Presentiamo on-line la Comunicazione, che portava
l’originario titolo di Il Convegno di Verona e la nostra
pastorale diocesana, tenuta da S.Em. il cardinal Ruini al Consiglio
dei Parroci Prefetti e successivamente al Consiglio Pastorale Diocesano
nel novembre 2006 nella versione scritta che è stata distribuita
durante gli incontri.
Al testo facciamo seguire una collazione di appunti presi da
più mani, durante i due incontri. Come tutti gli appunti non
rispecchiano espressamente le parole dell’autore, ma sono
“inquinati” da coloro che li hanno presi e dalla redazione
che ne è stata fatta. Li riportiamo solo allo scopo di rendere
più evidente la ricchezza delle argomentazioni e delle
sottolineature e di conservarne memoria. Questa collazione non è
stata ovviamente rivista dall’autore. In questo testo di appunti
anche i titoletti sono nostri ed hanno l’unico scopo di
facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (31/12/2006)
Una caratteristica saliente sia della preparazione sia dello
svolgimento del Convegno è stata la sua articolazione in cinque ambiti
particolarmente rilevanti per la nostra vita quotidiana: quelli dell’affettività
e della famiglia, del lavoro e della festa, della fragilità umana (malattia,
povertà), della tradizione (educazione, comunicazione) e della cittadinanza.
Lo scopo è quello di mettere la pastorale in più stretto rapporto
con l’esperienza umana, quindi con l’unità della persona
concreta e della coscienza credente. Si tratta di un notevole passo avanti rispetto
all’impostazione precedente, che puntava anch’essa all’unità
della pastorale, raccordando tra loro i tre “uffici” dell’annuncio
della Parola, della preghiera e della liturgia, della testimonianza della carità,
ma non riconduceva espressamente tale unità a quella della persona e
della coscienza credente. C’è stato in questi anni un grande sforzo
nel tentativo di dare unità a questi tre ambiti, ma il convegno di Verona
ha indicato che questa unità da cercare va oltre questi tre aspetti.
A Verona si è avuto una forte convergenza su questa impostazione, da
cui emerge una precisa indicazione per la pastorale, che dobbiamo progressivamente
cercare di attuare anche a Roma.
Un altro aspetto in evidenza a Verona è stata l’attenzione alle
persone e alle famiglie, con particolare insistenza sull’educazione della
persona: tutto questo è in piena consonanza con il nostro programma diocesano.
Questo tipo di attenzione è stato qualificato dalla sottolineatura dello
spazio da dedicare all’adorazione, della quale il Papa ha detto che “ci
rende davvero liberi e ci dà i criteri del nostro agire”. Parallelamente
si è consigliato di evitare un’eccessiva insistenza, nella pastorale,
sulla programmazione e sull’organizzazione. Tutta l’attenzione alla
persona e alla sua formazione converge nel cammino verso la santità.
Paola Bignardi, riprendendo una ben nota affermazione della Novo millennio
ineunte, ha detto che la santità è “l’unica misura
secondo cui vale la pena di essere cristiani”.
La formazione che cerchiamo di dare e di acquisire deve essere fin dall’inizio
e intrinsecamente missionaria, affinché la pastorale non sia autoreferenziale
o rinunciataria. Si è ripetuto che non è più il tempo di
“attendere” le persone ma di “andare” ad esse, anzi
di “entrare” nella loro vita. La “pastorale integrata”
si giustifica anzitutto in rapporto a questa missionarietà, da attuare
nell’odierna “società complessa” (che è tale
specialmente nelle grandi città come Roma). La stessa pastorale integrata
è da intendere in senso ampio: non solo cioè riguardo alle parrocchie
e alla Diocesi ma a tutte le realtà impegnate nella testimonianza cristiana.
Anche qui abbiamo una chiara consonanza con gli indirizzi della nostra pastorale
diocesana, anche se gran parte del lavoro resta da fare.
A Verona un accento specifico è stato posto sui laici: anzitutto essi,
infatti, possono e devono portare la testimonianza cristiana nei molteplici
spazi della vita quotidiana, e per farlo devono avere una formazione adeguata.
Si tratta in concreto anzitutto di un apostolato o “diaconia” delle
coscienze, cioè del cristiano che vive secondo la propria coscienza cristianamente
formata e la esprime anche con le proprie parole, aiutando così le persone
che gli sono vicine ad essere a loro volta più attente alla propria coscienza
e a formarla in senso cristiano. Appare questa la strada più efficace
per mantenere quel carattere “popolare” che è una grande
risorsa della Chiesa e del cattolicesimo in Italia, evitando al tempo stesso,
come ha detto Don Franco Giulio Brambilla, di ridurlo a un “cristianesimo
minimo”. A Verona si è inoltre insistito sullo spazio di corresponsabilità
che va dato ai laici nella vita e nella pastorale delle nostre comunità.
A Roma sotto questi aspetti siamo in certo senso all’avanguardia, per
l’esperienza della nostra Diocesi e delle parrocchie e in particolare
per la Missione cittadina e per lo sforzo di orientare la pastorale in senso
permanentemente missionario: anche qui, in concreto, resta però molta
strada da fare.
Passiamo ora a considerare i principali contenuti della proposta cristiana,
quali sono emersi a Verona, specialmente dal discorso di Benedetto XVI. Va segnalato
anzitutto l’atteggiamento fondamentale indicato dal Papa: quello del “grande
sì” che Dio ha detto in Gesù Cristo all’uomo e alla
sua vita, all’amore umano, alla nostra intelligenza e libertà.
Pertanto la fede in questo Dio porta la gioia nel mondo. Analogamente il Card.
Tettamanzi ha detto che occorre parlare non soltanto “di speranza”
ma “con speranza”.
In concreto, riguardo all’intelligenza, si tratta di “allargare
gli spazi della razionalità”, riportando alla luce gli interrogativi
più grandi e importanti che abbiamo dentro di noi (sull’origine,
il senso, il destino della nostra vita e l’orientamento di fondo dei nostri
comportamenti) e tentando di rispondervi. Viene superato così quel “veto”
che una razionalità soltanto scientifica e funzionale, oggi spesso dominante,
finisce per opporre ad interrogativi del genere, con il risultato di provocare
una frattura con il senso religioso che abita dentro di noi. La conseguenza
è non soltanto l’incapacità di interloquire con altre civiltà,
come ad esempio quella islamica, nelle quali la religione ha una funzione dominante,
ma anche la rottura che si verifica, qui da noi, dove il senso religioso già
da vari anni sta prendendo maggior forza, all’interno delle persone e
delle coscienze, specialmente dei giovani. Una religiosità che non trovi
sbocco a livello razionale rimane infatti soggettiva, emotiva e precaria, con
la conseguente difficoltà a prendere decisioni definitive. Perciò
a tutti i livelli, cominciando dalla nostra pastorale ordinaria, dobbiamo riproporre
la grande questione della verità del cristianesimo (di essa ci occuperemo
nell’incontro del clero romano Al cuore dell’insegnamento
di Benedetto XVI: proporre la verità salvifica di Gesù Cristo
alla ragione del nostro tempo). Proprio per superare una visione “chiusa”
del sapere scientifico il Papa ripropone la fondamentale verità di Dio
creatore intelligente a partire da una riflessione sulla scienza: non però
dai risultati delle scienze, ma dai presupposti della conoscenza scientifica
e delle sue applicazioni tecnologiche, che rimandano alla intelligibilità
intrinseca della natura, oggetto delle scienze. Questa fondamentale verità,
come tutto il nostro credo, non può essere oggetto di una dimostrazione
necessaria e costringente: riguarda piuttosto tutta la nostra vita e pertanto
va abbracciata con una scelta libera. Va dunque proposta nella forma della testimonianza,
che mette in gioco la libertà sia di colui che propone sia di colui a
cui è rivolta la proposta. A Roma stiamo insistendo a questo riguardo
sull’importanza della “pastorale dell’intelligenza”.
Un secondo grande aspetto, che sotto il profilo esistenziale è anzi il
primo, è quello dell’amore e, di nuovo, della libertà, con
il connesso problema del male, del peccato e della sofferenza. Come il Papa
ha scritto nella Deus caritas est, attualmente si cerca di mettere fuori
gioco il cristianesimo soprattutto sotto il profilo dell’amore e dell’etica:
l’attuale mentalità e cultura del successo individuale, dell’erotismo
e della soddisfazione di ogni desiderio considera infatti l’etica cristiana
come negazione dell’amore autentico e della nostra libertà. Anche
qui la risposta fondamentale è il “grande sì”: per
il cristianesimo infatti Dio stesso è amore e l’amore, nella pienezza
delle sue dimensioni, è il “grande comandamento”, ciò
che da senso alla nostra vita. La stessa croce di Cristo si colloca in questa
luce, è il sì estremo detto all’uomo dal Dio che ci ama.
Questa è anche l’unica risposta autentica al problema del male:
come ha scritto Giovanni Paolo II nel suo ultimo libro Memoria e identità,
il vero limite posto al male è la misericordia di Dio. Questa impostazione
ha precisi risvolti pastorali: in particolare, una vera educazione cristiana
non può evitare il grande tema dell’amore umano, che è decisivo
per i giovani ma anche per gli adulti, come è stato sottolineato anche
nel nostro Convegno diocesano di giugno. Nello stesso tempo questo tema va collegato
all’esperienza del servizio al prossimo, e in particolare ai poveri e
ai sofferenti, dove l’amore cresce in generosità e gratuità.
A Verona si è insistito sul valore della sofferenza, specialmente in
rapporto alla centralità della dimensione escatologica del cristianesimo:
dobbiamo essere infatti “testimoni di Gesù risorto, speranza del
mondo”, dove è chiaro che la nostra speranza, pur riguardando anche
la vita terrena, si protende anzitutto verso l’eternità e da qui
ricava la forza per rinnovare il mondo, come ha detto il Papa nella prima parte
del suo discorso dedicata al significato e alla portata della risurrezione di
Cristo. Benedetto XVI ha anche insistito sull’unità che deve intercorrere,
nella vita e nella testimonianza delle nostre comunità, tra verità
e amore: questa è stata la forza che ha consentito l’espansione
del cristianesimo nei primi secoli e questo è anche oggi il segreto di
una efficace missionarietà. Molti di questi aspetti hanno già
trovato riscontro nel nostro Convegno diocesano di giugno.
Il “grande sì” riguarda tutto l’uomo, anche nella sua
dimensione pubblica: il Papa ha sottolineato che fin dall’inizio la fede
cristiana ha avuto anche carattere pubblico. In questo ambito la grande novità
cristiana è la distinzione tra religione e politica: da qui ha origine
storicamente la libertà religiosa, oggi riconosciuta, almeno in teoria,
come un valore universale. Perciò la Chiesa non è e non intende
essere un agente politico, non si schiera a livello di partiti. Nello stesso
tempo essa ha un interesse profondo per il bene della comunità politica,
interesse che si concretizza in un duplice servizio: di aiuto a far conoscere,
attraverso la dottrina sociale, ciò che è conforme alla realtà
dell’uomo, e di stimolo a far crescere le forze morali per attuare il
bene che corrisponde a questa nostra realtà. L’azione propriamente
politica compete ai laici cristiani, sotto propria responsabilità e al
contempo nella fedeltà all’insegnamento della Chiesa, specialmente
oggi quando assume rilevanza pubblica la “questione antropologica”,
che tocca ciò che è essenziale all’uomo e alla stessa fede
cristiana. In realtà l’impegno della Chiesa e dei cattolici è
rivolto a mantenere viva quella grande riserva di energie morali che rischia
di essere corrosa da un’accentuazione unilaterale dei diritti individuali
e delle libertà dei singoli: questi sono certamente molto importanti
ma altrettanto essenziali sono i rapporti inter-umani, soltanto attraverso i
quali la persona può crescere e la società può vivere.
In questa ottica la “laicità”, per essere un valore autentico,
deve essere “sana” e “positiva”: implica cioè
l’autonomia delle realtà terrene e l’indipendenza dello Stato
dall’autorità della Chiesa, ma non può prescindere da quelle
istanze etiche e da quel senso religioso che sono radicati nella realtà
del nostro essere. Come ha detto a braccio il Papa all’Assemblea della
CEI del maggio 2005, “lavoriamo non per l’interesse cattolico ma
per l’uomo creatura di Dio”. Sotto l’aspetto della rilevanza
pubblica della fede a Roma dobbiamo crescere, come corpo ecclesiale, non nel
senso di un coinvolgimento partitico (questo semmai deve diminuire), ma nella
capacità di formazione, proposta e testimonianza, che del resto abbiamo
già mostrato in occasione del referendum sulla procreazione assistita.
Così il “discernimento comunitario”, da compiere nelle nostre
comunità, non deve essere rivolto direttamente all’azione politica,
ma all’elaborazione culturale e alla formazione delle coscienze.
Per concludere, dal Convegno di Verona è emerso con forza il senso di
una missione comune, dentro la quale stiamo tutti noi, e più radicalmente
la necessità della crescita del senso di appartenenza ecclesiale, che
dobbiamo avere dentro di noi per poterlo comunicare efficacemente. Avremo così
coraggio e perseveranza nel dire e nel testimoniare quel “grande sì”
che cambia il mondo.
Il testo che segue è una collazione di appunti presi da più mani, durante i due incontri. Come tutti gli appunti non rispecchiano espressamente le parole dell’autore, ma sono “inquinati” da coloro che li hanno presi e dalla redazione che ne è stata fatta. Li riportiamo solo allo scopo di rendere più evidente la ricchezza delle argomentazioni e delle sottolineature e di conservarne memoria. Questa collazione non è stato ovviamente rivista dall’autore. In questo testo di appunti anche i titoletti ed i neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (31/12/2006)
Nel presentare il convegno di Verona, voglio, in una prima parte, mostrare alcuni aspetti emersi in relazione alla pastorale, mentre la seconda parte sarà dedicata ai contenuti.
Una caratteristica saliente sia della preparazione
sia dello svolgimento del Convegno è stata la sua articolazione
in cinque ambiti particolarmente rilevanti per la nostra vita
quotidiana: quelli dell’affettività e della famiglia,
del lavoro e della festa, della fragilità umana
(malattia, povertà, non solo quella fisica, ma anche quella
morale o ancora quella della difficoltà di dare un senso alla
propria vita, ecc), della tradizione (educazione,
comunicazione, scuola, catechesi, ecc., cioè tutta la
riflessione sul “tradere”, sul passaggio da una generazione
all’altra dei valori e della cultura) e della cittadinanza
(i rapporti sociali e politici e la presenza dei cristiani in queste
dimensioni, cioè la medesima persona vista nei suoi rapporti con
gli altri, ciò che spinge a vedere la prospettiva
dell’unità del corpo sociale).
Lo scopo è quello di mettere la pastorale in più stretto
rapporto con l’esperienza umana, quindi con l’unità
della persona concreta e della coscienza credente o – potremmo
anche dire – il fine è di mettere la nostra pastorale in
rapporto con la concretezza della vita. La coscienza credente è
il luogo dove deve farsi l’unità della persona ed il
discernimento credente di ogni proposta, di ogni sollecitazione. Il
fine, potremmo ancora dire, è che la pastorale non faccia
riferimento a se stessa, ma alla persona. Sempre più la
pastorale sarà caratterizzata dal formare una capacità di
giudizio cristiano sui problemi d’oggi.
L’attenzione a questi cinque ambiti è un notevole
passo avanti rispetto all’impostazione precedente, che puntava
anch’essa all’unità della pastorale, raccordando tra
loro i tre “uffici” dell’annuncio della Parola, della
preghiera e della liturgia, della testimonianza della carità
– spesso le nostre parrocchie sono strutturate così - ma
non riconduceva espressamente tale unità a quella della persona
e della coscienza credente. C’è stato in questi anni un
grande sforzo nella CEI nel tentativo di dare unità a questi tre
ambiti, ma il convegno di Verona ha indicato che questa
unità da cercare non è solo fra questi tre aspetti, ma va
oltre, appunto, nella direzione di integrazione con questi ambiti
vitali della persona, indicata dal Convegno. Il punto su cui fare
unità, prima della pastorale, è la persona. E la vita
delle persone è articolata in quei cinque ambiti, non nei tre
“uffici”. A Verona si è avuto una forte
convergenza su questa impostazione, da cui emerge una precisa
indicazione per la pastorale, che dobbiamo progressivamente cercare di
attuare anche a Roma. Dovendo essere onesti, non vedo facile tutto
questo: è un obiettivo da condividere e poi progressivamente da
portare avanti. Ma non dimentichiamo che i nostri ultimi Convegni
diocesani erano già organizzato in questa direzione.
Un altro aspetto in evidenza a Verona è stata
l’attenzione alle persone e alle famiglie, con particolare
insistenza sull’educazione della persona: tutto questo è
in piena consonanza con il nostro programma diocesano. Il Papa con
il suo discorso ha indicato l’importanza di questa grande
attenzione all’educazione della persona.
Questo tipo di attenzione è stato qualificato dalla
sottolineatura dello spazio da dedicare all’adorazione,
della quale il Papa ha detto che “ci rende davvero liberi e ci
dà i criteri del nostro agire”. Con questo non si
intende tanto immediatamente l’adorazione eucaristica, ma
l’atteggiamento di tutta una vita che riconosca il primato di
Dio; quindi l’atteggiamento di amore verso il Signore –
nel linguaggio comune, quando diciamo “ti adoro” intendiamo
appunto dire “ti amo”. E’ l’adorazione che poi
orienta tutta una vita.
Parallelamente si è consigliato di evitare
un’eccessiva insistenza, nella pastorale, sulla programmazione e
sull’organizzazione, evitare una pastorale troppo gravata
dall’organizzazione, ma che abbia piuttosto a che fare con le
persone. Non avere come obiettivo che funzionino tutte le
strutture, ma che ci sia attenzione alle persone ed alla formazione
cristiana delle persone. La pastorale è sempre più un
problema di rapporto personale: Avvenire, Sat2000, ecc. ecc., non
possono mai sostituire l’attenzione alla persona. Tutta
l’attenzione alla persona e alla sua formazione converge nel
cammino verso la santità. Paola Bignardi, riprendendo una ben
nota affermazione della Novo millennio ineunte, ha detto che la
santità è “l’unica misura secondo cui vale la
pena di essere cristiani”. La santità si coniuga con
l’adorazione. Se non si punta lì, difficilmente si vive il
cristianesimo.
La formazione che cerchiamo di dare e di acquisire
deve essere fin dall’inizio e intrinsecamente missionaria,
affinché la pastorale non sia autoreferenziale -
c’è questo rischio, lo ripeto, che si abbia come scopo il
proprio funzionamento - o rinunciataria – accontentiamoci del
poco senza sperare. Si è ripetuto che non è
più il tempo di “attendere” le persone ma di
“andare” ad esse, anzi di “entrare” nella loro
vita. Questa sottolineatura, permettetemi di dirlo, è un mio
piccolo contributo: si tratta di farsi carico della concreta situazione
dell’altro. “Andare” non semplicemente
fisicamente, ad esempio semplicemente bussando alla porta
dell’altro, ma “entrare” accostandosi al suo modo di
pensare, alla sua mentalità, alla sua visione della vita, per
illuminare tutto questo con la fede. La formazione della persona
punta alla missione; così è stato nel cristianesimo delle
origini.
La “pastorale integrata” – quindi non ogni aspetto
che marcia per suo conto - si giustifica anzitutto in rapporto a questa
missionarietà, da attuare nell’odierna
“società complessa” (che è tale specialmente
nelle grandi città come Roma). La stessa pastorale integrata
è da intendere in senso ampio: non solo cioè riguardo
alle parrocchie e alla Diocesi ma a tutte le realtà impegnate
nella testimonianza cristiana, comunità religiose, movimenti,
seminari, università, ecc. ecc. Anche qui abbiamo una chiara
consonanza con gli indirizzi della nostra pastorale diocesana, anche se
gran parte del lavoro resta da fare.
A Verona un accento specifico è stato posto
sui laici (era stato uno dei temi originariamente proposti per il
Convegno nella sua interezza): anzitutto essi, infatti, possono e
devono portare la testimonianza cristiana nei molteplici spazi della
vita quotidiana, e per farlo devono avere una formazione adeguata. Potremmo
dire meglio ancora che essi la vivono questa vita, che essi
“sono” in questa vita.
Si tratta in concreto anzitutto di un apostolato o
“diaconia” (il servizio) delle coscienze, cioè del
cristiano che vive secondo la propria coscienza cristianamente formata
e la esprime anche con le proprie parole, aiutando così le
persone che gli sono vicine ad essere a loro volta più attente
alla propria coscienza e a formarla in senso cristiano –
torniamo così al tema dell’unità della
“coscienza credente”. E’ la questione dello spazio
che Cristo trova nei nostri giudizi sulle grandi questioni della vita.
E’ soprattutto dei laici il portare la testimonianza cristiana
nei diversi ambiti. Potremmo parlare proprio così di
“diaconia dei laici a servizio delle coscienze”.
Appare questa la strada più efficace per mantenere
quel carattere “popolare” che è una grande risorsa della
Chiesa e del cattolicesimo in Italia, evitando al tempo stesso, come ha detto
Don Franco Giulio Brambilla, di ridurlo a un “cristianesimo minimo”,
cioè ad un cristianesimo senza pretese, che si adatta alla mentalità
secolarizzata.
Il clero si interroga su questo: conviene una Chiesa aperta a tutti, che
sia fermento per gli altri, o è meglio restringerci un po’, data
la secolarizzazione, per avere comunità cristiane più formate
ed omogenee? Vediamo che Chiese che hanno fatto questa seconda scelta, che
hanno percorso una via elitaria, stanno avendo un ripensamento. In Francia cominciano
a riprendere il tema di una “chiesa più popolare”.
Il “cattolicesimo popolare” deve allora essere mantenuto in Italia
e semmai potenziato, affrontando insieme la sfida della formazione e non opponendola
all’altro aspetto della “popolarità”. Ascoltando
pareri di persone che vivono fuori dell’Italia si percepisce la coscienza
che nel nostro paese abbiamo ottenuto dei risultati di non marginalità
del cristianesimo – anche se forse questo viene sopravvalutato. Ma traspare
da questi giudizi la percezione che in Italia si è riusciti a sfuggire
al dilemma “annacquare o restringere a pochi”. Non consapevolmente,
forse, ma la Chiesa italiana è riuscita a muoversi oltre questo dilemma.
A Verona si è inoltre insistito sullo spazio di corresponsabilità
che va dato ai laici nella vita e nella pastorale delle nostre comunità
– un conto è fare un servizio, partecipare semplicemente, un
conto è una vera corresponsabilità. A Roma sotto questi aspetti
siamo in certo senso all’avanguardia, per l’esperienza della nostra
Diocesi e delle parrocchie e in particolare per la Missione cittadina e per
lo sforzo di orientare la pastorale in senso permanentemente missionario: anche
qui, in concreto, resta però molta strada da fare. C’è
così la questione di ciò che il laicato può fare nelle
nostre chiese, ma, insieme e molto più, la grande sfida per i laici di
essere un fermento nella vita, corresponsabili dell’annuncio del vangelo
e della formazione della coscienza credente.
Passiamo ora a considerare i principali contenuti
della proposta cristiana, quali sono emersi a Verona, specialmente dal
discorso di Benedetto XVI. Va segnalato anzitutto l’atteggiamento
fondamentale indicato dal Papa: quello del “grande
sì” che Dio ha detto in Gesù Cristo all’uomo
e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra intelligenza e
libertà - non si tratta semplicemente di affermare che
Gesù ha detto questo “sì”, ma è in
questione che noi, chiesa, dobbiamo concretizzarlo, mostrarlo nelle
grandi questioni odierne che riguardano la vita delle persone.
Pertanto la fede in questo Dio porta la gioia nel mondo; è per
questo “sì” che la fede porta la gioia nel mondo.
Certo questo grande sì non lascia le cose così come
stanno, tende a cambiare questo mondo, ma per renderlo migliore,
più cristiano, più umano!
Quanto il Papa ha insistito su questo. Anche con altre parole ha
ripetutamente espresso questo stesso concetto. Ha voluto sfatare
ciò che i media costruiscono ad arte: una contrapposizione fra
il cristianesimo e la vita. Non dimentichiamo che se non
c’è una contrapposizione, una cosa non esiste per i media!
Analogamente il Card. Tettamanzi ha detto che occorre parlare non
soltanto “di speranza” ma “con speranza”.
In concreto, riguardo all’intelligenza, si
tratta di “allargare gli spazi della razionalità”
– il Papa lo disse già nel discorso alla Università
Cattolica - riportando alla luce gli interrogativi più
grandi e importanti che abbiamo dentro di noi (sull’origine, il
senso, il destino della nostra vita e l’orientamento di fondo dei
nostri comportamenti, cioè gli interrogativi teorici e quelli
pratici) e tentando di rispondervi. E’ un “sì”
che vuole affermare il valore di questi interrogativi grandi ed
importanti che, altrimenti, vengono invece messi a tacere. Il Papa ha
di mira quello che potremmo chiamare uno “scientismo di
ritorno”, l’affermazione dello scientismo come
l’unica forma di verità.
Viene superato così quel “veto” che una
razionalità soltanto scientifica e funzionale, oggi spesso
dominante, finisce per opporre ad interrogativi del genere, con il
risultato di provocare una frattura con il senso religioso che abita
dentro di noi, quel “divieto” che si esprime
nell’affermare che le grandi questioni non sono interrogativi
della ragione e che, pertanto, sono questioni nelle quali ognuno ha
come unico criterio quello di fare come vuole, secondo il suo
“sentimento”, ponendo una dicotomia fra il sapere
scientifico ed il senso religioso. La conseguenza è non soltanto
l’incapacità di interloquire con altre civiltà,
come ad esempio quella islamica, nelle quali la religione ha una
funzione dominante, ma anche la rottura che si verifica qui da noi,
dove il senso religioso – che sempre è stato e sempre ci
sarà - già da vari anni sta prendendo maggior forza,
all’interno delle persone e delle coscienze, specialmente nei
giovani. Diceva recentemente il prof.Mieli, in qualità di
professore di Storia contemporanea, che vede un crescente interesse
alle religioni tra i suoi alunni, che pure sono analfabeti di
religione, un’attenzione alle radici storiche ed alle prospettive
di futuro del cristianesimo. Noi non siamo abbastanza consapevoli di
questo interesse che c’è.
Una religiosità che non trovi sbocco a livello razionale rimane infatti
soggettiva, emotiva e precaria, con la conseguente difficoltà a prendere
decisioni definitive, siano esse matrimoniali o sacerdotali. Perciò
a tutti i livelli, cominciando dalla nostra pastorale ordinaria, dobbiamo riproporre
la grande questione della verità del cristianesimo (di essa ci
occuperemo nell’incontro del clero romano Al
cuore dell’insegnamento di Benedetto XVI: proporre la verità salvifica
di Gesù Cristo alla ragione del nostro tempo). Senza la questione
della verità, la religione resta fragile, emozionale, dipendente dal
vissuto del gruppo. La questione della religione non è solo che mi
piaccia, che piaccia a me: la religione è tale se affermo che è
vera.
Ma, d’altro canto, anche la scienza, volendo arrivare a
troppo, finisce per danneggiare se stessa, se non si
“allargano gli spazi della razionalità”.
L’uomo arriva a diffidarne, perché la scienza si
attribuisce una importanza maggiore di quella che ha.
Proprio per superare una visione “chiusa” del sapere
scientifico il Papa ripropone la fondamentale verità di Dio
creatore intelligente a partire da una riflessione sulla scienza
(lo ha fatto in varie circostanze, anche nell’incontro a S.Pietro
nel suo dialogo in risposta alle domande dei giovani): non
però dai risultati delle scienze – altrimenti sarebbe
sempre precaria questa verità e, soprattutto, impropria
perché Dio non è sperimentabile secondo quella
metodologia - ma dai presupposti della conoscenza scientifica e delle
sue applicazioni tecnologiche, che rimandano alla
intelligibilità intrinseca della natura, oggetto delle
scienze. Se conosco la natura, vuol dire che essa è conoscibile.
Ma come mai la natura ha una sua razionalità interna? E’
l’ipotesi migliore del Verbo creatore.
Questa fondamentale verità – una verità non
astratta, non “scolastica”, ma che coinvolge la vita - come
tutto il nostro credo, non può essere oggetto di una
dimostrazione necessaria e costringente: riguarda piuttosto tutta la
nostra vita e pertanto va abbracciata con una scelta libera.
Va dunque proposta nella forma della testimonianza – uno
dei termini del Convegno di Verona, “testimoni di Gesù
risorto” - che mette in gioco la libertà sia di colui che
propone sia di colui a cui è rivolta la proposta, sia di
colui che accoglie la fede, ma, prima ancora, la libertà di chi
liberamente la testimonia perché l’altro possa accoglierla.
E’ perché affermo essere vera la fede che divengo
testimone. Se non “vengono allargati gli spazi della
razionalità” restiamo rinchiusi nella considerazione che
ciò che è razionale è necessario e che ciò
che è libero non entra nella razionalità. A Roma stiamo
insistendo a questo riguardo sull’importanza della
“pastorale dell’intelligenza”.
Un secondo grande aspetto, che sotto il profilo
esistenziale è anzi il primo, è quello
dell’amore e, di nuovo, della libertà, con il connesso
problema del male, del peccato e della sofferenza. E’ il primo,
potremmo dire, perché l’amore è ciò che
da la spinta. Come il Papa ha scritto nella Deus caritas est,
attualmente si cerca di mettere fuori gioco il cristianesimo
soprattutto sotto il profilo dell’amore e dell’etica:
l’attuale mentalità e cultura del successo individuale,
dell’erotismo e della soddisfazione di ogni desiderio considera
infatti l’etica cristiana come negazione dell’amore
autentico e della nostra libertà. L’etica uccide
l’amore autentico – si pensa – ed il cristianesimo
mette solo paletti e divieti. Se ci poniamo nell’ottica di un
“etica” della soddisfazione individuale,
dell’erotismo, dell’individualismo, la morale stessa
è messa fuori gioco, ma con essa è l’amore che
viene estromesso.
Anche qui la risposta fondamentale è il “grande
sì”: per il cristianesimo infatti Dio stesso è
amore e l’amore, nella pienezza delle sue dimensioni, è il
“grande comandamento”, ciò che da senso alla nostra
vita. L’etica cristiana non è per la restrizione
dell’amore, ma per l’ampliamento di esso. Anche il
matrimonio va visto in questa prospettiva; non è per dare
limiti, ma per dare autenticità all’amore. Il grande
sì di Dio è così un sì all’amore,
proprio perché Dio stesso è amore. Questa è
l’impostazione.
La stessa croce di Cristo si colloca in questa luce, è il
sì estremo detto all’uomo dal Dio che ci ama - ed è
qui la questione: perché è consolante parlare di
ciò che si ama, ma quando poi si incontra la sofferenza cosa
avviene? Questa è anche l’unica risposta autentica al
problema del male: come ha scritto Giovanni Paolo II nel suo ultimo
libro Memoria e identità, il vero limite posto al male
è la misericordia di Dio.
Questa impostazione ha precisi risvolti pastorali: in particolare, una
vera educazione cristiana – nella vita non ci sono solo le azioni
politiche, sociali, economiche, ma c’è la questione
educativa del cuore e della coscienza - non può evitare il
grande tema dell’amore umano, che sta nel cuore umano e
sguscia fuori dappertutto, che è decisivo per i giovani ma anche
per gli adulti, come è stato sottolineato anche nel nostro
Convegno diocesano di giugno.
Nello stesso tempo questo tema va collegato – è
un’indicazione importante - all’esperienza del servizio al
prossimo, e in particolare ai poveri e ai sofferenti, dove
l’amore cresce in generosità e gratuità. Sono molto
più vicini tra loro di quanto normalmente si pensi i temi della
famiglia, dei giovani e del loro amore, e quello della carità.
E’ in questione quando il prossimo non può darmi, ma mi
chiede!
A Verona si è insistito sul valore della sofferenza,
specialmente in rapporto alla centralità della dimensione
escatologica del cristianesimo: dobbiamo essere infatti
“testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo”, dove
è chiaro che la nostra speranza, pur riguardando anche la vita
terrena, si protende anzitutto verso l’eternità e da qui
ricava la forza per rinnovare il mondo, come ha detto il Papa nella
prima parte del suo discorso dedicata al significato e alla portata
della risurrezione di Cristo. La vita umana ha un senso che va oltre la
morte. Qui è il vangelo di Gesù e quindi di Paolo, in
1Cor15, e della Chiesa nell’affermazione che Dio è il Dio
dei viventi. Qui la nostra pastorale deve molto interrogarsi se
è stata troppo oscurata la dimensione della vita eterna nella
predicazione. Senza di questo è assai difficile passare dalla
semplice condivisione del dolore ad una speranza autentica che vada
oltre la sola vicinanza ai familiari di chi è morto. Fino a
2 secoli fa la morte era vista in senso cristiano come il grande
passaggio, oggi piuttosto come la fine di tutto. Senza
l’insistenza sulla dimensione escatologica del cristianesimo
tutto apparirebbe molto fragile, poco convincente: la speranza
cristiana è una speranza della vita presente, ma, ancor
più, della vita eterna.
Benedetto XVI ha anche insistito sull’unità che deve
intercorrere, nella vita e nella testimonianza delle nostre
comunità, tra verità e amore: questa è stata
la forza che ha consentito l’espansione del cristianesimo nei
primi secoli e questo è anche oggi il segreto di una efficace
missionarietà. Le prime comunità cristiane erano convinte
di avere in sé la vera interpretazione della realtà,
erano certe del vero Dio, creatore e redentore di sé e del
mondo, ed, insieme, convinte di una testimonianza pratica, della
testimonianza della carità. L’unità di questi
due aspetti è il segreto di una vera missionarietà: una
verità da proporre ed una testimonianza di carità
profonda.
Molti di questi aspetti hanno già trovato riscontro nel nostro
Convegno diocesano di giugno.
Il “grande sì” riguarda tutto
l’uomo, anche nella sua dimensione pubblica, è
“sì” a tutto l’uomo e, quindi, anche alla sua
vita pubblica. Il Papa ha più volte sottolineato che fin
dall’inizio la fede cristiana ha avuto anche carattere pubblico.
Il giudizio di Cristo che lo porterà sulla croce è un
fatto pubblico. Non ci sarebbero state le persecuzioni se non ci fosse
stata una dimensione pubblica fin dall’inizio.
In questo ambito la grande novità cristiana è la
distinzione tra religione e politica, espressa dal “Date a Cesare
quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”: da
qui ha origine storicamente la libertà religiosa, prima ben
poco riconosciuta, oggi riconosciuta - almeno in teoria, altra cosa
è la prassi nel mondo - come un valore universale.
Perciò la Chiesa non è e non intende essere un agente
politico, non si schiera a livello dei partiti. Nello stesso tempo essa
ha un interesse profondo per il bene della comunità politica
– non è che non si schiera perché si disinteressa -
interesse che si concretizza in un duplice servizio: di aiuto a far
conoscere, attraverso la dottrina sociale, ciò che è
conforme alla realtà dell’uomo (ciò che
è conforma alla realtà dell’uomo, cioè non
ciò che è proprio dei cristiani: questa è la
dottrina sociale della Chiesa, di questa distinzione si occupa anche la
seconda parte della Deus caritas est), e di stimolo a far
crescere le forze morali per attuare il bene corrispondente.
Non basta, infatti, conoscere il bene per realizzarlo; dinanzi ai
tanti interessi, il vero bene può essere messo da parte, se non
c’è una forza morale. Serve una forza morale per
resistere a tante tentazioni. I due aspetti sono complementari: si
tratta di illuminare i valori (è il compito della dottrina
sociale), ma anche di far crescere le forze morali perché siano
realizzati, perché il bene comune non resti un’astrazione.
L’azione propriamente politica compete ai laici cristiani, sotto
propria responsabilità e al contempo nella fedeltà
all’insegnamento della Chiesa, specialmente oggi quando assume
rilevanza pubblica la “questione antropologica”, che tocca
ciò che è essenziale all’uomo e alla stessa fede
cristiana - è importantissimo quando la politica affronta
questa questione.
In realtà l’impegno della Chiesa e dei cattolici è
rivolto a mantenere viva quella grande riserva di energie morali
– che è una grande risorsa dell’Italia - che rischia
di essere corrosa da un’accentuazione unilaterale dei diritti
individuali e delle libertà dei singoli: questi sono certamente
molto importanti ma altrettanto essenziali sono i rapporti inter-umani,
soltanto attraverso i quali la persona può crescere e la
società può vivere. Questo è il nocciolo del
problema: il diritto individuale è una metà del problema,
ma non può essere concepito in modo da dimenticare l’altra
metà, poiché la felicità umana implica il bene
comune, dato che l’uomo è tale solo nel rapporto
inter-umano. Anche a noi stanno a cuore i diritti del singolo, ma a noi
sta anche a cuore l’aspetto relazionale che è
necessario proprio per la realizzazione della persona stessa.
In questa ottica la “laicità”, per essere un valore
autentico, deve essere “sana” e “positiva”:
implica cioè l’autonomia delle realtà terrene e
l’indipendenza dello Stato dall’autorità della
Chiesa, ma non può prescindere da quelle istanze etiche e da
quel senso religioso che sono radicati nella realtà del nostro
essere. Guai se, per il fatto di non dover sottostare ad alcuna
autorità, i grandi temi antropologici ed etici non dovessero
più entrare nella vita pubblica. Si perderebbe la bussola ed,
alla fine, si andrebbe contro il bene della persona stessa. Come ha
detto a braccio il Papa all’Assemblea della CEI del maggio 2005,
“lavoriamo non per l’interesse cattolico ma per
l’uomo creatura di Dio”.
Sotto l’aspetto della rilevanza pubblica della fede a Roma dobbiamo
crescere, come corpo ecclesiale, non nel senso di un coinvolgimento
partitico (questo semmai deve diminuire), ma nella capacità di
formazione, proposta e testimonianza, che del resto abbiamo
già mostrato di avere in occasione del referendum sulla
procreazione assistita. Così il “discernimento
comunitario”, da compiere nelle nostre comunità, non deve
essere rivolto direttamente all’azione politica – questo
sarebbe deleterio, sarebbe portare nelle nostre stesse comunità
le divisioni della politica - ma all’elaborazione culturale e
alla formazione delle coscienze. Questo “discernimento
comunitario” dobbiamo averlo in maniera abituale, stabile, sui
grandi temi che hanno a che fare con l’uomo.
Per concludere, dal Convegno di Verona è emerso con forza il
senso di una missione comune, dentro la quale stiamo tutti noi, e
più radicalmente la necessità della crescita del senso di
appartenenza ecclesiale, che dobbiamo avere dentro di noi per
poterlo comunicare efficacemente. Questo è molto importante,
penso. Si fatica se non c’è questo, perché la
Chiesa non è una realtà esterna a noi, perché ne
siamo parte. Apparteniamo alla Chiesa tout court, alla Chiesa storica
ed a quella escatologica e dobbiamo avere il senso della Chiesa per
poterlo comunicare!
Avremo così coraggio e perseveranza nel dire e nel testimoniare
quel “grande sì” che cambia il mondo.