Presentiamo on-line la Relazione tenuta da S.Em. il cardinal Ruini al Clero della Diocesi di Roma il 14 dicembre 2006, nell’Aula Magna della Pontificia Università Lateranense. I neretti nel testo sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Ci siamo permessi di aggiungere al testo gli appunti presi durante le risposte alle domande dei sacerdoti presenti. Questi appunti, presi velocemente durante la discussione, non sono stati ovviamente rivisti dall’autore. Come tutti gli appunti non rispecchiano espressamente le parole dell’autore, ma sono “inquinati” da colui che li ha presi. Li riportiamo solo allo scopo di rendere evidente la ricchezza della discussione che è seguita alla relazione e di conservarne memoria.
Il Centro culturale Gli scritti (31/12/2006)
Una caratteristica del magistero di Benedetto XVI
è il suo grande impegno per la questione della verità
della fede cristiana, nell’attuale situazione storica e in
rapporto alle forme di razionalità oggi prevalenti. Nel
linguaggio della teologia, potremmo dire che il Papa affronta, col suo
stile e in maniera innovativa, la questione centrale
dell’apologetica, o – come si preferisce dire oggi –
della teologia fondamentale.
Scopo di questa relazione non è, evidentemente, approfondire
queste problematiche, e nemmeno farne una presentazione completa, ma
soltanto introdurre in esse, offrendo alcune principali linee di
orientamento e chiavi di interpretazione, alla luce sia del magistero
di Benedetto XVI, in particolare del discorso del 12 settembre 2006
all’Università di Regensburg e di quello del 19 ottobre al
Convegno di Verona, oltre che dell’Enciclica Deus caritas est,
sia del suo precedente lavoro di teologo. Tra i suoi tanti libri
importanti, mi riferisco principalmente alla Introduzione al
Cristianesimo, edito dalla Queriniana (d’ora in poi Introduzione),
e alle due raccolte di saggi Fede Verità Tolleranza. Il
cristianesimo e le religioni del mondo, pubblicata da Cantagalli
nel 2003 (d’ora in poi Fede), e L’Europa di
Benedetto nella crisi delle culture, pubblicata nel 2005
anch’essa da Cantagalli (d’ora in poi L’Europa),
perché questi tre libri sono più direttamente attinenti
al nostro tema.
Infatti, sebbene Benedetto XVI abbia grande cura di distinguere tra
il suo magistero di Pontefice e il suo lavoro di teologo, come egli
stesso afferma nella prefazione, anticipata alla stampa, del suo libro Gesù
di Nazareth atteso per la primavera prossima, vi è pur
sempre una profonda corrispondenza e unità sostanziale tra il
suo magistero e la sua teologia. Un esame attento consente pertanto
di individuare, attraverso l’uno e l’altra, proprio quelle
linee fondamentali che cercherò di presentare oggi.
Prima di entrare nell’argomento, può essere utile dire
qualche parola sull’impostazione teologica e sul modo di
procedere propri di Joseph Ratzinger –Benedetto XVI. Egli, che ha
insegnato prima teologia fondamentale e poi teologia dogmatica, ha un
approccio ai problemi dove la penetrazione teoretica e filosofica
si colloca dentro a una prospettiva che è anzitutto storica e
concreta. Inoltre, la sua formazione è essenzialmente
biblica, patristica e liturgica e alla luce di essa egli affronta le
problematiche attuali. Il suo atteggiamento riguardo a queste ultime
denota certamente acute capacità critiche, ma è
improntato anzitutto a una volontà costruttiva,
all’apertura e anche alla simpatia. Per farsi un’idea
di come egli stesso veda la sua formazione e il suo lavoro di teologo
è particolarmente interessante il libro autobiografico La
mia vita (ed. San Paolo).
Venendo ora al nostro tema, mi sembra giusto prendere come punto di
partenza la convinzione, espressa dal Card. Ratzinger, che “Al
termine del secondo millennio,il cristianesimo si trova, proprio nel
luogo della sua originaria diffusione, in Europa, in una crisi
profonda, basata sulla crisi della sua pretesa di verità”
(Fede, p.170). Questa crisi ha una duplice dimensione: la
sfiducia riguardo alla possibilità, per l’uomo, di
conoscere la verità su Dio e sulle cose divine, e i dubbi che le
scienze moderne, naturali e storiche, hanno sollevato riguardo ai
contenuti e alle origini del cristianesimo.
La gravità e il carattere radicale di una
simile crisi si comprendono alla luce di quella che è la natura
propria del cristianesimo. È certamente vero che esso non
è anzitutto “una decisione etica o una grande idea,
bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che
dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione
decisiva” (Deus caritas est, n.1), ma è altrettanto
vero che l’opzione per il lógos, e non per il mito, ha
caratterizzato fin dall’inizio lo stesso cristianesimo.
J.Ratzinger argomenta ampiamente questa affermazione, anzitutto sul
piano storico, già a partire dalla sua prima prolusione
accademica, nel 1959 all’Università di Bonn, intitolata Il
Dio della fede e il Dio dei filosofi – aveva solo 32
anni! - e poi fino al recentissimo discorso all’Università
di Regensburg. In concreto, già ben prima della nascita di
Cristo la critica dei miti religiosi compiuta dalla filosofia greca
– critica che può definirsi come l’illuminismo
filosofico dell’Antichità – ha trovato un
corrispettivo nella critica agli dei falsi condotta dai Profeti di
Israele (in particolare il Deutero-Isaia) in nome del monoteismo
jahvistico, e poi l’incontro tra fede giudaica e filosofia greca
si è sviluppato progressivamente e ha trovato espressione anche
nella traduzione greca dell’A.T. dei “Settanta”, che
“è più di una semplice traduzione” e
rappresenta “uno specifico importante passo della storia della
rivelazione” (discorso di Regensburg).
Pertanto l’affermazione “In principio era il
Lógos”, con cui inizia il prologo del Vangelo di Giovanni,
costituisce “la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la
parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede
biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi” (ibidem).
Nella stessa linea si è mossa la patristica, come emerge dalla
frase audace e incisiva di Tertulliano “Cristo ha affermato
di essere la verità, non la consuetudine” (Introduzione,
p. 102) e dalla netta scelta di S. Agostino che, rifacendosi alle tre
forme di religione individuate dall’autore pagano Terenzio
Varrone, colloca risolutamente il cristianesimo nell’ambito della
“teologia fisica”, cioè della razionalità
filosofica, e non in quello della “teologia mitica” dei
poeti, o della “teologia civile” degli Stati e dei politici.
Il cristianesimo si qualifica pertanto come “religione
vera”, a differenza dalle religioni pagane, ormai prive di
verità agli occhi della stessa razionalità precristiana,
e realizza rispetto ad esse una grande opera di
“demitizzazione”. Un cammino di questo genere era
già iniziato nel giudaismo, ma rimaneva la difficoltà del
legame speciale tra l’unico Dio creatore universale e il solo
popolo giudaico, legame superato dal cristianesimo, nel quale
l’unico Dio si propone come salvatore, senza discriminazioni, di
tutti i popoli. In questo senso, l’incontro tra il
messaggio biblico e il pensiero filosofico greco non è stato un
semplice caso, ma la concretizzazione storica del rapporto intrinseco
tra la Rivelazione e la razionalità. E proprio questo è
anche uno dei motivi fondamentali della forza di penetrazione del
cristianesimo nel mondo ellenistico-romano (cfr Fede,
pp.173-180).
Così però abbiamo, per così dire, soltanto una
metà del discorso: l’altra metà è costituita
dalla novità radicale e dalla diversità profonda della
rivelazione biblica rispetto alla razionalità greca, e
ciò anzitutto riguardo al tema centrale della religione, che
è chiaramente Dio. J.Ratzinger mette grande impegno nel
mostrare, attraverso l’esame dei testi biblici, dal racconto del
roveto ardente di Esodo 3 fino alla formula “Io sono” che
Gesù applica a se stesso nel Vangelo di Giovanni, che
l’unico Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento è
l’Essere che esiste da se stesso e in eterno, ricercato dai
filosofi (cfr Introduzione, pp. 79-97). Ma egli sottolinea con
uguale forza che questo Dio supera radicalmente ciò che i
filosofi avevano pensato di Lui.
In primo luogo, infatti, Dio è nettamente distinto dalla natura,
dal mondo che Egli ha creato: solo così la “fisica”
e la “metafisica” giungono a una chiara distinzione
l’una dall’altra. E soprattutto questo Dio non è
una realtà a noi inaccessibile, che noi non possiamo incontrare
e a cui è inutile rivolgersi nella preghiera, come ritenevano i
filosofi. Al contrario, il Dio biblico ama l’uomo e per questo
entra nella nostra storia, dà vita a un’autentica storia
d’amore con Israele, suo popolo, e poi, in Gesù Cristo,
non solo dilata questa storia di amore e di salvezza all’intera
umanità ma la conduce all’estremo, al punto
cioè di “rivolgersi contro se stesso”, nella croce
del proprio Figlio, per rialzare l’uomo e salvarlo, e di chiamare
l’uomo a quell’unione di amore con Lui che culmina
nell’Eucaristia (cfr Deus caritas est, nn. 9-15, dove
Benedetto XVI riassume con grande forza quello che aveva approfondito
fin dagli inizi del suo lavoro di teologo).
In questo modo il Dio che è l’Essere e il Verbo
è anche e identicamente l’Agape, l’Amore originario
e la misura dell’amore autentico, che proprio per amore ha creato
l’universo e l’uomo. Più precisamente, questo
amore è del tutto disinteressato, libero e gratuito: Dio infatti
crea liberamente l’universo dal nulla (solo con la
libertà della creazione diventa piena e definitiva la
distinzione tra Dio e il mondo) e liberamente, per la sua
misericordia senza limiti, salva l’umanità peccatrice.
Così la fede biblica riconcilia tra di loro quelle due
dimensioni della religione che prima erano separate una
dall’altra, cioè il Dio eterno di cui parlavano i filosofi
e il bisogno di salvezza che l’uomo porta dentro di sé e
che le religioni pagane tentavano in qualche modo di soddisfare. Il
Dio della fede cristiana è dunque sì l’Essere
assoluto, il Dio della metafisica, ma è anche, e identicamente,
il Dio della storia, il Dio cioè che entra nella storia e nel
più intimo rapporto con noi. È questa, secondo J.
Ratzinger, l’unica risposta adeguata alla questione del Dio della
fede e del Dio dei filosofi (cfr Fede, pp. 180-182).
Tutto ciò ha inevitabili e decisive conseguenze riguardo
all’uomo e al modo di intendere la vita, cioè
all’etica. Come San Paolo ha detto esplicitamente,
“quando i pagani che non hanno la legge, per natura agiscono
secondo la legge,… essi dimostrano che quanto la legge esige
è scritto nei loro cuori” (Rom2,14-15). Nello
stesso spirito Paolo chiede ai credenti in Cristo: “Tutto
quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato,
quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia
oggetto dei vostri pensieri” (Fil4,8). Vi è qui un
chiaro riferimento all’interpretazione etica della natura,
coltivata dalla morale stoica.
Questa interpretazione è dunque assunta dal cristianesimo, ma
nello stesso tempo è superata: quando a un Dio soltanto
pensato subentra l’incontro con il Dio vivente, avviene anche il
passaggio da una teoria etica a una prassi morale comunitariamente
vissuta emessa in atto nella comunità credente, in concreto
attraverso la concentrazione di tutta la morale nel duplice
comandamento dell’amore di Dio e del prossimo. E come questo
Dio crea e si dona nella libertà, così la fede in Lui
non può che essere un atto libero, che nessuna autorità
statuale può proibire o può imporre: pertanto “alla
struttura fondamentale del cristianesimo appartiene la distinzione tra
ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr
Mt22,21)” (Deus caritas est, 28).
Questa è, nella sua pienezza, la ragione del dinamismo
missionario sviluppato nel mondo ellenistico romano dal cristianesimo: esso
convinceva perché riuniva in sé il legame della fede con
la ragione e l’orientamento dell’azione verso la caritas,
la cura amorevole dei sofferenti, dei poveri e dei deboli, al di
là di ogni differenza di condizione sociale. Possiamo dunque
concludere che la forza che ha fatto del cristianesimo una religione
mondiale e ha reso convincente la sua pretesa di essere la
“religione vera” è consistita nella sintesi che esso
ha saputo realizzare tra ragione, fede e vita (cfr Fede, pp.
182-184, e anche il Discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005).
Questa sintesi e questa pretesa hanno retto per
molti secoli, pur tra tante vicissitudini storiche, e sono state alla
base delle successive fasi di espansione missionaria del cristianesimo
(cfr discorso di Verona). A questo punto J.Ratzinger pone con forza la
domanda: “perché questa sintesi non convince
più oggi? Perché la ragione e il cristianesimo sono, al
contrario, considerati oggi come contraddittori e addirittura
reciprocamente escludentisi? Che cosa è cambiato nella prima e
che cosa è cambiato nel secondo?” (Fede, p,
184).
Esaminiamo dunque, in primo luogo, i cambiamenti intervenuti nella
“ragione”. In maniera molto sommaria, diremo soltanto che l’unità
relazionale tra razionalità e fede, alla quale San Tommaso
d’Aquino aveva dato una forma sistematica, è stata
progressivamente sempre più lacerata attraverso le grandi tappe
del pensiero moderno, da Cartesio a Vico a Kant, mentre la nuova
sintesi tra ragione e fede tentata da Hegel non restituisce realmente
alla fede la sua dignità razionale, ma tende piuttosto a
convertirla completamente in ragione, eliminandola come fede.
Il passo successivo, che ha come figure emblematiche Marx e
Comte, rovescia la posizione di Hegel, che riduceva la materia allo
spirito, riducendo invece lo spirito alla materia – con
l’esclusione della possibilità stessa di un Dio
trascendente – e facendo di nuovo venir meno, in linea di
principio, una “metafisica” distinta dalla
“fisica”.
Contestualmente ha luogo una trasformazione del concetto di
verità, che cessa di essere conoscenza della realtà
esistente indipendentemente da noi per divenire conoscenza di
ciò che noi stessi abbiamo compiuto nella storia, e poi di
ciò che noi possiamo realizzare mediante le scienze empiriche e
le tecnologie (concetto “funzionale” della ragione e della
verità): così al primato della filosofia
(metafisica) subentra il primato della storia, a sua volta poi
sostituito da quello della scienza e della tecnica.
Quest’ultimo primato è oggi assai chiaramente visibile
nella cultura occidentale e, nella misura in cui pretende che la
conoscenza scientifica sia l’unica propriamente vera e razionale,
deve qualificarsi come “scientismo” (cfr Introduzione,
pp.27-37; Fede, pp. 186-187).
In questo quadro la teoria dell’evoluzione delle specie dei
viventi proposta da Darwin ha finito per assumere, presso molti
scienziati e filosofi e in larga parte dell’attuale cultura, il
ruolo di una specie di visione del mondo o di “filosofia
prima”, che da una parte sarebbe rigorosamente
“scientifica” e dall’altra costituirebbe, almeno
potenzialmente, una spiegazione o teoria universale di tutta la
realtà, basata sulla selezione naturale e sulle mutazioni
casuali, al di là della quale ulteriori domande
sull’origine e sulla natura delle cose non sarebbero più
necessarie e nemmeno lecite.
L’affermazione che “In principio era il
Lógos” viene pertanto capovolta, ponendo all’origine
di tutto la materia-energia, il caso e la necessità, qualcosa
dunque che in sé non sarebbe razionale (cfr Fede,
pp. 187-190). Anche tra i non credenti in Cristo simili posizioni non
sono certo condivise da tutti, essendo spesso avvertite come un
insopportabile dogmatismo, che si pretende “scientifico” ma
trascura i limiti intrinseci della conoscenza scientifica.
J.Ratzinger osserva però che, a causa di quel grande cambiamento
per il quale, da Kant in poi, la ragione umana non è più
ritenuta in grado di conoscere la realtà in se stessa, e
soprattutto la realtà trascendente, l’alternativa
culturalmente più accreditata allo scientismo sembra essere oggi
non l’affermazione del Dio Verbo, bensì l’idea che
“latet omne verum” (ogni verità è nascosta),
ossia che la vera realtà di Dio rimane a noi del tutto
inaccessibile e non conoscibile, mentre le diverse religioni ci
presenterebbero soltanto delle immagini di Dio relative ai diversi
contesti culturali, e quindi tutte ugualmente “vere” e
“non vere”.
In questo modo ritrova cittadinanza nel mondo occidentale
quell’approccio al divino che è proprio delle grandi
religioni o visioni del mondo orientali, come l’induismo e il
buddismo (pur con tutte le grandi differenze tra loro), e che nei
primi secoli dell’era cristiana il neoplatonismo aveva a suo modo
cercato di proporre, come alternativa al cristianesimo (cfr Fede,
pp. 184-186). Non è difficile constatare quanto simili idee
siano concretamente diffuse tra la nostra gente.
Un Dio, o meglio un “divino”, così inteso tende a
identificarsi con la dimensione più profonda e misteriosa
dell’universo, presente al fondo di ogni realtà: è
difficile dunque riconoscergli un carattere personale e la preghiera
stessa, piuttosto che essere un dialogo tra Dio e l’uomo, prende
la forma di itinerari spirituali di autopurificazione, che
culminano nel riassorbimento e dissolvimento del nostro io
nell’infinito originario. Alla fine non sembra pertanto
così radicale la differenza tra queste forme di
religiosità e quell’agnosticismo, o anche ateismo, che si
collegano all’approccio scientista (cfr Fede, pp.
184-186, e anche pp. 23-43; 125-134).
Come la fede cristiana nel Dio che è Essere, Verbo e Agape si
è concretizzata in una precisa forma di vita e di etica,
qualcosa di analogo è avvenuto e sta avvenendo per le forme di
razionalità che tendono a sostituirsi al cristianesimo e che a
loro volta si esprimono in concreti orientamenti etici. Se
“ogni verità è nascosta”, o anche se è
razionalmente valido soltanto ciò che è sperimentabile e
calcolabile, parallelamente a livello pratico, di vita e di
comportamenti, il valore fondamentale diventa quelle della
“tolleranza”, nel senso che nessuno deve o può
ritenere le proprie convinzioni e le proprie scelte migliori e
preferibili rispetto a quelle degli altri.
È questa la figura attuale e apparentemente compiuta
dell’illuminismo, che si definisce in concreto attraverso i
diritti di liberta, con le libertà individuali come criterio
supremo e decisivo che misura tutti gli altri e con la conseguente
esclusione di ogni possibile discriminazione ai danni di qualcuno.
Viene meno pertanto, specialmente a livello sociale e pubblico, la
coscienza morale come qualcosa di valido oggettivamente, perché
riferito a ciò che è bene o male in se stesso. Dato
però che una morale è comunque necessaria per vivere,
essa viene in qualche modo ricuperata facendo riferimento al
calcolo delle conseguenze, utili o dannose, dei propri comportamenti e
tenendo sempre come criterio regolatore quello di non limitare la
libertà altrui (cfr L’Europa, pp. 35-37).
Sul piano dei contenuti alla concezione del mondo che assolutizza
il modello evoluzionistico corrisponde un’etica che pone al
centro la selezione naturale, e quindi la lotta per la sopravvivenza e
la vittoria del più forte, mentre nella prospettiva di quelle
forme di religiosità che fanno riferimento a un divino non
conoscibile e tendenzialmente impersonale la stessa persona umana, con
i suoi diritti inalienabili, la sua libertà e
responsabilità, perde la propria consistenza e diventa qualcosa
di relativo e transitorio, che tende a dissolversi in un tutto
indistinto.
Così anche la differenza irriducibile tra il bene e il male
viene relativizzata e diventa soltanto l’opposizione di due
aspetti, entrambi necessari e complementari, dell’unico tutto
originario.
Vediamo ora, più rapidamente, quali siano i cambiamenti
intervenuti nel cristianesimo stesso che hanno contribuito al divorzio
consumatosi tra esso e la ragione nella nostra epoca. Nel discorso di
Regensburg Benedetto XVI mette l’accento in particolare sul
tema della “deellenizzazione” del cristianesimo, che emerge
una prima volta già nel XVI secolo con la Riforma protestante:
l’intento era ritornare alla pura fede biblica, liberandola dal
condizionamento della filosofia greca, ossia della metafisica.
Un’intenzione simile si ritrova anche in Kant, sia pure in forma
assai diversa.
La seconda ondata del programma di deellenizzazione nasce dalla
teologia protestante liberale del secolo XIX e XX ma ha interessato
fortemente anche la teologia cattolica. Nel pensiero dei suoi
rappresentanti più radicali, come Harnack, si tratta di
ritornare al Gesù soltanto uomo, che sarebbe il Gesù
della storia, e al suo semplice messaggio morale, che costituirebbe il
culmine dello sviluppo religioso dell’umanità, liberandolo
dai successivi sviluppi filosofici e teologici, a cominciare dalla
stessa divinità di Cristo. Alla base c’è
l’autolimitazione moderna della ragione a ciò che è
verificabile.
La terza ondata della deellenizzazione sta diffondendosi attualmente,
in rapporto con il problema dell’incontro del cristianesimo con
le molteplici culture del mondo: la sintesi con l’ellenismo
compiutasi nella Chiesa antica sarebbe una prima inculturazione, da cui
occorrerebbe liberarsi, ritornando al semplice messaggio del Nuovo
Testamento per inculturarlo di nuovo nei diversi contesti
socio-culturali. Il risultato è inevitabilmente quello di
relativizzare il legame tra fede e ragione instauratosi fin
dall’inizio del cristianesimo, ritenendo che esso sia soltanto
contingente e quindi superabile.
Un altro e ancor più rilevante cambiamento è stato
quello per il quale, con il passare dei secoli, il cristianesimo era
purtroppo diventato in larga misura tradizione umana e religione di
Stato, contrariamente alla propria natura (cfr le parole di
Tertulliano: “Cristo ha affermato di essere la verità, non
la consuetudine”): nonostante la ricerca di razionalità e
di libertà sia sempre stata presente nel cristianesimo, la voce
della ragione era stata troppo addomesticata.
È stato ed è merito dell’illuminismo aver
riproposto, spesso in polemica con la Chiesa, questi valori originari
del cristianesimo e aver ridato alla ragione e alla libertà la
loro propria voce. Il significato storico del Concilio Vaticano II sta
nell’aver nuovamente evidenziato, specialmente nella Costituzione
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo e nella Dichiarazione sulla
libertà religiosa, questa profonda corrispondenza tra
cristianesimo e illuminismo, puntando ad una vera conciliazione tra
Chiesa e modernità, che è il grande patrimonio da
tutelare da entrambe le parti (L’Europa, pp.57-59; cfr
anche il Discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005).
Giungiamo così al vero obiettivo di tutte le
precedenti riflessioni: cercare le vie di un nuovo accordo della
ragione e della libertà con il cristianesimo, ossia, come
è scritto nel titolo di questa relazione, proporre la
verità salvifica di Gesù Cristo alla ragione del nostro
tempo.
La risposta che J. Ratzinger – Benedetto XVI dà a
questo interrogativo è anzitutto quella di “allargare
gli spazi della razionalità”. La limitazione della
ragione a ciò che è sperimentabile e controllabile
è infatti utile, esatta e necessaria nell’ambito specifico
delle scienze naturali e costituisce la chiave dei loro incessanti
sviluppi. Se però viene universalizzata e ritenuta assoluta e
autosufficiente, una tale limitazione diventa insostenibile, disumana e
alla fine contraddittoria. In forza di essa infatti l’uomo
non potrebbe più interrogarsi razionalmente sulle realtà
essenziali della sua vita, sulla sua origine e sul suo fine, sul dovere
morale, sulla vita e sulla morte, ma dovrebbe lasciare questi problemi
decisivi a un sentimento staccato dalla ragione. Così
però la ragione viene mutilata e l’uomo viene diviso in se
stesso e quasi disintegrato, provocando la patologia tanto della
religione – che, staccata dalla razionalità, facilmente
degenera nella superstizione, nel fanatismo e nel fondamentalismo
– quanto della scienza, che si rivolge facilmente contro
l’uomo quando si distacca dall’etica e in concreto dal
riconoscimento del soggetto umano come colui che non può mai
essere ridotto a strumento (cfr Fede, pp.99 e 164-166).
Proprio la pretesa che l’unica realtà sia quella che
è sperimentabile e calcolabile porta del resto fatalmente a
ridurre il soggetto umano a un prodotto della natura, come tale non
libero e suscettibile di essere trattato come ogni altro animale:
si ha così un capovolgimento totale del punto di partenza
della cultura moderna, che consisteva nella rivendicazione
dell’uomo come soggetto e della sua libertà.
Analogamente, sul piano pratico, quando la liberta individuale che
non discrimina, per la quale in ultima analisi tutto è relativo
al soggetto, viene eretta a supremo criterio etico, essa finisce per
diventare un nuovo dogmatismo perché esclude ogni altra posizione,
che può essere lecita soltanto finché rimane subordinata
e non in contraddizione rispetto a questo criterio relativistico. In
tal modo vengono sistematicamente censurate le norme morali del
cristianesimo e viene rifiutato in partenza ogni tentativo di
mostrare che esse, o qualsiasi altre, hanno validità oggettiva
perché si fondano sulla realtà stessa dell’uomo:
diventa pertanto inammissibile l’espressione pubblica di un
autentico giudizio morale. Si è sviluppata così in
Occidente una forma di cultura che taglia deliberatamente le proprie
radici storiche e costituisce la contraddizione più radicale
non solo del cristianesimo ma delle tradizioni religiose e morali
dell’umanità (cfr L’Europa, pp. 34-55, e
il discorso di Regensburg).
Per mostrare come la limitazione della ragione a ciò che
è sperimentabile e calcolabile sia non solo carica di
conseguenze negative ma intrinsecamente contraddittoria, J.Ratzinger
concentra l’attenzione sulla struttura stessa e sui presupposti
della conoscenza scientifica e in particolare su quella posizione che
vorrebbe fare della teoria dell’evoluzione la spiegazione almeno
potenzialmente universale di tutta la realtà. Una
caratteristica fondamentale della conoscenza scientifica è
infatti la sinergia tra matematica ed esperienza, ossia tra le ipotesi
formulate matematicamente e la loro verifica sperimentale: questa
sinergia è la chiave dei risultati giganteschi e sempre
crescenti che si ottengono attraverso le tecnologie,operando con la
natura e mettendo al nostro servizio le sue immense energie.
La matematica come tale è però una creazione della
nostra intelligenza, il frutto puro e “astratto” della
nostra razionalità. La corrispondenza che non può non
esistere tra la matematica e le strutture reali dell’universo,
perché in caso diverso le previsioni scientifiche e le
tecnologie non funzionerebbero, pone dunque una grande domanda: implica
cioè che l’universo stesso sia strutturato in maniera
razionale, così che esista una corrispondenza profonda tra
la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura.
Diventa allora inevitabile chiedersi a quale condizione una tale
corrispondenza sia possibile e in concreto se non debba esservi
un’intelligenza originaria, che sia la fonte comune della natura
e della nostra razionalità. Così proprio la
riflessione sullo sviluppo delle scienze ci riporta verso il
Lógos creatore e viene capovolta la tendenza a dare il primato
all’irrazionale, al caso e alla necessità, riconducendo ad
esso anche la nostra intelligenza e la nostra libertà (cfr i
discorsi di Verona e di Regensburg, oltre che Fede, pp.
188-192).
Naturalmente una simile domanda e riflessione, pur partendo
dall’esame della struttura e dei presupposti della conoscenza
scientifica, va al di là di questa forma di conoscenza, al di
là delle scienze, e si pone al livello dell’indagine
filosofica: non si oppone dunque alla teoria dell’evoluzione,
finché questa rimane nell’ambito scientifico. Anche sul
piano filosofico, inoltre, il Lógos creatore non è
l’oggetto di una dimostrazione apodittica ma rimane
“l’ipotesi migliore”, un’ipotesi che esige da
parte dell’uomo e della sua ragione “di rinunciare a una
posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto
umile”. In concreto, specialmente nell’attuale clima
culturale, l’uomo con le sue sole forze non riesce a fare
completamente propria questa “ipotesi migliore”: egli
rimane infatti prigioniero di una “strana penombra” e delle
spinte a vivere secondo i propri interessi, prescindendo da Dio e
dall’etica. Soltanto la rivelazione, l’iniziativa di Dio
che in Cristo si manifesta all’uomo e lo chiama ad accostarsi a
Lui, ci rende pienamente capaci di superare questa penombra (cfr L’Europa,
pp. 115-124; 59-60, e il discorso di Regensburg).
Proprio la percezione di una tale “strana penombra” fa
sì che l’atteggiamento più diffuso tra i non
credenti non sia oggi l’ateismo – avvertito come qualcosa
che supera i limiti della nostra ragione non meno della fede in Dio
– ma l’agnosticismo, che sospende il giudizio riguardo a
Dio in quanto razionalmente non conoscibile. La risposta che
J.Ratzinger dà a questo problema ci riporta ulteriormente verso
la realtà della vita: a suo giudizio infatti
l’agnosticismo non è concretamente vivibile, è un
programma non realizzabile per la vita umana. Il motivo è che la
questione di Dio non è soltanto teorica ma eminentemente
pratica, ha conseguenze cioè in tutti gli ambiti della vita.
Nella pratica sono infatti costretto a scegliere tra due
alternative, già individuate da Pascal: o vivere come se Dio non
esistesse, oppure vivere come se Dio esistesse e fosse la realtà
decisiva della mia esistenza. Ciò perché Dio, se
esiste, non può essere un’appendice da togliere o
aggiungere senza che nulla cambi, ma è invece l’origine,
il senso e il fine dell’universo, e dell’uomo in esso.
Se agisco secondo la prima alternativa adotto di fatto una posizione
atea e non soltanto agnostica; se mi decido invece per la seconda
alternativa adotto una posizione credente: la questione di Dio è
dunque ineludibile (cfr L’Europa, pp. 103-114). È
interessante notare la profonda analogia che esiste, sotto questo
profilo, tra questione dell’uomo e questione di Dio: entrambe,
per la loro somma importanza, vanno affrontate con tutto il rigore
e l’impegno della nostra intelligenza, ma entrambe sono sempre
anche questioni eminentemente pratiche, inevitabilmente connesse con le
nostre concrete scelte di vita.
A questo punto siamo in grado di comprendere meglio il tipo di
approccio teologico, ma anche pastorale, di Benedetto XVI. Egli dedica
grande attenzione al rapporto della fede con la ragione e alla
rivendicazione di verità del cristianesimo. Fa questo
però in un modo che non è affatto razionalistico. Al
contrario, egli ritiene che sia fallito il tentativo della
neoscolastica di voler dimostrare la verità delle premesse della
fede (i “praeambula fidei”) mediante una ragione
rigorosamente indipendente dalla fede stessa e che siano destinati a
fallire altri eventuali tentativi analoghi, come d’altra parte
è fallito il tentativo opposto di K. Barth di presentare la fede
come un puro paradosso, che può sussistere soltanto in totale
indipendenza dalla ragione (cfr Fede, pp. 141-142).
In concreto, dunque, la via che conduce a Dio è Gesù
Cristo, non solo perché soltanto in Lui possiamo conoscere il
volto di Dio, il suo atteggiamento verso di noi e il mistero stesso
della sua vita intima, cioè del Dio unico e assoluto che
esiste in tre Persone totalmente “relative” a vicenda
– di questo mistero non sono state ancora enucleate tutte le
implicazioni sia per la nostra vita sia per la stessa conoscenza di
Dio, dell’uomo e del mondo –, ma anche perché
soltanto nella croce del Figlio, nella quale si mostra nella sua forma
più radicale l’amore misericordioso e solidale di Dio per
noi, può trovare una risposta, misteriosa ma convincente, il
problema del male e della sofferenza, che da sempre – ma con
forza nuova nella nostra epoca “umanistica” –
è la fonte del dubbio più grave contro l’esistenza
di Dio. Perciò la preghiera, l’adorazione che apre al
dono dello Spirito e rende liberi il nostro cuore e la nostra
intelligenza, è dimensione essenziale non solo della vita
cristiana ma della conoscenza credente e del lavoro del teologo (cfr
discorso di Verona; Introduzione,pp. 135-146; Prolusione del
1959 all’Università di Bonn).
Non per puro gusto personale, dunque, Benedetto XVI sta usando
“tutti i momenti liberi” per portare avanti il suo libro Gesù
di Nazareth, di cui pubblicherà tra breve la prima parte e
ha già reso pubblici stralci della prefazione e
dell’introduzione. La separazione tra il “Cristo della
fede” e il reale “Gesù storico”, che
l’esegesi basata sul metodo storico-critico sembra aver reso
sempre più profonda, costituisce per la fede una situazione
“drammatica”, perché “rende incerto il suo
autentico punto di riferimento”.
Perciò J.Ratzinger – Benedetto XVI si è dedicato a
mostrare che il Gesù dei Vangeli e della fede della Chiesa
è in realtà il vero “Gesù storico”, e
fa questo impiegando il metodo storico-critico, di cui riconosce
volentieri i molteplici risultati positivi, ma andando anche al di
là di esso, per porsi in una prospettiva più ampia, che
consenta un’interpretazione della Scrittura propriamente
teologica, e che pertanto richiede la fede senza rinunciare per questo
alla serietà storica (cfr gli stralci pubblicati della
prefazione). Si tratta cioè, come per le scienze empiriche
così per la critica storica, di “allargare gli spazi della
razionalità”, non consentendo che esse si chiudano in se
stesse e si pongano come autosufficienti (cfr Fede, pp.
136-142, e anche 194-203; Introduzione, pp. 149-180).
Questo tipo di approccio a Gesù Cristo rimanda chiaramente al
ruolo della Chiesa e della tradizione apostolica nella trasmissione
della rivelazione. Al riguardo J.Ratzinger non solo sostiene
l’origine della Chiesa da Gesù stesso e la sua intima
unione con Lui, incentrata nell’ultima Cena e
nell’Eucaristia (cfr Il nuovo popolo di Dio, ed.
Queriniana, pp. 83-97), ma lega intrinsecamente la rivelazione con
la Chiesa e la tradizione. Infatti la rivelazione è anzitutto
l’atto con cui Dio si manifesta, non il risultato oggettivato
(scritto) di questo atto. Per conseguenza, del concetto stesso di
rivelazione fa parte anche il soggetto che la riceve e la comprende
– in concreto, la Chiesa –, dato che se nessuno percepisse
la rivelazione nulla sarebbe stato svelato, nessuna rivelazione sarebbe
avvenuta.
Perciò la rivelazione precede la Scrittura e si riflette in
essa, ma non è semplicemente identica ad essa, è sempre
più grande di essa. Non può quindi esistere un puro
“sola Scriptura”: la Scrittura stessa è legata al
soggetto che accoglie e comprende sia la rivelazione sia la Scrittura,
ossia alla Chiesa. Con ciò è dato anche il significato
essenziale della tradizione (cfr La mia vita,pp. 72; 88-93). Questo
è anche il motivo profondo del carattere ecclesiale della fede,
o meglio dell’intrecciarsi indissolubile dell’
“io” e del “noi”, della dimensione personale ed
ecclesiale, nell’atto del credere che si rapporta al
“Tu” di Dio che si rivela a noi in Gesù Cristo
(cfr Introduzione, pp. 53-64), oltre che il motivo
dell’insufficienza di un’esegesi puramente storico-critica.
La via proposta per rendere di nuovo convincente il
cristianesimo rimane comunque, oggi come agli inizi e come lungo
tutta la sua vicenda storica, quella “dell’unità tra
verità e amore nelle condizioni proprie del nostro tempo”.
È questo il significato del “grande
«sì» che in Gesù Cristo Dio ha detto
all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra
libertà e alla nostra intelligenza” e che attraverso la
testimonianza dei cristiani deve essere reso visibile al mondo
(discorso di Verona). In concreto, come allargando gli spazi della
nostra razionalità e riaprendola alle grandi questioni del vero
e del bene diventa possibile “coniugare tra loro la teologia, la
filosofia e le scienze” – sia naturali sia storiche –
“nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca
autonomia” (ibidem), così, a livello del vissuto e
della prassi, nel contesto attuale è particolarmente
necessario mettere in evidenza la forza liberatrice del cristianesimo,
il legame che unisce fede cristiana e libertà, e nello stesso
tempo far comprendere come la libertà sia intrinsecamente
connessa all’amore e alla verità.
L’uomo come tale, infatti, è certamente un essere
“se stesso”, consapevole e libero, ma è altrettanto
essenzialmente un essere “da”, “con” e
“per”, necessariamente aperto e riferito agli altri:
perciò la sua libertà è intrinsecamente legata al
criterio della realtà – cioè alla verità
– ed è libertà condivisa, libertà che si
realizza nell’essere insieme di molte libertà, che si
limitano ma anche si sostengono reciprocamente, libertà pertanto
che si edifica nella carità (cfr Fede, pp. 260-264 e
più in generale 245-275).
La Dichiarazione sulla libertà religiosa del Concilio
Vaticano II ha rappresentato da questo punto di vista un decisivo
passo in avanti, perché ha riconosciuto e fatto proprio un
principio essenziale dello Stato moderno, senza per questo cedere al
relativismo, ma riscoprendo invece e attualizzando il patrimonio
più profondo del cristianesimo (cfr discorso alla Curia
Romana del 22 dicembre 2005).
Nella situazione attuale dell’Occidente la morale cristiana
sembra comunque divisa in due parti. Una di esse riguarda i grandi temi
della pace, della non violenza, della giustizia per tutti, della
sollecitudine per i poveri del mondo e del rispetto del creato: questa
parte gode di un grande apprezzamento pubblico, anche se rischia di
essere inquinata da un moralismo di stampo politico. L’altra
parte è quella che si riferisce alla vita umana, alla famiglia e
al matrimonio: essa è assai meno accolta a livello pubblico,
anzi, costituisce un ostacolo molto grave nel rapporto tra la Chiesa e
la gente.
Nostro compito, allora, è anzitutto far apparire il
cristianesimo non come un semplice moralismo, ma come amore che ci
è donato da Dio e che ci dà la forza per “perdere
la propria vita”, e anche per accogliere e vivere quella legge di
vita che è l’intero Decalogo. Così le due
“parti” della morale cristiana potranno essere ricongiunte,
rafforzandosi reciprocamente, e così i “no” della
Chiesa a forme deboli e deviate di amore potranno essere compresi come
dei “sì” all’amore autentico, alla
realtà dell’uomo come è stata creata da Dio
(cfr discorso ai Vescovi svizzeri del 9novembre 2006; discorso di
Verona; L’Europa, pp. 32-34): il Messaggio per la
Giornata Mondiale della Pace 2007 si muove proprio in questa direzione.
L’intero approccio antropologico ed etico del cristianesimo, il
suo modo di comprendere la vita, la gioia, il dolore e la morte, trova
però la sua legittimità e la sua consistenza soltanto in
quella prospettiva di salvezza storica ma soprattutto escatologica che
è stata aperta dalla risurrezione di Cristo (cfr Discorso di
Verona): sui temi della morte, della risurrezione e
dell’immortalità, che non possiamo toccare qui,
J.Ratzinger ha scritto il libro Escatologia morte e vita eterna,
ed. Cittadella 1979.
Finora la nostra attenzione si è concentrata sul rapporto tra la
fede cristiana e la cultura secolarizzata dell’Occidente moderno
e “post-moderno”, vittima di uno strano “odio di
sé”, che va di pari passo con il suo allontanarsi dal
cristianesimo. J.Ratzinger – Benedetto XVI però non
perde assolutamente di vista un orizzonte assai più largo,
quello dei rapporti con le altre culture e religioni del mondo, ai
quali ha dedicato anzi buona parte della sua riflessione, specialmente
negli anni recenti.
Il concetto chiave a cui egli ricorre è quello di incontro
delle culture, o “interculturalità”, differente sia
dall’inculturazione, che sembra presupporre una fede
culturalmente spoglia che si traspone in diverse culture religiosamente
indifferenti, sia dalla multiculturalità, come semplice
coesistenza – auspicabilmente pacifica – di culture tra
loro diverse. L’interculturalità “appartiene
alla forma originaria del cristianesimo” e implica sia un
atteggiamento positivo verso le altre culture, e verso le religioni che
ne costituiscono l’anima, sia quell’opera di purificazione
e quel “taglio coraggioso” che sono indispensabili per ogni
cultura, se vuole davvero incontrare Cristo, e che diventano per essa
“maturazione e risanamento” (cfr Fede, pp. 66 e
89, il discorso di Verona e in particolare il dialogo del 19 gennaio
2004 tra J. Ratzinger e J. Habermas, pubblicato in Etica, religione
e Stato liberale, ed. Morcelliana 2005). Così proprio il
cristianesimo può aiutare l’Occidente ad annodare i fili
di quel nuovo e positivo incontro con le altre culture e religioni di
cui oggi il mondo ha estremo bisogno, ma che non può costruirsi
sulla base di un radicale secolarismo.
Di fronte alla grandezza in qualche modo “eccessiva” di
questi compiti, J.Ratzinger – Benedetto XVI non è certo la
persona che tenda a farsi illusioni sull’attuale stato di salute
della Chiesa cattolica e più in generale del cristianesimo. Egli
è sicuro però che “chi crede non è mai
solo”, come ha continuamente ripetuto nel suo viaggio in Baviera,
e anche che la nostra fede ha sempre “una sua possibilità
di successo”, perché essa “trova corrispondenza
nella natura dell’uomo”, creato per incontrarsi con Dio
(Fede, pp. 142-143). Questa certezza sostenga anche la nostra
vita e la nostra fatica di ogni giorno.
Questi appunti, presi velocemente durante la discussione,
non sono stati ovviamente rivisti dall’autore. Come tutti gli appunti
non rispecchiano espressamente le parole dell’autore, ma sono “inquinati”
da colui che li ha presi. Li riportiamo solo allo scopo di rendere evidente
la ricchezza della discussione che è seguita alla relazione e di conservarne
memoria.
D. Quale è la differenza di accenti fra ciò che Lei ha
esposto e la posizione del Vaticano I sul tema della razionalità?
R. E’ una cosa che ha colpito sempre anche me che ci sia uno spostamento
di accenti fra il Vaticano I (e soprattutto il giuramento anti-modernista) e
la posizione di Benedetto XVI nell’analisi della “razionalità”
del cristianesimo (Benedetto XVI ne ha parlato nel suo intervento del 1 aprile
a Subiaco). Già una prima modifica c’è stata con l’Humani
generis di Pio XII. Lì si mette molto più l’accento sulle
disposizioni morali come qualcosa che condiziona la conoscenza stessa.
Dire che l’ipotesi del Logos è l’ipotesi migliore vuol dire
riconoscere che i ragionamenti non sono costringenti, non sono apodittici, ma
lasciano ampio margine alla libertà. Dal punto di vista della ragione,
resta un´ “ipotesi”. Ma certo dire che è l’ipotesi
migliore vuol dire affermare che è consistentissima razionalmente. A
Subiaco il Papa ha voluto mostrare come l’ipotesi contraria sia contraddittoria.
La ragione, comunque, non agisce mai da sola, se siamo uomini. Cambia molto
per la persona se Dio c’è o non c’è. La ragione non
può procedere da sola. Non è una ragione “debole”,
ma è una ragione implicata esistenzialmente. Si può vedere ciò
che Paolo dice in Rom1: i pagani hanno conosciuto Dio, ma non lo hanno riconosciuto.
Si afferma un legame fra ragione, libertà e grazia. Nel libro di Antiseri,
Fede e razionalità, il filosofo Antiseri ha voluto pubblicare una mia
“critica” su questo tema, senza commentarla ulteriormente.
D. Lei ha parlato della Rivelazione che implica la Chiesa?
R. Certo, c’è una connessione fra rivelazione e soggetto.
Così c’è anche una connessione fra il ricevere del soggetto
e l’essere cambiato interiormente. “Io” e “non più-io”
è un’espressione usata più volte dal Papa. E’ lo Spirito
che parla nel cuore dell’uomo che ha accolto la rivelazione.
D. L’Agape, nella fede cristiana, abita nel Logos, ma anche viceversa...
R. Giovanni Paolo II ha mostrato il legame fra l’amore sponsale
e la vita “interna” di Dio stesso. In Deus Caritas est si afferma
che non dobbiamo essere idealisti nel trattare dell’amore umano. Questo
suppone, invece, una profonda purificazione del nostro amore umano. Sant’Agostino
ha più volte mostrato come le forme dell’amore fra uomo e donna
possono facilmente deviare, deviare in una forma di passione che svilisce l’amore.
D. Può approfondire come questa tematica del Gesù storico
si ponga oggi nella teologia?
R. Benedetto XVI sottolinea i problemi di questa dicotomia fra Gesù
storico e Cristo della fede. E’ proprio di questi giorni la pubblicazione
in italiano di un libro di Berger – non voglio qui commentarlo ora –
che ha una direzione analoga a quello del Papa in un suo aspetto: esprime fortemente
la necessità di superare il solo “canone” del metodo storico-critico.
Possiamo domandarci: ma è possibile che sia il Papa a dover scrivere
un libro così? Non dovrebbero farlo gli esegeti insieme ai teologi? Perché
è chiaro che è inutile parlare dei dogmi cristologici, se non
c’è una corrispondenza con il Gesù storico. Tutto questo
pone un grande problema alla teologia ed all’esegesi cattolica ed anche
a noi preti: lo affrontiamo correttamente con i giovani? Quando incontravo,
da giovane prete, i giovani utilizzavo il metodo storico-critico, in questa
prospettiva teologica più ampia. Erano interessatissimi. Le domande che
ci appaiono “sciocche” le avevano e le facevano: Ma cosa possiamo
sapere storicamente, ma chi è storicamente la Maddalena, ecc. ecc. Il
successo di libri che negano radicalmente la fede cristiana si radica in questo
desiderio di conoscere veramente il Gesù storico.
D. Il Papa ha parlato spesso di questo Occidente che “odia se stesso”...
R. L’Occidente che odia se stesso ci appare non solo nella disistima
nei confronti della vita e della famiglia, ma anche nel non avere stima di se
stesso in ciò che ha prodotto culturalmente e nell’aprirsi acriticamente
ad altre culture. E’ evidente una differenza fra le culture primitive
e la civiltà occidentale nella sua grandezza, nella sua valorizzazione
della fede e della ragione, dell’amore e della libertà. Già
Spengler – siamo negli anni della I guerra mondiale – aveva scritto
un volume dal titolo Il tramonto dell’Occidente.
D. Ed il darwinismo...
R. Noi non rigettiamo il darwinismo come teoria scientifica. Una cosa
è affermare che l’uomo ha origine dai primati, un’altra che
la sua libertà abbia la stessa origine. La fede ha sempre affermato che
l’uomo, in quanto spirito, ha origine da Dio. Soprattutto: una cosa è
la spiegazione del passaggio, una cosa è farne la filosofia prima, farne
un principio autosufficiente. La domanda è: l’essere umano è
innanzitutto materiale o è spirituale? Se noi osserviamo la razionalità
umana ci accorgiamo che i nostri concetti funzionano. Ma la ragione non è
un epifenomeno, non è una conseguenza dell’evoluzione. Quando scrissi
nel ’93 un piccolo libretto su questo tema, molti scienziati rimasero
colpiti. La scienza si imbatteva in un problema meta-scientifico che, però,
non poteva essere preso alla leggera.
D. L’uomo può conoscere solo la storia?
R. L’eccessiva focalizzazione sulla storia (vedi Vico) nasconde
un problema, il rischio di una forma di riduzionismo. Se si dice: posso conoscere
solo ciò che ho fatto, questo è un vicolo che conduce a dire che
Dio è irrazionale. Certo Dio è storico, ma è anche meta-storico.
Se non sono disposto ad ammettere che l’uomo può conoscere anche
ciò che è meta-storico, ogni via alla fede è preclusa a
priori. Non erano queste le intenzioni dei filosofi che hanno aperto la strada
a questo. Cartesio non voleva distruggere la metafisica (infatti ha scritto
la sua).
D. Come parlare dell’antropologia dinanzi alla scienza?
R. La domanda è: se non c’è Dio, da dove vengono
la libertà e la razionalità? Sono solo pulsioni raffinate dalla
conoscenza empirica, ma niente di più?
Kasper, in Gesù il Cristo, ha giustamente scritto che se Dio non c’è
sono impossibili la libertà e la razionalità e l’uomo, nel
suo specifico, viene a sparire.
D. Non c’è un rischio di intellettualismo?
R. Qualcuno potrebbe dire che il discorso di Benedetto XVI accentua indebitamente
l’insistenza sulla cultura. Ma è proprio Benedetto XVI che mostra
quanto l’opposizione Bibbia-cultura sia infondata. Il Papa ci indica la
via per superare il biblicismo. Infatti, ricava i suoi concetto dalla Scrittura.
Vediamo il Logos, dal Nuovo – e dall’Antico Testamento! E’
da lì che vengono i termini del discorso. Ed era chiaro fin dalla Prolusione
di Bonn alla quale ho fatto riferimento più volte. La Bibbia fa cultura!
D. E la soteriologia oggi?
R. E’ importante il nesso fra antropologia e soteriologia. Ma il
concetto di salvezza deve oggi essere ritradotto pastoralmente. Habermas ha
affermato che la crisi del cristianesimo si esprime oggi nella crisi dei concetti
di grazia e di salvezza.
La grazia ci richiama alla salvezza come dono gratuito. Magari il nostro mondo
fosse pelagiano. E’ super-pelagiano!!! Non pensa che la salvezza venga
da Dio. E’ stato il rischio delle teologie della liberazione: il presentare
una salvezza tutta in senso infra-storico. Certo già San Tommaso ha detto
di aver superato Sant’Agostino. Tommaso ha accentuato la riflessione sulle
cause seconde, in polemica con la filosofia araba del tempo. Il fuoco brucia
non perché Dio lo fa bruciare. Ma la via di Tommaso era una “media
via”. Per lui le cause seconde non sono autosufficienti. E’ vero
che non dobbiamo esautorare le medicine. Ma è anche vero che dobbiamo
affermare che l’uomo è capax Dei e che non trova riposo se non
in Dio.
D. Lei ha utilizzato l’espressione “stato di salute”
della Chiesa...
R. Se riflettiamo sullo “stato di salute” della Chiesa ci
torneranno certo in mente le parole dell’allora cardinal Ratzinger durante
l’ultima Via crucis di Giovanni Paolo dove parlò di “sporcizia
nella Chiesa”, di problemi nascosti e di problemi che si vedono. Pensiamo
ai “teologi opinantes”, alla debolezza del clero, ecc. ecc. E’
indicativo che si sia dovuto scrivere un documento come la Dominus Iesus per
dire che Gesù è l’unico Salvatore. Questa è la verità
primordiale del cristianesimo! Più enfatizzata ancora nel Nuovo Testamento
del tema della divinità di Cristo! Era ed è ovvio che Gesù
è l’unico salvatore. Ma questo è messo in discussione. Se
vediamo la situazione teologica di alcune Università del mondo protestante
la situazione è ancora più delicata. Ma, insieme alla zizzania,
cresce il grano. Pensate che c’è stato un aumento di 300 claustrali
in Italia nel 2005.
D. Come capire l’adorazione?
R. Il riferimento all’adorazione non va inteso immediatamente nel
senso dell’adorazione eucaristica. Dobbiamo riscoprire cosa voglia dire
“adorare Dio”. Un Dio che non è solo il Dio amico. E’
anche il Dio trascendente, il Dio terribile, altrimenti diventa una caricatura
di Dio.
D. Cosa possiamo dire del tema della libertà, in rapporto ai giovani?
R. I giovani perdono la libertà aderendo a Cristo? Questa è
la sfida più grande. Non si può affrontarla senza aiutare i giovani
a riflettere in maniera più approfondita. Non possiamo affrontare questi
problemi in maniera superficiale.