Leggendo il volume di L.Bressan, La parrocchia oggi, EDB, Bologna, 2004, si avverte
immediatamente l’impressione di essere dinanzi ad un testo nuovo. La sua fatica di ricostruire
storicamente le diverse tappe della riflessione che si è svolta in Francia sulla parrocchia, aiuta a situare
storicamente modi di vedere che altrimenti verrebbero considerati come assoluti. Nelle sue parole i parametri che
si sono via via auto-proclamati come nuovi e come unica espressione coerente della fede cristiana negli anni
’50, ’60, ’70, ecc. vengono, a loro volta, analizzati storicamente, come essi avevano cercato di
fare con le modalità precedenti di proporre il tema della parrocchia. Ci sembra che Bressan faccia questo
con vera passione e non con intento demolitivo; sempre appaiono nelle sue parole gli elementi propositivi, insieme ai
limiti evidenti ed ai fallimenti che appaiono più chiari guardandoli a distanza di alcuni decenni. Crediamo
che la lettura del suo testo aiuti in quest’opera contestualizzante.
Solo per citare un esempio che concretizzi quanto stiamo dicendo ci permettiamo di rimandare all’utilizzo
sempre diverso nei vari decenni del termine “comunità” che ci invita almeno a chiarificare quale
sia la nostra impostazione, fra le tante emerse nei decenni, quando facciamo riferimento ad esso. Lo stesso potrebbe,
dirsi di termini come “missione”, “evangelizzazione”, o di espressioni come “chiesa
delle origini”, “rapporto chiesa-regno di Dio”, “chiesa-mondo”, “primato dei
giovani, degli adulti, delle famiglie”, ecc.
Una cosa appare certa, se si affronta la fatica della lettura dell’analisi storica di Bressan: la
parrocchia è apparsa più forte, proprio nella sua realtà concreta e storica, dell’idea che
di essa ci si era fatta. Ogni tentativo di sostituirla con altro è apparso, alla fine, meno significativo
della sua stessa presenza. E’ proprio da una prospettiva storica e antropologica (dal basso, potremmo dire)
- prima che da una ancor più importante lettura teologica ed ecclesiologica - che la parrocchia si sta
manifestando essere non una sovrastruttura imposta alla vita, ma un luogo decisivo dell’integrazione fra la
vita e la fede ed uno spazio umano nel quale divengono possibili storicamente il primo annunzio,
l’evangelizzazione e la catechesi.
Il breve testo con cui presentiamo il volume di Bressan vuole essere solo un riassunto – nel senso
più elementare del termine - della seconda parte della sua opera, la parte più propriamente storica.
Ovviamente non possiamo che rimandare alla lettura del volume, che consigliamo, per eventuali fraintendimenti del
pensiero dell’autore che potrebbero essere presenti nel nostro breve sunto.
Abbiamo voluto aggiungere in appendice a questo nostro riassunto della parte storica del volume di Bressan la
trascrizione di nostri appunti presi in occasione di un suo intervento dedicato al tema della parrocchia oggi.
Questi appunti in appendice non hanno neanche la pretesa del riassunto. Sono solo alcune note scritte durante
l’ascolto delle sue parole. Le presentiamo lo stesso, perché le riteniamo provocatorie nel bene e
perché arricchiscono con alcune notazioni sull’oggi le note storiche.
Lorenzo Santi per il Centro culturale Gli scritti (9/4/2007)
Nel suo volume La parrocchia oggi, EDB, Bologna, 2004, L.Bressan propone al pubblico italiano il suo lavoro di ricerca svolto sotto la guida del prof.J.Audinet, presso la facoltà di teologia dell’Institut Catholique de Paris. La seconda parte del volume è una ricostruzione dell’evoluzione della riflessione della Chiesa di Francia sulla parrocchia. Questa analisi storica è suddivisa in 4 tappe, che portano i seguenti titoli:
In questo capitolo vengono analizzate le riflessioni di H.Godin e di Y.Daniel (1943), poi di
F.Boulard (1945), di G.Michonneau (1945) che confluirono poi nella Mission de France e nella Mission de Paris,
Sarà, infine, Y.Congar che, da teologo, nel 1946 e nel 1950, cercherà di chiarificare i termini
ecclesiologici della questione.
Godin e Daniel e, poi, Boulard e Michonneau, con accenti diversi, posero il problema della necessità di un
aggiornamento della parrocchia. Il loro intento non era quello di dichiarare finita la parrocchia ed il suo servizio
territoriale, con la sua tradizionale attenzione ai processi educativi delle nuove generazioni, la catechesi, la
centralità della liturgia domenicale, ecc. ecc., ma di problematizzarla in vista delle nuove situazioni che si
andavano creando. Spesso, però, il loro linguaggio andava ben oltre questo intendimento.
Il loro accento era su quello che si potrebbe chiamare il “mito delle origini” della Chiesa. Si voleva,
ripensando ai primi capitoli degli Atti degli Apostoli, un nuovo inizio, quasi una rifondazione, Si indicava la via
di un ritorno al passato originario, saltando tutte le tappe intermedie che la storia della chiesa aveva vissuto ed
elaborato. Il richiamo a quell’autorità primitiva era sentito come più forte di ogni altro
aspetto. Si creava così una “fusione di orizzonti” troppo semplice fra mito delle origini e
presente storico – potremmo dire con il linguaggio di oggi.
Il confronto con il mondo operaio ed industriale, poneva il problema della nuova evangelizzazione e tutto era visto
in questa prospettiva. La parrocchia si vedeva attribuita una responsabilità enorme che mai aveva avuto:
essere missionaria in quel contesto. C’era un aumento evidente delle pretese nei suoi confronti, rispetto al
passato. I traguardi proposti divenivano sempre più ambiziosi: riconquistare alla fede le masse operaie. Il
problema serio del rapporto con il nuovo che emergeva veniva semplificato: non si trattava tanto di una aggressione
di forze anti-cristiane contro la chiesa, ma il problema era piuttosto quello di una inadeguatezza della chiesa a
questa realtà nuova. Sarebbe bastata, secondo la lettura ingenua di questi testi, una trasformazione della
struttura ecclesiale e nuovamente l’evangelizzazione sarebbe avvenuta. Era la Chiesa stessa – sembravano
sostenere questi autori - l’ostacolo ad un fecondo incontro fra vangelo e mondo operaio.
Si poneva la domanda se non fosse il caso di abbandonare tutti i legami sociali e le azioni fin lì utilizzate.
Ci si domandava se non era il caso di abbandonare, in particolare, la dimensione “territoriale”,
così caratteristica della parrocchia come territorio definito e così legata alla religiosità
vissuta dalla popolazione.
Ogni aspetto istituzionale iniziava ad essere riletto alla luce della critica evangelica contro alcuni aspetti delle
istituzioni giudaiche. Forse la critica di Gesù alle istituzioni del tempo, al sacerdozio ed al culto, non
valevano sic et simpliciter per le istituzioni della Francia di allora?
Si proponeva una Chiesa come comunità di convinti testimoni della memoria cristiana. Soprattutto, il principio
comunitario veniva enfatizzato, quasi unica realtà capace di risolvere ogni problema. Senza accorgersene si
lavora per uno strappo, per un rifiuto delle mediazioni culturali storiche. Si camminava verso l’abbandono
della cosiddetta Chiesa di popolo (Volkskirche) per una Chiesa di Comunità (Gemeindekirche) di convinti.
Questo era in sintonia con il contesto culturale del tempo che andava elaborando un opposizione fra comunità
ed istituzione e società. La comunità era la forte idea alternativa che cominciava a circolare nel
pensiero del tempo. Qualche autore si spinse più in là ancora, come ha affermato E.Poulat, nel 1994:
“In questi anni di guerra e del dopo-guerra il comunismo è stato il grande discrimine religioso”.
Commenta Bressan che, in quel momento storico, “il mondo operaio, laboratorio per una nuova società
più libera, giusta ed egalitaria, poteva benissimo essere assunto anche come laboratorio di una nuova
istituzione ecclesiale”. Ed indica la figura della Delbrêl come una delle testimoni, invece, più
capaci di percepire la posta in gioco e di muoversi nelle tensioni createsi nel tessuto ecclesiale francese di
allora, senza cadere in questo rischio.
Non siamo ancora nella pura utopia, ma, se il tutto fosse stato spogliato del fascino profetico, come avviene oggi
rileggendo quei testi a distanza di decenni, ci si sarebbe accorti di una certa improvvisazione nelle analisi e nelle
proposte. Tutto era incentrato su di una contrapposizione fra religiosità tradizionale ed una logica
missionaria nuova, scaturente dal nuovo modo di essere Chiesa e parrocchia.
La proclamazione della crisi dell’istituzione parrocchiale, le riflessioni sulla missionarietà cristiana
e sulla sua realtà comunitaria, erano il luogo di visibilità di un problema molto più ampio che
era stato sollevato, sul senso e sui linguaggi della presenza della fede nel mondo.
Comunque, tutto era posto in chiave interrogativa, non ancora in forma assertiva.
Congar cercò di chiarificare i tentativi pastorali in atto. Riconosceva a questi autori il merito di aver dato
espressione ad un disagio che si avvertiva e, da teologo, si poneva il problema di come guardare alla Chiesa con
linguaggi comprensibili per il tempo nuovo. La sua proposta non era tanto quella di seguire le parole d’ordine
del periodo, ma di giungere ad una vera comprensione teologica dei cambiamenti in atto.
La Chiesa doveva sempre presentarsi, secondo il suo pensiero, nella sua veste cattolica ed universale, da un lato,
come in quella del quotidiano, della parrocchia, dall’altro. Proponeva due termini, quelli della
“città” e della “famiglia”, ad indicare due aspetti della raffigurazione della Chiesa.
L’immagine della “città” riportava al tema della Diocesi – ed, oltre essa, alla Chiesa
universale – mentre quella della “famiglia” alla cellula di base della vita relazionale.
Merito di Congar era, comunque, di mostrare che un’unica raffigurazione istituzionale non era sufficiente a
rendere, da sola, tutta la complessità della realtà della Chiesa.
Per Congar “la Chiesa non poteva che essere un’istituzione sociale e pluriforme con figure sociali
diversificate e complementari per rendere visibile la sua natura”.
La doppia figura istituzionale-familiare prendeva le mosse da un’analisi della Tradizione cristiana, ma,
probabilmente, si rifaceva anche alle considerazioni sociologiche del binomio comunità-società
(Gemeinschaft-Gesellshaft). La parrocchia non era struttura di diritto divino, non era strettamente necessaria
quindi, ma doveva la sua nascita non tanto alla necessità di una presenza capillare della Chiesa, quanto
piuttosto, alla necessità di un nuovo ordine di grandezza per rendere visibile concretamente il mistero della
Chiesa ad ogni cristiano.
Il parroco si sarebbe presentato così come un padre con i suoi figli, la parrocchia si sarebbe strutturata
secondo il modello della Chiesa primitiva, con una accentuazione della comunità, della fraternità dei
cristiani, non pensati come singoli, ma comunitariamente. Restava deluso, leggendo Congar, chi avesse voluto
l’abbandono del principio parrocchia o la dichiarazione che la parrocchia fosse solo una istituzione di secondo
livello e non più necessaria. Il discorso era trasportato dal piano delle proposte pastorali al piano dei
termini ecclesiologici. Solo la parrocchia permetteva, secondo la sua lettura, la visibilizzazione della
Chiesa-famiglia.
La parrocchia esprimeva il volto materno ed accogliente della Chiesa, aperto a tutti. Senza la parrocchia il volto
della Chiesa ne sarebbe uscito profondamente modificato.
Congar sentiva il rischio di accentuazioni sociologiche nell’analisi della parrocchia e si esprimeva dicendo
che la Chiesa era dall’alto ed insieme dal basso. Ogni singola realtà ecclesiale riceve – diceva
– il suo senso ultimo dalla partecipazione alla Chiesa universale (“dall’alto”), ma, insieme,
si assume la responsabilità di “fare” la comunione (“dal basso”), dopo essere stata
fatta da essa.
I due/tre decenni successivi agli anni ’50 spostarono in maniera decisa i confini del
discorso, secondo l’analisi di Bressan. In questo periodo ci troviamo di fronte non solo a singole figure che
riflettono sulla parrocchia, ma dinanzi a movimenti spontanei di pensiero sorti intorno all’esperienza della
Missione: possiamo pensare alle annate ’45-’60 di riviste come Masses Ouvrières, Témoignage
chrétien, Cahiers de Jeunesse de l’Eglise, ma anche a contributi apparsi su Esprit, Lumen Vitae,
Études in quegli anni.
Bressan evidenzia come questo periodo sia caratterizzato da un dialogo avviatosi con le scienze sociali del tempo,
grazie alla positiva assunzione di categorie di pensiero presenti nella società. Sembra quasi, leggendo gli
scritti sulla parrocchia di questo periodo, che il referente non sia più l’istituzione ecclesiastica,
né il suo vissuto pastorale, ma, piuttosto, il mondo intellettuale e scientifico, più in generale il
mondo laico esterno alla chiesa. Ne emerge una figura di cristianesimo presentato come istanza critica della Chiesa e
della società, che ha come fine di generare dei liberi pensatori, degli intellettuali di professione. Le
riflessioni sono caratterizzate da un forte sapore utopico e critico-riformatore, secondo lo stile proprio della
mentalità di quegli anni.
A distanza di anni è possibile vedere immediatamente, in questa impostazione, quello che sarà poi
chiamato il déplacement de la théologie (dal titolo di un volume curato dall’Institut Catholique
de Paris). Bressan scrive: “I rischi legati ad un’assunzione letterale ed acritica dei motivi della
protesta laica e marxista non avrebbero tardato a manifestarsi, evidenziando i pericoli e l’inaccettabile
impoverimento (sino all’afasia) di un pensiero cristiano che, per fare spazio alle ragioni dell’altro,
dimentica e disperde la propria identità”.
Più in dettaglio Bressan individua nell’espressione “reinventare la Chiesa”
l’imperativo del pensiero di quegli anni. La riflessione ecclesiologica è tutta presa dal tentativo di
destrutturare l’organizzazione tradizionale della Chiesa, in nome di una aggregazione più informale e
spontanea, in linea con la forte critica alle istituzioni politiche, sociali e culturali del tempo.
La parrocchia, in questo tipo di lettura, non può che essere rifiutata, divenendo come il simbolo
rappresentativo dell’istituzione ecclesiale, la traduzione concreta della Chiesa come istituzione. La Chiesa
deve sorgere – secondo questi autori – come frutto di un libero aggregarsi di persone, intorno al
semplice annuncio del messaggio evangelico, avendo come modello delle piccole comunità. Il termine
“comunità di base” nasce in questo contesto, ad indicare un nuovo modello sociale di chiesa. Ogni
legame istituzionale esterno viene visto come freno ed impedimento, come un’ingiustizia da correggere.
Alcune reazioni immediate di autori che avevano dato inizio alla riflessione sulla parrocchia – Michonneau,
Boulard, lo stesso Suhard – cercarono di mitigare queste proposte nelle quali non si riconoscevano pienamente,
nel desiderio di arginare l’onda che si intuiva crescere.
Significativo, in questo contesto, l’evoluzione del concetto di “missione”. Secondo la prospettiva
ecclesiologica elaborata in questi decenni, missione non significa più una particolare attitudine della Chiesa
verso il mondo non cristiano, come era ancora nella fase precedente, ma un’illustrazione sintetica di tutto un
modello ecclesiale alternativo alla tradizionale immagine dell’istituzione ecclesiale. Non appare più
dominante l’esigenza di donare la fede cristiana come se il non credente ne avesse bisogno, ma piuttosto
missione indica ora il rinnovamento della compagine ecclesiale.
Missione è termine che viene così declinato nella direzione dell’esodo verso l’ignoto di
una nuova terra di evangelizzazione (vedi, ad esempio, la scelta del divenire preti operai nel mondo operaio), nella
ricerca di nuovi metodi (il catecumenato), nella direzione di nuove forme di vita ecclesiale (l’ideale
comunitario).
Come nuovi imperativi della pastorale si evidenziano allora la necessità di dare corpo ad un gruppo sociale in
grado di esibire una testimonianza pubblica di un senso nuovo dato al mondo ed alla coesistenza sociale, la scelta di
essere a fianco degli operai, di modo che i problemi delle masse operaie divengano automaticamente i problemi della
nuova Chiesa missionaria, di far nascere le comunità spontanee cristiane del futuro.
I temi ricorrenti nel descrivere queste comunità cristiane sono quelli di un nuovo modo di intendere la figura
del prete e del laico, nel loro reciproco rapporto (con la proposta di una pressoché intercambiabilità
delle loro figure), di una ridefinizione delle principali attività e dei luoghi da utilizzare (soprattutto la
richiesta di abbandonare una pastorale sacramentale in favore di una pastorale di più diretto annuncio), del
rifiuto del legame fra fede cristiana e religiosità naturale delle persone.
La pastorale del futuro non avrebbe più dovuto contemplare preti nelle chiese ad attendere i fedeli ed
accompagnare i loro bambini.
Rétif esprime, nell’anno 1950, questa evoluzione con l’espressione
“dal catechismo al catecumenato” (Du catéchisme au catéchuménat), nel desiderio di
privilegiare gli adulti e, fra di essi, gli operai che già facevano la storia.
Alcuni aspetti che erano sempre stati centrali nella proposta dell’esperienza parrocchiale - come il carattere
universale della Chiesa, la sua Tradizione, la centralità della dimensione sacramentale nella maturazione
della fede - sembravano divenire elementi secondari. La Chiesa era invitata a concentrarsi sul presente. Il rapporto
con il passato era possibile tramite un diretto accesso alle fonti che non necessitava di mediazioni
istituzionali.
Gli esiti storici di questa fase presero una piega diversa dalle attese di questi autori per il sopraggiungere del
maggio francese nel ’68. L’irrompere dei giovani e degli studenti sulla scena assunse presto i toni di un
ripiegamento dentro la struttura interna del proprio gruppo, con una distanza progressiva dal mondo operaio, a
differenza degli anni precedenti. Bressan nota come alcuni autori, nelle indagini sociologiche sulla Mission
Étudiante (l’allargamento al mondo studentesco della Mission de France) già individuassero allora
la tendenza ad una esperienza religiosa vissuta in termini emozionali, tratto che diverrà dominante negli anni
successivi - così, in particolare, D.Hervieu-Léger; De la mission à la protestation.
L’évolution des étudiantes chrétiens en France (1965-1970), 1973.
Venivano posti al centro dell’attenzione ecclesiale, da parte del movimento studentesco giovanile, i vincoli
affettivi, che erano alla base del gruppo, ma soprattutto non venivano più considerati adeguati tutti i
linguaggi e le espressioni simboliche ricevute dalla tradizione.
In questi trent’anni si manifestano l’ingenuità e l’impreparazione di queste tensioni
utopiche, pur cariche di passione ed interesse. Il termine “magico” di comunità sembra assorbire
molte delle energie e dell’attenzione. Il criterio interpretativo è, comunque, quello della frattura
re-istitutrice, per utilizzare l’espressione proposta da de Certeau (rupture instauratrice, in Michel de
Certeau, La faiblesse de croire, Seuil, Paris,1987). Con essa si intende una riscrittura
radicale dovuta alla convinzione che siano obsolete ed inservibili tutte le figure tradizionalmente utilizzate per
dire e dare visibilità al cristianesimo. Rifiutando il principio di una successione lineare, si introduce
un’esperienza di rottura. Si vuole rompere con il passato, in un meccanismo di discontinuità, per
generare un nuovo futuro, senza possibilità di mediazioni alcuna con il passato.
Ma, pure, ci si rivolge ad un passato. È, però, un passato diverso da quello conosciuto. Si cerca di
ricostruire un passato ideale che sostenga il nuovo futuro.
E’ un momento di forte rapporto con la tradizione marxista; si cerca di ritrovare dentro la propria tradizione
cristiana tutti gli elementi della nuova filosofia socio-politica, come già presenti ab origine, per
accorgersi di saper parlare il linguaggio di coloro che erano stati ritenuti “avversari”. Vengono
esaltati aspetti quali il carattere provvisorio e desacralizzato dell’architettura, l’egualitarismo, la
povertà e l’attenzione agli ultimi, l’esemplarità a livello esistenziale, l’impegno
sociale.
Bressan si sofferma poi a descrivere tre aspetti di questo atteggiamento. In particolare, la liturgia si presenta
come il luogo nel quale si esprime l’identità del gruppo, come il racconto-testimonianza della vita del
gruppo. In secondo luogo, la figura dell’autorità diviene più carismatica e meno sacrale,
perché il ruolo dell’autorità viene riconosciuto a chi viene sentito come autorevole, come capace
di proporsi come leader del gruppo, nella custodia e nella trasmissione della memoria riscoperta. Infine, il gruppo
locale diviene l’erede di ciò che prima era rappresentato dalla parrocchia.
Questi tentativi riformatori della parrocchia si sono scontrati in quegli stessi anni, secondo l’analisi di
Bressan, con quattro questioni irrisolte, che, alla fine, hanno mostrato i limiti di questo progetto di rinnovamento.
Innanzitutto queste esperienze hanno progressivamente distaccato i gruppi che ne erano protagonisti dalla base del
cattolicesimo più tradizionale, imboccando la via di un cristianesimo sempre più elitario e selettivo,
con la conseguenza di trasformare il progetto missionario in un sogno per pochi. Si è verificato, cioè,
un distacco dalla base e dal corpo sociale che, all’inizio, aveva fatto, invece, da cassa di risonanza. In
secondo luogo, l’eccessivo utilizzo del pensiero marxista ha fatto presto dubitare della presunta
oggettività di queste proposte. Gli strumenti utilizzati sono così apparsi troppo dipendenti dal clima
filosofico e politico dell’epoca
Un terzo elemento di criticità è stato il progressivo auto-isolamento dovuto all’accentuazione
del carattere profetico ed utopico rivendicato. L’utopia si è trasformata in rigidità con un
conseguente isolamento che appariva voluto.
Infine – e questo è un elemento di grande rilevanza per Bressan – non è approdato ad un
esito positivo il tentativo di ri-scrittura della storia cristiana: “L’apertura al mondo, come si
intendeva definire questa nuova forma di esperienza e di azione ecclesiale, si è risolta in una sorta di
appiattimento della memoria cristiana su canoni linguistici e simbolici della cultura del tempo” (p.249).
Si potrebbe dire che questa spinta utopistica ha accentuato gli elementi corrosivi della realtà istituzionale
della parrocchia, ma non è stata capace di costruire un nuovo corpo sociale del cristianesimo. La sua critica
alla parrocchia per un’evoluzione verso forme nuove si è rivelata, così, un’operazione meno
semplice del previsto. Alcuni dei modelli presentati come i successori della parrocchia tradizionale sono durati lo
spazio di qualche anno e sono poi scomparsi o, comunque, sono stati ridotti dal tempo all’insignificanza.
Insomma, se è stato più facile individuare dei punti problematici, il motivo del fallimento si è
avuto nell’opera di ricostruzione.
Dalla metà degli anni ’60 si delinea un nuovo atteggiamento verso la parrocchia che,
se da un lato rifiuta i toni radicali della protesta, dall’altro, cerca, a suo modo, di accogliere alcune delle
osservazioni critiche, ma indirizzandole verso altri obiettivi.
La questione sulla parrocchia sembra riaprirsi anche a motivo di una questione apparentemente secondaria, ma, in
realtà estremamente significativa. L’edificazione di nuovi quartieri porta alla richiesta della
costruzione di nuovi edifici cristiani. Sono essi necessari? Deve essere semplicemente abbandonato l’edificio
parrocchia e si deve costruire una comunità senza costruire un edificio nel quale viva? Come debbono essere
strutturati questi edifici, se li si costruisce? Come deve essere edificata una nuova parrocchia? E, più
radicalmente, deve essere edificata? (vedi il testo di F.Russo, 1969, e le ricostruzioni storiche della questione in
Cholvy-Hilaire, Debié-Verot, citati da Bressan).
Bressan presenta in successione gli scritti sulla parrocchia apparsi in quel periodo. Innanzitutto, la riflessione
dei due parroci Connan e Barreau (1966), con la loro dichiarata intenzione di un “inverno della parrocchia a
cui mettere fine”. La loro riflessione viene dal loro stare nella pastorale che, a loro dire, li porta a non
condividere le affermazioni sulla morte della parrocchia. La loro proposta – affermano - è da leggere
non in chiave anti-istituzionale, in vista di una accelerazione dei tempi della definitiva scomparsa della
parrocchia, ma per un suo rinnovamento. L’uomo urbano si trova, infatti, nello spaesamento dovuto ai molteplici
luoghi della sua vita. La parrocchia va allora inserita in un contesto pastorale di attenzione anche agli ambienti di
vita (es.lavoro), di modo che la parrocchia sia solo uno dei luoghi epifanici della chiesa che richiede, però,
necessariamente, altri livelli (diocesi, parrocchia, pastorale d’ambiente)
Bressan illustra poi la proposta di R.Pannet (1974), recensito da Poulat. L’autore – anch’egli
rivendica una vera esperienza pastorale vissuta e non una mera conoscenza teorica – parla di una
“maggioranza silenziosa” di cristiani che non si riconoscono nella protesta. Il suo è un richiamo
ad una religiosità popolare da non denigrare. Le proposte degli autori della Mission
non sono state capaci di contrastare la crisi, ma anzi l’hanno accentuata, cancellando la figura del parroco,
il valore dei grandi momenti rituali, il volto popolare della chiesa. Le sue tesi sono a favore di una dimensione
territoriale e dell’aspetto sacrale della liturgia, che si rivela capace – a suo dire - di trasmettere la
fede e di dare unità al corpo parrocchiale.
Il Guérin (1981) sceglie uno sguardo che definisce “realistico” nel guardare alla parrocchia,
mettendone in evidenza luci ed ombre.
Se nessun altra forma è stata in grado di sostituirsi ad essa, certo è da considerare il limite del suo
carattere istituzionale, che la fa talvolta guardare con diffidenza. La sua apertura a tutti la espone al rischio di
un utilizzo privato, la sua accoglienza, può spingerla ad essere passiva, più che agente attivo di
annunzio. La carenza di sacerdoti si rivela, in progressione, un ulteriore forte motivo di criticità.
Ma Guérin invita a vedere anche gli assi portanti in positivo – che chiama les atouts. Innanzitutto la
sua accoglienza che non la fa mai chiudere. Inoltre la parrocchia è l’unica realtà che permette e
promuove dei percorsi educativi di base in modo pedagogico. È la realtà che, attraverso la propria
identità di istituzione ecclesiale, visibilizza il mistero profondo che abita la Chiesa.
È, per lui, uno strumento indispensabile di dialogo con la società proprio a motivo della debolezza
della testimonianza esibita ed esigita. La definisce, in sintesi, un insostituibile spazio operazionale (espace
opératoire).
In quegli anni anche un gruppo di sociologi si dedicò a studiare le dinamiche parrocchiali, cercando di
individuarne i modelli, la forza e la debolezza. Bressan fa riferimento qui agli studi sociologici di
Boulard-Fichter, Carrier-Pin, Houtart-Remy.
Essi evidenziano il limite della proposta di Connan-Barreau, che hanno in mente una parrocchia con una agenda
fittissima di impegni ed appuntamenti.
La parrocchia urbana è stata investita da un grande vento traumatico, rispetto a quella rurale, e si trova
cambiata senza essere stata mai interpellata. Le figure che sono emerse vengono ricondotte a tre, secondo questi
studi.
Una prima figura – che è la meno valorizzata e analizzata in questi stessi autori – è
quella di una parrocchia che si caratterizzi primariamente per essere un semplice luogo aperto a tutti.
La seconda figura è quella di una parrocchia che si caratterizzi per il tentativo di offrire servizi il
più variegati possibili (le cosiddette “opere parrocchiali”) sociali e ricreativi.
La terza figura è quella della cosiddetta “comunità missionaria”, animata da una forte
identità comunitaria e con strutturazioni interne di comunità più piccole.
Secondo l’analisi di questi sociologi, questo terzo tipo è solo apparentemente in contrasto con il
secondo modello, ma, in realtà, gli è simile. Infatti, si ripropone di arrivare alla centralità
della parrocchia attraverso il modello sociale comunitario. In fondo, in questi due modelli, la parrocchia si ritrova
concentrata su se stessa, secondo logiche proprie.
Allargando l’analisi a dati più generali, questi sociologi sostennero
che la parrocchia istituiva legami sociali non primari e tuttavia capaci di sostenerla: il legame sacramentale e,
soprattutto specificamente, quello della celebrazione eucaristica erano in grado di conferire significato alla
comunità parrocchiale.
La rete di relazioni costruita dai sacramenti ed intorno ad essi è capace di visibilizzare la Chiesa. Bressan
scrive, sintetizzando, che emergeva una visione di parrocchia come “una comunità non basata
sull’appartenenza territoriale o su altri legami sociali primari (vincoli familiari, locali, di potere...), ma
risultante dai legami che i battezzati, a partire dalla partecipazione alla stessa eucarestia, sono in grado di
costruire tra loro” (p.281).
Questo legame aveva il merito di lasciare ampio spazio alla libertà, permettendo livelli diversi di adesione
ed un legame poco direttivo.
L’eucarestia si presentava come elemento caratterizzante una chiesa finalmente urbana.
Ancora Bressan: “Rifiutando qualsiasi determinazione sociale ulteriore secondo una logica movimentista (di tipo
missionario) o secondo una logica pastorale più tradizionale (sullo stile delle opere parrocchiali), esibendo
come legame sociale il vincolo più specifico e proprio che la Chiesa avesse, la sua pratica eucaristica, il
cristianesimo ottiene, a detta di questi sociologi, una capacità di prossimità e di inserimento nel
tessuto sociale molto più efficace di quella propagandata dalle strategie pastorali di moda in quel tempio
(gli anni ’60 e 70 del ventesimo secolo)”.
Tutto questo si configura così come un vero elemento di annuncio e uno strumento di missione. Il Pin riprende
alla lettera una formulazione di Congar che aveva parlato della parrocchia come del luogo dei “cristiani sine
additio”.
In questo contesto, il passato viene visto non in chiave di rottura, ma si ha piuttosto in mente un futuro che
valorizzi la tradizione attualizzandola.
Un ulteriore provocazione venne da Comblin, con il suo Théologie de la ville, 1968, dove la città
è definita come “la communion des hommes par le moyen de leur corps”.
La riflessione che Comblin vuole portare avanti è teologica, ma egli afferma di voler assumere il fenomeno
urbano come strumento interpretativo della fede cristiana. La città può benissimo essere interpretata,
per lui, come categoria teologica, come segno dei tempi, attraverso il quale Dio chiama il suo popolo. La sua
indicazione indirizza alla Chiesa locale, come luogo necessario per l’elaborazione della ecclesiologia e della
missione. Se la Chiesa universale è data come già istituita, la Chiesa locale è la Chiesa nel
suo istituirsi concreto e storico. Per Comblin, la Chiesa locale è l’immagine originaria
dell’istituzione ecclesiale. Secondo la sua ricostruzione fin dal NT e per tutto il primo millennio, la chiesa
si presenta come chiesa locale e cittadina, intorno al vescovo, al suo presbiterio inteso come collegio ed al popolo
unitariamente considerato.
A questo “mito” egli contrappone un contromito negativo, rappresentato dalle istituzioni ecclesiali del
II millennio, così come le ricostruisce lo stesso autore. La parrocchia fu pensata per la campagna, non per la
città, ormai in una Chiesa attenta a controllare socialmente il territorio (e comunque la parrocchia non
funzionò mai totalmente, poiché furono necessari gli ordini religiosi, afferma Comblin).
Per Comblin, ne consegue così che sia ingenuo il tentativo di tornare alla parrocchia, anche se intesa sul
modello comunitario. La Chiesa va pensata, secondo la sua proposta, come Chiesa locale, come un tutto unitario,
vivente nella città. Egli ne sottolinea la capacità di denuncia dei mali che abitano la città
stessa.
Egli individua ulteriormente una strutturazione dell’unica Chiesa locale in unità piccole sul modello
delle comunità di base, le uniche in grado di inserirsi, secondo Comblin, in modo maturo (per la sua
libertà e duttilità) nel tessuto urbano. La città sarebbe così abitata da una pervasiva
presenza di piccole comunità estremamente vive e non organicamente collegate fra loro.
Bressan sintetizza le linee dominanti di questo periodo di riflessione sulla parrocchia indicandone il pensiero
riformatore ma, questa volta, con una consapevolezza maggiore che sia necessario situarlo all’interno di una
continuità con la tradizione ecclesiale.
Il periodo è caratterizzato da dibattiti, evidenziati nelle opere analizzate, sul rapporto diocesi
–parrocchia, sul ruolo della Parola e dei sacramenti, sulle molteplici forme di ministerialità della
chiesa, sulla visibilizzazione della Chiesa attraverso forme concrete.
Tutto questo avviene in confronto con la cultura urbana. Si sottolinea a più riprese che il fenomeno urbano
toglie credibilità alla comunità naturale, che il mito comunitario è una malcelata
ri-proposizione della comunità naturale, che la religiosità popolare non è da denigrare, che il
tessuto sociale non è più totalizzante, ma sempre più diversificato.
Per quel che riguarda la parrocchia se ne sottolinea, in positivo, in questo periodo, che essa può essere una
immagine di chiesa adeguata e necessaria come visibilizzazione che faccia accedere alla natura più profonda ed
alla identità teologica della Chiesa stessa. Si mostra a più riprese che la parrocchia permette alle
persone di non essere solo oggetto, ma anche soggetto della traditio fidei, poiché è proprio la
parrocchia a permettere una ministerialità, con ampi spazi di coinvolgimento.
La riflessione degli autori di questi periodo non utilizza più lo schema della rottura instauratrice, ma parla
piuttosto di un futuro che valorizzi la tradizione, con l’affermazione della chiara dimensione istituzionale
dell’esperienza cristiana.
La parrocchia viene vista cercando di evidenziarne una chiara dimensione teologica e, spesso, si fa riferimento al
polo rappresentato dalla Diocesi.
I contributi evidenziano continuamente la sproporzione fra gli stimoli e le risorse, fra le attese verso la
parrocchia e le sue possibilità concrete, ma, la maggior parte dei contributi chiedono che essa non sia
abbandonata per la sua povertà istituzionale e simbolica, ma la indicano, invece, strumento prezioso ed
insostituibile.
Bressan individua una diversa tappa di riflessione sulla parrocchia in Francia negli anni
’80 e ’90. Assistiamo, in questi due decenni, da un lato alla scomparsa di quei movimenti che avevano
declinato in chiave rivoluzionaria le idee precedenti. Un elemento di novità è dato dai numerosi
pronunciamenti di vescovi sul tema della parrocchia. È significativa, a questo riguardo, la domanda che mons.
Duval pose in apertura dell’assemblea dei vescovi francesi a Lourdes nel 1989: “Comment se fait-il que
nous disions rien au sujet de la paroisse?” (p.316).
Gli interventi ed i documenti dei vescovi, in questo periodo, si preoccupano della debolezza della parrocchia, a
motivo della scarsità del clero, ma ne sottolineano con forza e chiarezza l’indispensabilità. La
parrocchia dimostra di avere una forte capacità di resistenza, contro tutte le letture che ne avevano
dichiarato la morte anzi tempo. La parrocchia si rivela, dove continua ad esistere, come il luogo capace di tradurre
visibilmente la chiesa, capace di una missionarietà reale, capace di una interazione attiva con il
territorio.
Se ne sottolinea la sua carica evangelizzatrice, il suo stile accogliente e non burocratico, la sua importanza come
comunità dove si compiono gli atti istitutivi, sacramentali, con un ricentramento, rispetto ai periodi
precedenti, intorno all’eucarestia.
Sopratutto essa viene vista come la realtà capace di dare visibilità sociale all’immagine
teologica della Chiesa come corpo di Cristo, per la sua forte valenza simbolica, di segno epifanico.
A livello parrocchiale è da registrare in questi decenni la grande questione del reticolo parrocchiale, con la
riflessione sulle paroisses nouvelles. La mancanza di clero porta ad un accorpamento delle parrocchie. Per molti
autori di questi decenni a noi vicini è evidente che non si tratta solo di una ristrutturazione territoriale,
ma di un vero problema ecclesiale. Si è avuto il fenomeno di molte realtà locali che hanno rifiutato
alcune decisioni di accorpamento, perché sono loro apparse come prese a tavolino. Soprattutto, ci si è
interrogati sul rischio della scomparsa di colui che incarnava simbolicamente la visibilità della parrocchia,
cioè il parroco. Un esempio indicato da Bressan, per far capire la serietà del problema, giustamente
avvertito come “trauma” dalle persone stesse, è il caso della Diocesi di Sées, nella quale
si è passati in questi decenni da 507 parrocchie a 37! Poiché questa situazione non è
l’eccezione, ma la norma, da un lato si dichiara che è impossibile tornare al periodo precedente, ma,
d’altro lato, questa ristrutturazione è sentita come “imposta dall’esterno”. Sembra
quasi di trovarsi, negli autori che scrivono in questi due decenni, come in un momento di sospensione che spinge a
rileggere più criticamente il percorso dei decenni precedenti. Le reazioni ora sono più pacate.
E’ maturata certamente una chiesa più partecipata, con le figure dei “laici” ormai
fortemente presenti.
Il nocciolo profondo della questione sembra ora essere la domanda cosa ne sia del legame religioso in quanto legame
sociale.
Nel frattempo, la Francia ha visto comparire le cosiddette communautés nouvelles, con una grande
proliferazione di esperienze. In queste realtà il “noi” comunitario è molto forte. La
comunità diviene il luogo dell’esaltazione dell’identità. Si afferma che il passato mitico
della Chiesa ora rivive in esse. Talvolta, in queste nuove comunità, l’accento sembra spostato non
più verso l’avvento di una nuova società, come nei decenni precedenti, ma verso l’attesa
paziente e attiva del Regno di Dio che è “altro” dal contesto presente. Le nuove comunità
affermano di voler testimoniare il radicale “essere altro” del cristianesimo. Si sentono come i
successori della parrocchia. ne assumono tutti i riti, i linguaggi, ma in un contesto diverso.
Il contesto sociale più ampio continua a definirsi cattolico, ma in una visione nella quale il soggetto
individuale è il centro. Tutto appare come una dimora provvisoria, a prescindere da qualsiasi legame.
Anche la riflessione sui legami e sugli “strumenti” viene ora condotta con più pacatezza. Se
è evidente che la parrocchia non rappresenta la totalità della chiesa, d’altro lato essa è
vista sempre più come insostituibile. È il reticolo istituito intorno alle celebrazioni eucaristiche
che viene visto come l’elemento caratterizzante. Dove non è possibile l’eucarestia, non vi
è ragione sufficiente per una parrocchia. D’altro canto il battesimo è legame che valorizza la
persona precedentemente a quello eucaristico, sottolineando l’importanza della vita della singola persona.
Per quel che riguarda gli sviluppi dati al termine “comunità”, che grande rilievo aveva avuto nei
decenni precedenti, si afferma ora che la parrocchia è comunità, ma non nel senso specifico, come nel
caso delle nouvelles communautés, ma nel senso più ampio di Chiesa come popolo radunato da Cristo. Il
modello comunitario non appare più avere il diritto di proporsi come il migliore.
La parrocchia sembra modularsi sempre più anche in riferimento alla Diocesi, come spazio di
cattolicità. Essa mostra, ben più di altre realtà, la sua capacità di dare valore ai
singoli individui. Il singolo riesce a sentirla propria e a diventarne protagonista attivo.
La questione ministeriale resta uno dei grandi problemi, certamente anche a motivo della riduzione del numero dei
sacerdoti. Ma questo si accompagna ad un emergere di figure plurali, che fanno uscire dalla semplice dialettica
parroco/fedeli. Non c’è, insomma, un unico punto di una regia in atto. Non troviamo più un
soggetto unico, ma dei co-protagonisti. La discussione si incentra sulla questione in nome di quale autorità
una di queste figure plurali - rispetto ad un altra figura plurale equivalente, oltre che rispetto al sacerdote -
possa divenire punto di riferimento in un ambito determinato della parrocchia. Questo porta con sé la domanda
più ampia sull’equilibrio di ciò che sia proprio dell’uno, degli alcuni, dei tutti –
del parroco e dei sacerdoti, dei laici più impegnati, dell’intera parrocchia. Gli elementi che aiutano a
chiarificare e/o problematizzare questo quadro sono, negli scritti di questo periodo: 1/ il battesimo conferito a
tutti, 2/ la coscienza che il ruolo laicale non è di supplenza, ma proprio, 3/ la presenza di nuove figure
ministeriali che stanno modificando il rapporto preti-laici, 4/ la questione di quale ufficialità sia da
accordare a questi ministeri, su quale sia la garanzia della loro presenza.
La domanda sul futuro del cristianesimo in Francia, come le analisi sociologiche che lasciano intravedere
l’ipotesi di una futura Francia pagana, hanno generato risposte che possono essere sintetizzate in due
direttive, una più estroversa e missionaria, l’altra più introversa e identitaria.
La prima sta ponendo l’accento sul ri-dire la fede, sul re-istituire il cristianesimo, valorizzando un
atteggiamento positivo di riconoscimento dell’interlocutore e dei suoi atteggiamenti, un riconoscimento attivo
nella dinamica dell’annuncio della fede.
Una seconda direttiva è stata quella di una attenzione a come i diversi soggetti vivano in modo molto
differente la relazione con la Chiesa. Essa è apparsa come uno “spazio di itineranza”, nel senso
che ogni persona si riappropria in maniera continuamente nuova (e pertanto anche diversa) del depositum fidei. Non
è sufficiente considerare, pertanto, la sola dinamica eucaristica, alla quale si partecipa o non si partecipa,
ma anche quella nata – e continuamente esistente – dal legame battesimale, per il quale le persone
cristiane sono legate al vangelo, ma transitando solamente, talvolta, per la parrocchia. La riflessione su questo
modo di percepire se stessi e la parrocchia ha generato numerose domande alle quali non è ancora stata data
una risposta univoca. In un tempo in cui moltissime realtà, anche civili, tendono ad una maggiore
identificazione, per sfuggire alla frammentazione ed alla dispersione, può sussistere un legame di questo
tipo? Più profondamente, come è possibile tenere insieme l’identità propria del depositum
fidei immodificabile, da un lato, e, dall’altro, questo rilievo attribuito ai singoli soggetti ed alle loro
esigenze?
A queste questioni si lega nuovamente la domanda sulla dimensione territoriale della parrocchia, poiché
è proprio grazie ad essa che si riesce – si afferma - a costituire il tessuto di base ecclesiale senza
gli irrigidimenti e le forzature ideologiche che hanno caratterizzato la chiesa francese nei decenni precedenti.
E’ a tutti ovvio oggi che senza questa dimensione territoriale, la chiesa francese sarebbe una chiesa
diversa.
In sintesi Bressan cerca di descrivere i cambiamenti in atto in questi anni che sono quelli a noi più vicini.
Il cambiamento che si sta attuando è meno enfatico di quello sventolato nei decenni precedenti, ma più
reale. Non si vuole più partire da una scelta ideologica, deduttiva - come appaiono ora i progetti di riforma
considerati a distanza di anni - che stabilisca una idea di chiesa, la predichi e poi con decisioni e cambiamenti
organizzativi la faccia discendere ai livelli più bassi come quello parrocchiale.
Si assiste, invece, ad un cambiamento che è innanzitutto organizzativo, che avviene spontaneamente e per
necessità un po’ dappertutto, con la coscienza che questo avrà dei grandi riflessi nella vita
della chiesa stessa.
Il fatto che si stiano vivendo dei grandi cambiamenti organizzativi sembra dare ragione alle proposte iniziali degli
anni ’50 e ’60 che vedevano nell’organizzazione un fattore determinante, ma la riflessione e la
modifica dell’organizzazione avvengono ora senza una logica preventiva e previsionale – questo
spiegherebbe il pessimismo ed il senso di impotenza di una parte dell’episcopato. La mancanza dei preti sta
modificando sensibilmente il modo di organizzarsi e percepirsi delle singole parrocchie, ma senza un attore od una
regia unica che guidi questo passaggio. Se non ci si trova in un contesto anarchico è perché la
parrocchia stessa – afferma Bressan - sembra essere protagonista a pieno titolo, pienamente attiva nello
sviluppo della sua stessa storia.
Il legame sociale che tante volte è emerso come questione in questi due decenni, viene oramai visto
chiaramente nelle sue due polarità, quella eucaristica e quella battesimale. L’eucarestia evidenzia il
senso di appartenenza alla Chiesa, custodisce l’identità specifica di essa, ma – sembrano dire gli
studi di questo periodo – in maniera non esclusiva. Una pluralità di legami può essere invece
valorizzata ad esprimere il legame con la fede cristiana, proprio a motivo del battesimo che costituisce il legame
permanente della persona con il vangelo. Le persone potrebbero così attraversare non stabilmente la parrocchia
ed essa dovrebbe avvertire anzi che è giusto che sia attraversata anche da persone che non hanno neanche con
essa il legame battesimale. La tensione generata da questi due legami è uno dei grandi temi all’ordine
del giorno.
Proprio la parrocchia viene vista come quella realtà che potrebbe avere la capacità di tenere insieme
questi due aspetti, di permettere cioè l’esistenza simultanea del legame eucaristico, dell’unica
memoria cristiana continuamente celebrata, insieme al legame battesimale che mostra la ricchezza della vita della
singola persona credente. Si chiede sempre più alla parrocchia una pluralità di percorsi differenti,
mentre se ne rifiuta il fatto che sia il luogo di una unica modalità esigita per tutti.
Se la parrocchia riesce così ad essere soggetto attivo è altrettanto vero che, in questa prospettiva,
sembra riuscire a riconoscere il ruolo proprio di ogni singolo attore, di ogni persona come protagonista a sua volta.
Ogni singola persona – ed anche ogni singolo gruppo di persone – riceve, in questo periodo della storia
della parrocchia – un suo ruolo che a nessuno sembra giusto eliminare. Un ruolo viene riconosciuto anche ai
cosiddetti “simpatizzanti” che si riconoscono nell’identità cristiana anche se non vogliono
assumere nessuna pratica troppo impegnativa di adesione alla parrocchia. Si riconosce che è tratto tipico
della Chiesa il riservare un ruolo attivo a tutti coloro che liberamente scelgono di legare la loro identità
alla fede cristiana.
Concludendo questo breve riassunto della parte storica del lavoro di Bressan, appare evidente come la considerazione
storica aiuti ad aprire molte questioni, a vedere pregi e limiti delle singole proposte, a saper attendere con
pazienza che il tempo lasci decantare e verificare le nuove intuizioni. A pag.135 Bressan riporta una affermazione
dell’allora arcivescovo di Parigi, il cardinal J.M.Lustiger (J.M.Lustiger, Les prêtres que Dieu
donne, DDB, Paris, 2004, 43 ss.) che così affermava:
Le pratiche cosiddette “religiose” sono state giudicate formaliste, senza contenuto spirituale, oppure
senza sincerità. Molti, fra i preti ed i cattolici ferventi, sono stati severi: non saremmo al cospetto
semplicemente di un conformismo sociale o peggio di una riduzione della fede in Gesù Cristo ad una religione
pagana che vuole soddisfare il bisogno magico? Ma la denuncia delle ambiguità delle pratiche religiose della
prima metà del XX secolo non era semplicemente ingiusta. Era soprattutto inadeguata. Perché la
realtà era più complessa dell’apparenza.
È un invito a riconsiderare con più attenzione storica e teologica la vita ed il futuro della
parrocchia.
Abbiamo voluto aggiungere in appendice a questo nostro riassunto della parte storica del volume di Bressan la trascrizione di nostri appunti presi in occasione di un suo intervento dedicato al tema della parrocchia oggi. Questi appunti in appendice non hanno neanche la pretesa del riassunto. Sono solo alcune note scritte durante l’ascolto delle sue parole. Le presentiamo lo stesso, perché le riteniamo provocatorie nel bene e perché arricchiscono con alcune notazioni sull’oggi le note storiche.
Lorenzo Santi per il Centro culturale Gli scritti (9/4/2007)
Appunti sparsi presi durante una relazione di d.Luca Bressan sulla parrocchia. La relazione si
articolava in quattro punti propositivi:
1/ Il primato della relazione per generare alla fede
2/ Una figura presbiterale sintesi di sequela e di cura animarum
3/ Un prete per una Chiesa missionaria, ma popolare
4/ Un prete dentro una Chiesa ricca di ministeri
Cos’è per noi missione? Siamo dinanzi ad una evoluzione del concetto di “missione”. Missione
non è aggiungere una attività in più. Non è fare una iniziativa in più quando ho
la sensazione di essere “lontano dalla gente”.
Invece, in un mondo che cambia, missione vuol dire portare il vangelo da persona a persona. Vuol dire fare una
attività in meno e divenire più disponibile per l’incontro!
Siamo nell’epoca dei media, ma poi ognuno cerca l’affetto delle persone! Il prete per primo deve andare a
cercare questa sete di relazione, per servirla.
Il cristianesimo è sempre stato trasmesso per “contaminazione”.
Ed ecco l’importanza dell’azione “sociale” dell’attesa. Guardate che si raggiunge
più gente a stare fermi che ad andare in giro! Se c’è una pastorale seria dell’accoglienza,
un prete incontra tutti. Guardate quante persone incontriamo per i funerali, per i battesimi!
Ma se, all’opposto, il prete non c’è mai, è sempre in giro, è sempre altrove, ecco
che questo incontro non avviene.
[Mi viene in mente che proprio questo si dice ai bambini, quando c’è il rischio che si perdano:
“Se vi doveste perdere, restate fermi lì che vi troviamo”].
Dobbiamo liberarci della figura “borghese” del prete, di qualcuno che lavora, con uno stipendio;
altrimenti interpreteremmo il celibato come essere “single”. Si dice che uno è
“single” perché non vuole relazioni, responsabilità. Per un prete la relazione è da
scegliere anche se l’altro non accetta il tuo ruolo di prete.
La non comprensione dell’importanza della relazione è un po’ la conseguenza anche di una certa
impostazione carolina del seminario come luogo ascetico. A volte il seminarista quasi vive solo un rapporto fra pari,
anche con i superiori, quasi contrattasse con loro il discernimento.
[Mi viene in mente il testo straordinario della lettera di saluto alla parrocchia dei SS.Fabiano e Venanzio di
d.Andrea Santoro, nell’anno 2000, prima di partire per la Turchia:
“Sento il bisogno di dire grazie: ai miei confratelli sacerdoti con cui ho pregato, gioito,
sofferto e lavorato; ai malati, ai bambini, ai poveri che mi hanno mostrato la piccolezza e la potenza
di Gesù; ai giovani che mi hanno permesso di cogliere con loro il soffio rinnovatore dello
Spirito; agli adulti che mi hanno concesso la loro amicizia e il loro sostegno; agli
anziani che mi hanno fatto poggiare sulle loro spalle antiche. Ringrazio quanti hanno collaborato in
parrocchia a tenere accesa e a trasmettere la lampada della fede, a far crescere la comunità, ad
accendere il fuoco di Gesù nel quartiere: chi con il carisma della parola, chi con quello della preghiera, chi
con l’azione visibile, chi con i silenzi, chi con il carisma della liturgia, chi con quello della carità
operosa, chi con le lacrime e la potenza redentrice della sofferenza, chi con i servizi più umili e nascosti.
Ringrazio quanti non ho conosciuto perché mi hanno concesso di vivere accanto a loro e di amarli
anche se a distanza. Sempre ho pregato per loro e sempre li ho pensati a me vicini, soprattutto la sera quando
guardavo le finestre illuminate delle case e a messa quando, alzando il calice del sangue di Cristo dicevo:
“questo è il calice del mio sangue, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati”.
In quel “tutti” comprendevo proprio tutti, nessuno escluso. Nel mio cuore, andando via, porterò
ogni persona conosciuta e non conosciuta della parrocchia: sono le pecorelle, i figli, i “pesciolini”
affidati alla mia pesca e destinati alla rete del Regno di Dio”].
Siamo meno vicini ai poveri, perché i poveri sono meno nostri. Sono, ad esempio, di un’altra
religione.
O si fa un serio dialogo inter-religioso o nella carità si fanno pasticci. Vedete la siderurgia? Fra gli
operai non ci sono più italiani. Sono solo immigrati che ci lavorano. Cosa faccio dell’aiuto dei poveri?
Li aiuto anche se non accettano la mia identità? Questo è il problema oggi.
Spesso si fa iniziare la riflessione sulla parrocchia dalla crisi della parrocchia francese negli anni ’50,
dalla cosiddetta Missione di Francia. La domanda che ci si poneva allora era: fino a che punto il bisogno
“religioso” può essere un veicolo per la testimonianza di Cristo? Siccome il rapporto non era
chiaro, si scelse, in alcuni luoghi, la via di troncarlo, di dire “no” al religioso. Si era partiti
ponendo la domanda “La Francia è paese di missione?” e si era andati avanti togliendo il punto
interrogativo e mettendone uno esclamativo: “La Francia, paese di missione!”.
Si annunziò la morte della parrocchia, come espressione del “religioso”, di una fede ambigua e non
chiara.
Si pensava: “Un non-battezzato oggi sarà un catecumeno domani”, ma, negli anni, si è
scoperto che un non-battezzato oggi sarà un non-battezzato domani!
La riflessione francese ha portato a porre la questione del “lien ecclésial”, del legame, che
istituisce la parrocchia. Quello eucaristico è da difendere, ma è anche da integrare.
L’attenzione si è indirizzata ai due legami che si radicano nei sacramenti che sono al cuore della vita
di una parrocchia. Da un lato è certo il legame eucaristico, che negli studi, nelle riflessioni e
nell’esperienza concreta, manifesta sempre più il suo valore. D’altro lato, la teologia pastorale
si sofferma sempre più sul legame battesimale (con la conseguente importanza della persona).
Inoltre, la parrocchia cittadina contemporanea sembra riuscire ad unire sia il legame territoriale, sia questa
pluralità di legami che hanno le persone. Inoltre la parrocchia sembra esser capace di manifestare sia una
Chiesa soggetto, con una propria precisa unità propositiva, sia una Chiesa di soggetti, con la
possibilità di molteplici e differenti apporti laicali.
Dobbiamo riscoprire che non possiamo pretendere che la gente sia matura appena la incontriamo!
La nuova riflessione sull’iniziazione cristiana potrebbe essere usata per “bloccare” e
“restringere” i battesimi e non andrebbe bene.
E’ in questione se la Chiesa sia elitaria o di popolo.
Il sociologo Diotallevi dice che noi continuiamo a sognare una religione popolare, che la fede sia possibile anche
per chi non ha strumenti culturali evoluti.
Il problema non è se io ti do o no il battesimo, ma come accolgo quella domanda. Posso anche non dartelo
subito, ma poi stare a casa tua a parlarne lungamente!
I sacramenti sono cosa a noi preziosa. Ci può sembrare che se li hanno gli “stranieri”, possiamo
essere feriti nella nostra identità.
Cristo ha abitato la “zona grigia” del bisogno.
Noi preti dobbiamo evitare il rischio del corporativismo... preti che vanno in vacanza fra di loro, che sono come una
corporazione. Invece, noi siamo abituati a farle con i giovani.
Il presbiterio diocesano non è come un monastero!
Non va cancellata dall’identità sacerdotale la “personalità”! Se da San Paolo
togliete l’aspetto “personale”, la sua originalità, la peculiarità delle sue
relazioni, non resta quasi niente delle lettere. Serve, piuttosto, oggi una “communio” verticale,
cioè una “traditio”.
La “communio” non è semplicemente orizzontale, non è data da un livellamento verso
l’uguaglianza. Poiché è una “communio” cristiana, che discende dal Cristo!
Il problema non è togliere la personalità al prete, ma di riconoscerla anche alla comunità:
“Io accetto che tu sei parroco con la tua ‘personalità’, ma sappi che anche noi della
parrocchia l’abbiamo una nostra personalità. Vivremo allora un confronto di
personalità!”
I diaconi permanenti? C’è poco da dire, perché c’è molto da fare. C’è
il rischio di leggerlo come uno stato di vita, invece è un ministero. Andrebbe declinato in un servizio. Non
bisogna vedere subito il rischio della supplenza. Penso al legame con la carità, con l’educazione. Ad
esempio alcuni che avessero cura per i preti anziani e malati.
[Una alta personalità presente aggiunge, in maniera straordinariamente vera:
“Non bisogna comprimere la personalità. Ero contrariato quando vedevo persone che entravano in Seminario
con una grande personalità (anche intellettuale) e ne uscivano con una molto minore. Non è questo il
lavoro che deve fare una istituzione educativa come il Seminario che, anzi, deve incoraggiare la
personalità”].