, di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto
Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò
per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr At 1,1-2). Gli apostoli poi, dopo
l'Ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva detto e fatto, con quella
più completa intelligenza delle cose, di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati
dallo Spirito di verità, godevano. E gli autori sacri scrissero i quattro Vangeli, scegliendo
alcune cose tra le molte che erano tramandate a voce o già per iscritto, redigendo un riassunto di
altre, o spiegandole con riguardo alla situazione delle Chiese, conservando infine il carattere di
predicazione, sempre però in modo tale da riferire su Gesù cose vere e sincere. Essi
infatti, attingendo sia ai propri ricordi sia alla testimonianza di coloro i quali «fin dal principio furono
testimoni oculari e ministri della parola», scrissero con l'intenzione di farci conoscere la
«verità» (cfr. Lc 1,2-4) degli insegnamenti che abbiamo ricevuto.
Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.257
Il nostro ascolto del Gesù dei sinottici ci ha insegnato che il mistero della sua unità con il Padre
è sempre presente e determina il tutto, ma che resta anche nascosto sotto la sua umanità. Con vigile
attenzione se ne sono accorti, da una parte, i suoi avversari e dall’altra, i discepoli, che vedevano
Gesù mentre era in preghiera e potevano avvicinarsi interiormente a Lui; essi, nonostante tutti i
fraintendimenti, hanno progressivamente – e in momenti importanti anche all’improvviso – cominciato
a riconoscere quella realtà inaudita. In Giovanni la divinità di Gesù appare in modo non
velato. Le dispute di Gesù con le autorità giudaiche del tempio costituiscono, per così
dire, nel loro insieme già il futuro processo di Gesù davanti al Sinedrio, una vicenda che poi, a
differenza dei sinottici, Giovanni non cita più come tale.
Questa diversità del Vangelo di Giovanni, in cui non udiamo alcuna parabola, bensì grandi discorsi
centrati su immagini e in cui la scena principale dell’attività di Gesù si sposta dalla Galilea a
Gerusalemme, ha indotto la moderna ricerca critica a disconoscere al testo – a eccezione del racconto della
passione e di alcuni singoli particolari – la storicità e a considerarlo una ricostruzione teologica
tarda. Secondo questo orientamento esso ci trasmette la posizione di una cristologia molto sviluppata, ma non
può rappresentare una fonte per la conoscenza del Gesù storico.
Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.266
Dietro il testo [di Giovanni, invece,] vi è, ultimamente, un testimone oculare, e anche la redazione
concreta è avvenuta nella vivace cerchia dei suoi discepoli e con l'apporto determinante di un discepolo a lui
familiare.
Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.269-271
A mio parere, i cinque elementi presentati da Hengel [la voluta impostazione teologica dell'autore, il suo ricordo
personale, la tradizione ecclesiastica, la realtà storica, lo Spirito Paraclito che interpreta e guida verso
la verità]sono effettivamente le forze essenziali che hanno determinato la composizione del Vangelo, ma vanno
visti in una differente correlazione interna e, di conseguenza, anche singolarmente con una importanza diversa.
Anzitutto [...] il ricordo personale e la realtà storica vanno insieme. Essi costituiscono,
l'uno con l'altro, ciò che i Padri definiscono il factum historicum che determina il «significato
letterale» di un testo: il lato esterno degli avvenimenti che l'evangelista conosce in parte grazie al suo
ricordo e in parte grazie alla tradizione ecclesiastica (senza dubbio conosceva bene i Vangeli sinottici nell'una o
nell'altra versione). Egli vuole riferire l'accaduto nella veste di «testimone». Nessuno ha sottolineato
proprio questa dimensione del veramente accaduto - la «carne» della storia - con altrettanta forza come
Giovanni: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo
veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato,
ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò
rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi),
quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi» (1 Gv 1,1s). Questi due fattori - la
realtà storica e il ricordo - conducono tuttavia da sé al terzo e al quinto elemento menzionati da
Hengel: la tradizione ecclesiastica e la guida da parte del Paraclito. Il proprio ricordo, infatti, da un lato
reca nell'autore del Vangelo un accento molto personale, come ci mostra la parola alla fine della scena della
crocifissione (cfr. Gv 19,35); dall'altro lato, però, non è mai un ricordo puramente privato,
bensì un ricordo nel e con il «noi» della Chiesa: «Ciò che noi abbiamo udito,
ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le
nostre mani hanno toccato...». In Giovanni, il soggetto del ricordo è sempre il «noi» - egli
ricorda nella e con la comunità dei discepoli, nella e con la Chiesa. Per quanto l'autore si presenti come
singolo in veste di testimone, il soggetto del ricordo che qui parla è sempre il «noi» della
comunità dei discepoli, il «noi» della Chiesa. Poiché il ricordo, che costituisce la
base del Vangelo, mediante l'inserimento nella memoria della Chiesa viene purificato e approfondito, la memoria
puramente banale dei fatti viene effettivamente superata.
Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.71-72; 79; 84
Un’altra variante in queste concezioni, che individuano un fossato tra Gesù e l’annuncio degli
apostoli, si trova nell’affermazione, divenuta famosa, del modernista cattolico Alfred Loisy:
«Gesù annunciò il regno di Dio ed è venuta la Chiesa». Sono parola da cui traspare
sì ironia, ma anche tristezza: invece del tanto atteso regno di Dio, del mondo nuovo trasformato da Dio
stesso, è venuto qualcosa di completamente diverso – una misera cosa! -: la Chiesa...
Da Joseph Ratzinger, Origine e natura della Chiesa, in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Ed.
Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pagg.9-31
La frase di Loisy va così modificata: È stato promesso il regno ed è venuto Gesù.
Solo in questo modo si comprende rettamente il paradosso di promessa e compimento.
Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.125
Grelot ha trovato un’interpretazione che è conforme al testo e va ancora più a fondo. Fa
notare che Gesù con questa parabola [del padre misericordioso e dei due figli], come con quelle precedenti,
giustifica la propria bontà nei confronti dei peccatori, la sua accoglienza dei peccatori con il comportamento
del padre nella parabola. Con questo atteggiamento Gesù «diventa rivelazione vivente di Colui che egli
chiamava suo Padre». Lo sguardo al contesto storico della parabola delinea quindi da sé una
«cristologia implicita». «La sua passione e la sua resurrezione hanno accentuato questo aspetto
delle cose: in che modo Dio ha manifestato il suo amore misericordioso verso i peccatori? Perché “mentre
noi eravamo ancora peccatori è morto per noi” (Rm 5,8) […] Gesù non può in
nessun modo entrare nel quadro narrativo della sua parabola, perché vive identificandosi con il Padre celeste,
ricalcando il suo atteggiamento su quello del Padre. Ora, il Cristo risorto resta ugualmente, in questo punto, nella
stessa situazione di Gesù di Nazaret durante il suo ministero» (p. 228s). Di fatto Gesù
giustifica, in questa parabola, il suocomportamento riconducendolo al quello del Padre,
identificandolo con Lui. Così, proprio attraverso la figura del padre, Cristo si trova al centro della
parabola come attuazione concreta dell’agire paterno.
Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, pp.142-143
Anche i discepoli della Torah venivano chiamati dai loro maestri a lasciare casa e famiglia... Tuttavia,
c’è una differenza fondamentale. Nel caso di Gesù non è l’adesione alla Torah
che, unendo tutti, forma una nuova famiglia, ma si tratta dell’adesione a Gesù stesso, alla sua
Torah. Nel caso dei rabbini tutti restano legati mediante i medesimi rapporti a un ordine sociale duraturo,
mediante la sottomissione alla Torah restano tutti nell’uguaglianza dell’intero Israele.
Così Neusner constata alla fine: «Ora mi rendo conto che solo Dio può esigere da me quanto
Gesù richiede».
Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, p.393
«Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio». Se esaminiamo l'esclamazione di giubilo dei
sinottici in tutta la sua profondità, ci accorgiamo che, in realtà, essa contiene già
tutta la teologia giovannea del Figlio. Anche lì l'essere Figlio è conoscenza reciproca e
unità nel volere. Anche lì il Padre è il datore, che, però, ha affidato «ogni
cosa» al Figlio e proprio così l'ha reso Figlio, uguale a se stesso: «Tutte le cose mie sono tue e
tutte le cose tue sono mie» (Gv 17,10). E anche lì questo «dare» del Padre raggiunge la sua
creazione, il «mondo»: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito»
(Gv 3,16). La parola «unigenito» rimanda, da una parte, al Prologo, dove il Logos viene definito
«l'unigenito Dio - monogenès theòs» (1,18). Dall'altra, ricorda tuttavia anche Abramo, che
non rifiutò a Dio suo figlio, il suo «unico figlio» (Gn 22,2.12). Il «dare» del Padre
si compie nell'amore del Figlio «sino alla fine» (Gv 13,1), ossia fino alla croce. Il mistero trinitario
dell'amore che si delinea nel titolo «il Figlio» è una cosa sola con il mistero d'amore nella
storia che si compie nella Pasqua di Gesù. Anche in Giovanni, infine, il titolo «il Figlio» trova
la sua collocazione nella preghiera di Gesù, che però è diversa dalla preghiera della creatura:
è il dialogo d'amore in Dio stesso - il dialogo che è Dio. Al titolo «il Figlio»
corrisponde così il semplice appellativo «Padre» che l'evangelista Marco ha conservato per noi
nella sua forma originaria aramaica «Abbà» nella scena nell'orto degli Ulivi.
Joachim Jeremias, in vari studi approfonditi, ha dimostrato la singolarità di questo appellativo di Dio che,
nella sua intimità, era impensabile nell'ambiente di Gesù. In esso si esprime
l'«unicità» del «Figlio». Paolo ci fa sapere che i cristiani, in base al dono da parte
di Gesù della partecipazione al suo Spirito di Figlio, sono autorizzati a dire: «Abbà,
Padre» (cfr. Rm 8,15; Gal 4,6). È chiaro, pertanto, che questo nuovo modo di pregare dei cristiani
è possibile solo a partire da Gesù, a partire da Lui - l'Unigenito.
L’educazione inoltre, e specialmente l’educazione cristiana, l’educazione
cioè a plasmare la propria vita secondo il modello del Dio che è amore (cfr 1Gv 4,8.16), ha bisogno
di quella vicinanza che è propria dell’amore. Soprattutto oggi, quando l’isolamento e la
solitudine sono una condizione diffusa, alla quale non pongono un reale rimedio il rumore e il conformismo di gruppo,
diventa decisivo l’accompagnamento personale, che dà a chi cresce la certezza di essere amato, compreso
ed accolto. In concreto, questo accompagnamento deve far toccare con mano che la nostra fede non è qualcosa
del passato, che essa può essere vissuta oggi e che vivendola troviamo realmente il nostro bene...
Man mano che i ragazzi crescono aumenta naturalmente in loro il desiderio di autonomia personale, che diventa
facilmente, soprattutto nell’adolescenza, presa di distanza critica dalla propria famiglia. Si rivela allora
particolarmente importante quella vicinanza che può essere assicurata dal sacerdote, dalla religiosa, dal
catechista o da altri educatori capaci di rendere concreto per il giovane il volto amico della Chiesa e l’amore
di Cristo. Per generare effetti positivi che durino nel tempo, la nostra vicinanza deve essere consapevole che il
rapporto educativo è un incontro di libertà e che la stessa educazione cristiana è formazione
all’autentica libertà [...]
L’educatore autentico prende sul serio la curiosità intellettuale che esiste già nei fanciulli
e con il passare degli anni assume forme più consapevoli. Sollecitato e spesso confuso dalla
molteplicità di informazioni e dal contrasto delle idee e delle interpretazioni che gli vengono continuamente
proposte, il giovane di oggi conserva tuttavia dentro di sé un grande bisogno di verità: è
aperto quindi a Gesù Cristo che, come ci ricorda Tertulliano (De virginibus velandis, I,1), “ha
affermato di essere la verità, non la consuetudine”. E’ nostro compito cercare di rispondere alla
domanda di verità ponendo senza timori la proposta della fede a confronto con la ragione del nostro tempo.
Aiuteremo così i giovani ad allargare gli orizzonti della loro intelligenza, aprendosi al mistero di Dio, nel
quale si trova il senso e la direzione dell’esistenza, e superando i condizionamenti di una razionalità
che si fida soltanto di ciò che può essere oggetto di esperimento e di calcolo. E’ quindi molto
importante sviluppare quella che già lo scorso anno abbiamo chiamato “pastorale
dell’intelligenza” [...]
Il lavoro educativo passa attraverso la libertà, ma ha anche bisogno di autorevolezza. Perciò,
specialmente quando si tratta di educare alla fede, è centrale la figura del testimone e il ruolo della
testimonianza. Il testimone di Cristo non trasmette semplicemente informazioni, ma è coinvolto
personalmente con la verità che propone e attraverso la coerenza della propria vita diventa attendibile punto
di riferimento. Egli non rimanda però a se stesso, ma a Qualcuno che è infinitamente più grande
di lui, di cui si è fidato ed ha sperimentato l’affidabile bontà. L’autentico educatore
cristiano è dunque un testimone che trova il proprio modello in Gesù Cristo, il testimone del Padre che
non diceva nulla da se stesso, ma parlava così come il Padre gli aveva insegnato (cfr Gv 8,28).
Dal discorso del Santo Padre Benedetto XVI dell’11 giugno 2007 all’apertura del
Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma
«Gesù è il Signore» - è la confessione comune della Chiesa, il fondamento sicuro di
tutta la vita della Chiesa. Da queste parole si è sviluppata tutta la confessione del Credo Apostolico, del
Credo Niceno.
Da H.U.von Balthasar, Il Credo, Jaca Book, Milano, p.31.
Ogni molteplicità proviene da qualcosa di semplice. Le molte membra dell’uomo, da un uovo fecondato.
Le dodici enunciazioni del credo apostolico, anzitutto da queste tre domande particolari: Credi in Dio Padre, nel
Figlio e nello Spirito Santo? Ma anche queste tre formule sono espressione – ed è Gesù a
fornircene la prova – del fatto che l’unico Dio è, nella sua essenza, amore e donazione... Queste
tre “vie di accesso” a loro volta si diramano in dodici “articoli”
(“articulus” indica in latino la giuntura che tiene unite fra loro le membra). La nostra fede non si
affida mai a delle frasi, ma ad un’unica realtà che si dispiega davanti a noi: una realtà
che è al tempo stesso la verità più alta e la più profonda salvezza.