Mettiamo a disposizione on-line la trascrizione della conferenza
tenuta dal prof. Lettieri, presso la parrocchia di san Mattia in Roma, il 22
aprile 2005. Essa è stata preceduta, all’interno dello stesso ciclo,
da una prima conferenza, anch’essa disponibile su questo sito, dal titolo
La ricerca di sé e la ricerca della verità
in sant’Agostino.
Gli incontri culturali tenuti presso la parrocchia di San Mattia in Roma sono organizzati da d.Mario Pio
Biasin.
Gaetano Lettieri è professore di Storia del cristianesimo presso la Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università La Sapienza di Roma.
Il presente testo non è stato rivisto dal suo autore e conserva lo stile discorsivo, tipico di una
relazione orale. I titoli ed i neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura
on-line.
Per un approfondimento della prospettiva del prof.Lettieri non possiamo che
rimandare ai suoi ponderosi studi. In particolare, per una riflessione sulla
dottrina della grazia agostiniana, a G.Lettieri, L’altro Agostino.
Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi del De doctrina
christiana, Morcelliana, Brescia, 2001, per uno studio del De doctrina christiana,
interrotto da Agostino nel 397 e ripreso alla fine della sua vita, in una prospettiva
illuminata dalla dottrina della Grazia. Il De doctrina christiana incompiuto
è il culmine del platonismo cristiano del primo Agostino, dell’Agostino
umanista apologeta del libero arbitrio. Seguirà, a partire dall’Ad
Simplicianum che il Lettieri ritiene cronologicamente successivo al De doctrina
christiana poiché è l’opera che inaugura la teologia dell’altro
Agostino, l’Agostino maturo che considera la peccaminosa impotenza della
libertà umana e la predestinata, onnipotente grazia indebita di Dio.
È l’Agostino del De Trinitate, delle Confessioni, del De civitate
Dei, ma anche delle opere anti-pelagiane. Sul De civitate Dei, l’opera
maggiore del nostro autore è: G.Lettieri, Il senso della storia in
Agostino d’Ippona. Il “saeculum” e la gloria di Dio nel De
civitate Dei, Edizioni Dehoniane Roma, 1988. Le dispute agostiniane del
XVII secolo sono analizzate in G.Lettieri, Il metodo della grazia. Pascal
e l’ermeneutica giansenista di Agostino, Edizioni Dehoniane Roma,
1999.
Il Centro culturale Gli scritti (27/7/2007)
Questo bellissimo titolo vi devo dire che non è mio; deriva da un accordo fra me e don
Mario Pio nel senso che indubbiamente riesce a cogliere alcuni aspetti di questa opera agostiniana e quindi ha un
merito sintetico. Vorrei proprio iniziare da questo, dalla paradossale gioia; mi pare davvero
un’espressione felice nel senso che le Confessioni - questo che è un capolavoro della letteratura
cristiana di tutti i tempi, forse il libro più importante non solo dell’età patristica ma di
tutta la letteratura cristiana - è davvero in fondo un’opera paradossale.
Noi abbiamo già dedicato un incontro a dire qualcosa di Agostino, come al solito qualcosa di
inadeguato, quindi mi posso risparmiare noiose precisazioni dal punto di vista della biografia, della interpretazione
teologica controversa che la figura di Agostino ha suscitato: non posso però evitare di precisare un attimino
un dato storico perché – voglio dire - molti di voi avranno letto le Confessioni ma la cosa
interessante è avere – ed è forse questo il senso di questa chiacchierata molto rapida - una
chiave di interpretazione di questa opera perché le Confessioni, che penso sia l’opera più
letta ovviamente al di fuori delle Scritture, è un opera difficilissima ed in fondo è molto complesso
ed ardito il disegno stesso, la struttura stessa di quest’opera.
Allora cominciamo da questo: è un opera che si caratterizza per essere la prima grande autobiografia di
tutti i tempi sostanzialmente. In fin dei conti le Confessioni inventano il genere
autobiografico; c’è qualche anticipazione ad esempio di Cipriano ma lasciamo perdere, è la
prima vera autobiografia della letteratura mondiale.
Quando uno pensa ai Pensieri di Marco Aurelio se li legge, nota l’assoluto abisso che
separa i due tipi d’opera: le Confessioni è quindi un’autobiografia
teologicamente arditissima perché sorretta su una dottrina - della quale parlammo in modo delicato nella
scorsa lezione - della Grazia indebita e della Grazia predestinata. Quindi vedete è un’autobiografia
nella quale non solo sant’Agostino racconta sé stesso e la sua vita, ma vede la sua vita a partire da
una dottrina davvero paradossale e davvero arditissima addirittura, poi del tutto innovativa all’interno della
tradizione teologica dei primi secoli della storia della chiesa e anche questo è un altro problema su cui
dovremmo magari rapidamente soffermarci.
Non soltanto, dal punto di vista della struttura i primi nove libri dell’opera sono dedicati a raccontare la
vita di Agostino fino alla sua conversione e al battesimo, il decimo libro racconta il presente di
Agostino ed è quindi ancora un libro in qualche modo autobiografico (Agostino è ormai vescovo di
Ippona) ed al tempo stesso comincia a sviluppare una complicatissima indagine straordinaria sulla memoria, sul
mistero della memoria che è proprio di ogni uomo.
Gli ultimi tre libri, al contrario, sono testi di esegesi dedicati alla interpretazione dei primi versetti della
creazione del libro della Genesi - esegesi assolutamente complessa, ardita lo ripeto, esegesi veramente di
difficile interpretazione in cui ad ogni versetto viene dedicata un’analisi accuratissima. Vi faccio un
esempio: sono proprio i primi versetti quelli relativi alla creazione del mondo quelli che reggono il tema
dell’undicesimo libro, che è il tema del tempo.
A partire da questi versetti che raccontano la creazione, Agostino scrive quello che è il capolavoro di tutti
i tempi dedicato all’indagine filosofica del problema del tempo - Husserl ad esempio considerava
l’indagine filosofica dell’undicesimo libro delle Confessioni come ineguagliata a livello di
rigore filosofico. Il dodicesimo libro tratta degli angeli continuando l’analisi
dell’Esamerone del racconto della creazione della Genesi.
L’ultimo libro tratta dello Spirito Santo che si librava sulle acque, ma ancora all’interno del
commento dei versetti della Genesi. Allora si crea un’anomalia evidente in quest’opera: abbiamo
una sezione autobiografica (primi dieci libri e nel decimo peraltro si avvia già una complessa analisi
filosofica sul problema della memoria) e gli ultimi tre libri sono al contrario dedicati ad un’operazione
esegetica estremamente complessa e sofisticata.
Molti studiosi fino a pochi anni fa, si sono interrogati sulla incoerenza dell’opera di sant’Agostino
perché in sostanza dal punto di vista della composizione letteraria quest’opera non tiene;
cioè noi avremmo uno squilibrio tra la parte autobiografica e quella esegetica od ermeneutica ma
è evidente che Agostino con il suo genio letterario, filosofico e teologico non ha visto alcuno
squilibrio (vi sono anche a riguardo delle interpretazioni – non ve le riferisco perché sono davvero
un tantino troppo raffinate - che insistono su alcune strutture numeriche, su strutture simboliche che reggerebbero
l’articolazione dell’opera) ma quello che vi voglio far capire in realtà è che è
proprio la novità dell’autobiografia, la novità di scrivere un’opera di teologia
raccontando sé stessi, che spiega l’anomalia dell’opera; cioè la struttura dell’opera
non è affatto casuale ed appiccicaticcia nei suoi due blocchi.
La struttura dell’opera è questa: Agostino racconta la sua vita, scorge nella sua vita una forza di
dissipazione e al tempo stesso una forza di unificazione e di conversione che è la Grazia divina. Una
volta che approda alla conversione definitiva e al battesimo addirittura al ruolo di vescovo è in grado di
cantare le lodi della creazione (e qui passiamo all’ultima parte dell’opera) interrogandosi sulla
volontà divina, sulla sua rivelazione all’interno della creazione stessa e quindi approda negli
ultimi tre libri alla definizione della dottrina della verità divina e cioè di un Dio che è
creatore e redentore ovvero (ed ecco l’importanza dell’ultimo libro) Spirito, Grazia indebita che come ha
creato il mondo così sottrae Agostino dal peccato e lo conduce alla salvezza.
Allora da questo punto di vista: perché alla fine di un’opera autobiografica dedicarsi all’analisi
della creazione, all’interpretazione del racconto della creazione del libro della Genesi? Perché
in qualche modo la creazione è l’analogia, o il simbolo della redenzione. E racconta che cosa?
Racconta e descrive l’assolutezza di Dio che trae dal nulla le creature e quindi è la chiave di
interpretazione di Dio che ha tratto dal nulla del peccato e della perversione Agostino. Voi vedete dunque al
contrario di quanto sostengono molti critici che quest’opera è estremamente lucida nella costruzione;
è il passaggio, appunto, dalla descrizione dell’esistenza (della biografia di Agostino) alla descrizione
– tramite le Scritture che sono la Rivelazione di Dio – del segreto profondo ed eterno
dell’esistenza dell’uomo. E ovviamente questo segreto profondo ed eterno dell’esistenza
dell’uomo non può che essere rappresentato (raccontato è forse il termine più opportuno)
come appunto racconto di creazione e di creazione dal nulla.
Io vi ho portato il testo e vi leggerò qualche brano per riuscire a provarvi queste indicazioni di lettura che
vi sto proponendo. Come iniziano le Confessioni? Forse ne ho già parlato ma c’è quella frase
celeberrima Et inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te! La dico in latino non per un vezzo ma
perché è infinitamente più bella; nel testo latino si coglie benissimo la tensione fra
l’inquietudine (et inquietum) e il requiescere (donec
requiescat in Te!). Noi dovremmo dire: ed inquieto è il nostro cuore fino a quando non trovi
“requie” in Te! Il verbo latino è molto più denso e noi dobbiamo in qualche modo
scomporlo; ma che cosa è però la quiete per Agostino?
La quiete non è l’Eterno, la Verità Divina, è l’Amore, la
Caritas Divina cioè lo Spirito Santo. Nel tredicesimo libro, l’ultimo delle
Confessioni, noi troviamo proprio dei paragrafi (il quinto e il sesto del quinto e sesto capitolo) nei quali
si descrive lo Spirito Santo come quiete ma lo Spirito Santo è quiete in quanto mette in movimento
l’Amore dell’uomo; la caratteristica dello Spirito Santo è quella di essere una “quiete
dinamica”; in qualche modo lo Spirito Santo accende cioè opera un movimento di inquietudine che è
quella santa inquietudine di cui Agostino ha parlato all’inizio dell’opera.
Vi faccio presente che quando il Benedetto XVI ha parlato (nel suo discorso ai cardinali) di santa
inquietudine in realtà citava Agostino come le prime parole pronunciate dal Papa sono proprio un vero
programma teologico agostiniano: “Sono uno strumento insufficiente nelle mani potenti di Dio” - lo
dico perché Ratzinger nasce come studioso di Agostino, io ho letto le sue prime opere che sono di gran livello
e l’agostinismo ne permea la visione teologico-dogmatica, come dire che con questo Papa di Agostino ne
sentiremo ancora molto parlare come punto di riferimento indispensabile della fede cristiana.
In questo senso dal primo all’ultimo libro, dalla prima frase, quella decisiva che apre il primo paragrafo del
primo libro delle Confessioni, alla definizione dello Spirito Santo all’inizio del tredicesimo libro, vediamo
il tema dell’opera: l’inquietudine della creatura, inquietudine esistenziale, la comprensione
progressiva però che l’inquietudine della creatura è tale proprio in quanto vi è una forza
trascendente che la muove, l’affatica, la travaglia, la spinge a stancarsi di tutto a non trovare
“requie” in nulla perché solo Dio è la vera Requie
dell’uomo cioè il vero riposo.
Spinge Agostino alla conversione, alla formulazione di una dottrina della giustificazione ovvero della salvezza
assolutamente paradossale – torniamo al titolo della nostra conferenza - che lega l’onnipotenza e la
Grazia divina all’assoluta incapacità dell’uomo di volere il bene in sé stesso - quindi
l’uomo è di per sé insufficiente, inutile, incapace di muoversi verso Dio; ma al contrario
è sempre e solo attratto dal peccato - una complessa ed articolata dottrina teologica sullo Spirito Santo
come Dono. Agostino dice che Donum è il nome fondamentale per capire che cosa sia lo Spirito
Santo all’interno della Trinità: è il dono reciproco di Padre e Figlio, è il dono che Dio
dà alle sue creature con la sua Grazia, ed infine questi libri esegetici sul racconto della creazione che ci
spiegano come la Grazia di Dio e cioè la salvezza che noi riusciamo ad attingere, grazie appunto allo Spirito
Santo sia una Grazia che crea dal nulla dei nostri meriti, dal nulla delle nostre capacità e delle nostre
opere il dono miracoloso della salvezza.
E’ una dottrina teologica – voi lo capite - per molti aspetti terribile, fortemente antiumanistica;
è un opera nella tradizione cristiana che mette in crisi la capacità dell’uomo in quanto libero,
creato da Dio e naturalmente portato ad orientarsi su sé stesso, uomo che ha una sua intrinseca ed
inalienabile dignità - cito tematiche dell’umanesimo cristiano. Ecco dunque, questa è un opera
radicalmente antiumanistica. Ma che cosa è l’uomo di per sé? Soltanto peccato. È soltanto
volontà perversa di affermare sé stesso persino quando cerca Dio. Lo vedremo perché Agostino di
questo parla: l’unica speranza per l’uomo è un dono assolutamente immeritato che lo strappa dal
peccato con una forza, santa violenza e bellezza irresistibile.
Leggere le Confessioni – ed è per questo che vi dicevo che questo incontro ha senso se riesco a
darvi una chiave di interpretazione – ha senso se lo leggiamo non soltanto come libro edificante, con
qualche spunto o tratto più o meno interessante e ci sono tantissime pagine davvero indimenticabili che hanno
forgiato la cultura occidentale anche letteraria: Rousseau che scrive le Confessioni, Baudelaire che
è fortemente condizionato dalla tradizione agostiniana del Giansenismo, Petrarca con il Secretum (i
riferimenti potrebbero essere infiniti) e tutta la cultura medievale che trasuda agostinismo, da Anselmo alla
tradizione francescana, allo stesso san Tommaso d’Aquino che, a livello della teologia della Grazia, rimane
sostanzialmente agostiniano.
Ma quest’opera, vi dicevo quindi, non è soltanto un serbatoio di pagine indimenticabili, è
proprio un libro straordinario se noi lo cogliamo, se lo sappiamo leggere e ricostruire in tutta la sua eversiva
novità, in tutta la fatica che impone oggi ad un lettore moderno; è un libro inquietante,
massimamente inquietante ed edifica attraverso una radicale inquietudine tendendo anche a respingere il lettore e non
soltanto ad attrarlo. Per molti aspetti è anche un libro sublime che esalta annientando, negando
perché recupera quella che per Agostino è l’azione di Dio: il Dio di Agostino è un Dio che
elegge ma l’elezione che è un’elezione gratuita, di Grazia può essere davvero colta
unicamente se l’uomo vive fino in fondo l’alienazione del peccato e l’incapacità di vivere
davvero un rapporto di comunione con Dio.
Se ha senso questo nostro incontro – permettetemi di dirlo, forse è un po’ troppo ambizioso da
parte mia - è l’ invito a tornare a leggere le Confessioni come un opera
altamente drammatica - vorrei dire addirittura come un opera non religiosa, non pia - cioè è la
descrizione di un corpo a corpo tra l’uomo e Dio ed è ciò che rende
questa opera indimenticabile. Per questo grandi filosofi anche contemporanei continuano a leggere le
Confessioni, continuano a considerarla come un opera ineguagliabile, inarrivabile.
Già ve ne parlai, ma un filosofo che amo moltissimo, morto proprio nell’ottobre dello scorso anno,
J.Derrida, considera le Confessioni come un’opera chiave della storia della filosofia. Non a caso la
mette insieme all’Ecce homo di Nietzsche, anticristiano per eccellenza: due grandiose autobiografie
apparentemente antitetiche ma in qualche modo animate e mosse da una medesima passione, la passione del divino:
confessata o respinta. Quindi vedete come davvero quest’opera sia drammatica, tragica, violenta,
teologicamente sconcertante.
Io ho scritto tanto su Agostino e quello che proprio - anche nei miei libri - non riesco a sopportare è la
narcotizzazione di Agostino attraverso schemi tradizionali fiacchi. Si dice che Agostino abbia una dottrina della
Grazia predestinata e sono oggetto di polemica da parte di molti studiosi di estrazione cattolica, intendo dire
religiosi - soprattutto agostiniani – perché, per loro, dire che Agostino affermi la dottrina della
Grazia predestinata, che è una dottrina terribile, vuol dire mettere in discussione l’autorità e
anche in fondo la profonda essenza cristiana, serena, luminosa di Agostino.
Il problema è questo: se noi vogliamo un Padre della chiesa sereno prendiamo Origene, qualche mistico,
prendiamo lo stesso Tommaso (che è sereno fino ad un certo punto!). Se vogliamo prendere Agostino noi
prendiamo un altro Padre della chiesa, un’altra sensibilità, un’altra visione: Agostino è
un cristiano tragico. E non è un caso che si sono rifatti ad Agostino nel senso più fedele e radicale
tutti i personaggi più tragici, complessi e travagliati della storia del cristianesimo: Lutero grandissimo
interprete di Agostino che lo ha forzato teologicamente su certi aspetti ma sulla Grazia ha capito la res, il
problema; Pascal straordinario interprete di Agostino; o se vogliamo citare un grande autore del XX secolo, un
calvinista - questo vi fa capire come sia la tradizione protestante che maggiormente eredita la fede nella dottrina
della Grazia agostiniana – consulente ecumenico esterno nel corso del Concilio Vaticano II, Karl Barth.
Vi voglio però invitare a riflettere sul problema dell’autobiografia perché qui troviamo una
questione densa ed in fondo paradossale: cioè quando noi pensiamo si debba scrivere su Dio che cosa
tendiamo a pensare? Tendiamo a pensare che si debba fare un trattato teologico, la Trinità ecc. come è
stato fatto prima di Agostino sistematicamente. La novità straordinaria qui sta nel fatto che Agostino parla
di Dio attraverso il racconto della sua vita non in senso edificante, della sua scoperta di Dio, della gioia di
Dio (sebbene ci sia anche questo!).
Se noi leggiamo i primi otto libri quelli che praticamente si fermano sul momento davvero drammatico della
conversione agostiniana (Tolle, lege, episodio di Agostino sotto il fico) ci accorgiamo che gran parte di
quest’opera è dedicata alla descrizione del peccato, alla descrizione del
dissilire, del frantumarsi, dello scheggiarsi dell’io; troviamo delle indagini
assolutamente moderne e assolutamente eversive rispetto alla sensibilità letteraria, filosofica e teologica
dell’epoca relativa al problema della morte, della sessualità, dello spettacolo, del teatro, della
poesia, della nascita, della pulsione del bambino che piange, dell’ambizione letteraria, ambizione filosofica e
ancora una volta la caduta di Agostino nel gorgo della concupiscenza; cioè delle analisi completamente
sconcertanti e vorrei dire addirittura centrifughe rispetto a quello che dovrebbe essere il tema dell’opera:
celebrare Dio.
In che senso io posso descrivere il mio delirio quando assisto agli spettacoli teatrali e tramite questo lodare Dio,
qual è la connessione? O ancora descrivere con frasi straordinarie l’angoscia assoluta, il senso di
disperazione che invade Agostino quando muore il suo caro amico: Ovunque il mio sguardo si posava era
morte… tutto era morte. Che senso ha dire questo e attingere Dio in esperienze esistenziali ed in
fondo universali che ognuno di noi fa appunto, dal gioco, al piacere, alla sessualità, all’ambizione,
alla morte, all’angoscia, alla volontà di primeggiare, ai rapporti tesi con la madre dalla quale
Agostino fugge? (Ora è una santa; non lo dovrei dire ma lei lo segue in Italia e lo costringe a lasciare la
donna con la quale conviveva e dalla quale aveva avuto Adeodato per fargli fare un matrimonio di convenienza! La
madre di Agostino diventa santa proprio perché il figlio ha un tale amore per lei al punto da attribuirle il
merito di averlo spinto verso la conversione; la considera uno strumento di Dio e quindi la Tradizione cattolica
l’ha riconosciuta come tale!).
Qual è il senso di tutte queste esperienze in relazione a Dio, qual è il problema del rapporto tra
autobiografia e teologia? In questo Agostino dice una parola assolutamente nuova; è questa la dialettica
che rimarrà in tutta la tradizione che si rifarà ad Agostino tra il senso dell’angoscia, della
disperazione, dello smarrimento, della distensio di una interiorità che si disperde e si disfa
attraverso la molteplicità dei piaceri, delle concupiscenze, dei falsi oggetti di amore, una dialettica tra
questa distensio e la forza di concentrazione, di conversione che è la forza divina: soltanto
quando l’uomo è in grado di cogliere la sua vanità e la sua incapacità di trovare
soddisfazione, gioia, verità e requie nelle cose create, davvero emerge sempre più forte
l’evidenza della Grazia divina, la forza dell’azione della Grazia divina.
Da questo punto di vista vi è un rapporto dialettico paradossale e proprio nel momento in cui l’uomo
vive immerso nel peccato, che più forte diventa la consapevolezza che l’uomo di per sé nulla
può, che tutto può Dio. Agostino stesso dice: Tu stesso mi spingevi più possibile verso
il peccato e nel peccato perché provassi disgusto e capissi che solo Tu sei la salvezza - in alcuni passi
egli diceva anche che inconsapevolmente cercava nelle creature la Trinità; questa è la grande
novità agostiniana, la Trinità!
Agostino peraltro ha scritto un capolavoro sulla Trinità - il De Trinitate - che viene composto prima
delle Confessioni. Le Confessioni vengono scritte tra il 397 e il 400, alla fine del IV secolo;
c’è qualche oscillazione da parte dei critici per fissare la data ma sicuramente intorno al 400 gran
parte dell’opera era stata già scritta. La Trinità, Agostino – prima ancora di finire
questo straordinario trattato in cui si esamina Dio in sé e per sé nella sua relazione tra Padre,
Figlio e Spirito - in qualche modo la descrive nelle Confessioni, prima ancora che
nell’analisi degli ultimi libri dove la Trinità si manifesta come Eternità, Verità,
Carità, nel peccato stesso: cos’è la Trinità? È ciò che l’uomo
inconsapevolmente cerca anche nelle cose, nella realtà frantumata del peccato.
Ma che cosa cerca come uomo? Cerca di essere, di esistere, di conoscere, cerca appunto un oggetto di
Verità, un oggetto di conoscenza; sono celeberrime le analisi del racconto delle sue esperienze manichee e
platoniche in cui Agostino cercava di dare realizzazione alla sua ansia di conoscenza, anche all’esaltazione
che la conoscenza dà all’uomo e alla sua intelligenza.
Che cosa cercava ancora sant’Agostino? Il piacere, la gioia, la felicità e lo cercava nei corpi, lo
cercava nelle opere estetiche dell’uomo – pensate alla descrizione della commozione che invade
Agostino giovanissimo quando legge di Virgilio e di Didone che vede Enea partire: Il mio cuore si straziava -
in fin dei conti in tutte le esperienze esistenziali l’uomo cerca di vivere, di conoscere, di amare ma in
qualche modo lo cerca in maniera dissipata, dispersa, frantumata.
In questo senso cerca la Trinità, cerca Dio senza saperlo e allora Dio che cosa sarà? Sarà la
realizzazione dell’essere autentico di Agostino, del suo bisogno di verità e di conoscenza. La
realizzazione della sua pace spirituale e quindi del suo desiderio di gioia, di felicità, di beatitudine.
Voi vedete dunque come ci sia un rapporto speculare - come dire - tra la parte autobiografica in cui la
Trinità viene rivelata progressivamente proprio attraverso il delirare di Agostino, l’ondeggiare
(come dice lui all’inizio del sesto libro), l’essere sballottato da qui a lì senza trovare un
punto fermo, e l’ultima parte dell’opera nella quale la Trinità finalmente viene riconosciuta
come l’Eterna Realtà che sorregge non solo tutta la storia di Agostino ma tutte le vicende umane e
che guida ogni creatura eletta alla salvezza.
La novità straordinaria dell’autobiografia consiste nel fatto che non si parla di Dio astrattamente,
teologicamente, come farebbe un filosofo platonico (e il platonismo in realtà incide tantissimo su
quest’opera, lo vedremo). Ma si parla per la prima volta di un Dio che è il Dio cristiano a partire
dai sospiri, dalle attese, dalle emozioni e dalle passioni dell’individuo. Questo fa si che davvero
quest’opera sia un’opera rivoluzionaria nel parlare della Realtà Assoluta, della Realtà
Prima, Eterna e Vera – pensate al Motore Immobile Aristotelico - del Dio che contempla sé stesso
attraverso l’esistenza.
Con quest’opera ovvero con un’opera di teologia cristiana che lega autobiografia e indagine sul divino,
noi abbiamo evidentemente una novità epocale, da un punto di vista filosofico oltre che teologico. Si parla
della Verità Eterna attraverso l’esistenza dispersa e frantumata: c’è una relazione a
chiasmo, a croce, tra l’Eterno e il tempo, tra la dispersione del peccato e la Verità luminosa e
salvifica della Trinità.
Questo significa che il divino così come gli antichi lo pensavano è completamente diventato davvero
un’altra cosa; per gli antichi il divino era la Perfezione Trascendente che non conosceva le cose inferiori
(Aristotele: il pensiero non conosce nulla di ciò che è al di sotto di lui), nulla può
contemplare, solo la Perfezione Eterna e non la contingenza, la casualità, la materialità di ciò
che è inferiore e addirittura sublunare (Epicuro: gli Dei sono negli intermundia) e tutto
ciò che è al di sotto del mondo divino non è altro che casualità, materia che si aggrega
e si disgrega.
Ma qual è la rivoluzione culturale di Agostino che è frutto della sua fede cristiana? Ovvero
è una rivoluzione cristiana che finalmente con Agostino assurge a pienezza di consapevolezza filosofica e
cioè il divino è nelle vicende minime, più insignificanti, nel nulla del peccato
dell’uomo, nel delirio del peccato dell’uomo. Voi capite che questa è una struttura
cristologica, cioè l’Eterno è nel tempo non solo perché Gesù si è
incarnato ma perché segue ogni creatura in ogni spasimo del suo esistere.
Le Confessioni dal punto di vista filosofico fondano dunque – come nuova dimensione - il concetto di
esistenza. Il termine non è attestato in Agostino perciò forzo attraverso il filtro della filosofia
esistenzialistica: S.Kierkegaard, l’ateo Sartre, Heidegger, Marcel, Derrida (esistenzialista tendenzialmente
giudaico/cristiano). Ma l’esistenzialismo che cosa dice? Che la verità non ha senso se non è
verità per me, se non è per il singolo. Se non coglie la verità nella sua relazione inseparabile
dalla creaturalità e dalla finitudine radicale.
Questa attenzione esistenzialistica è un frutto della nostra cultura cristiana e da questo punto di vista
Agostino scrive un’opera assolutamente decisiva. Aggiungo un’altra precisazione – e poi passo a
leggervi qualche brano - per farvi capire che rapporto ci sia tra autobiografia e teologia. Ripeto la connessione
è cristologica cioè il Dio cristiano è il Dio che si fa uomo: Cristo svuotò
sé stesso (dalla lettera di san Paolo ai Filippesi). E che cosa fa Cristo? Diviene simile allo schiavo,
accetta la morte; da questo punto di vista le Confessioni sono la traduzione in termini
appunto personali e teologici sistematici di questa indicazione paolina.
Prendiamo un brano: IV Libro, IV capitolo, IX paragrafo: La tristezza calò buia nel cuore; in latino:
contenebratum est cor meum - osservate questo “contenebrarsi” del cuore di Agostino
perché il suo amico è morto. Dovunque guardavo era la morte. Il mio paese divenne un patibolo,
un supplizio, la casa paterna mi era penosa e strana: tutto quello che avevo condiviso con lui, senza di lui si
convertiva in uno strazio enorme. I miei occhi lo cercavano invano dappertutto e odiavo tutte le cose perché
non lo tenevano fra loro e non potevano più dirmi: «Eccolo viene!», come quando era in vita e mi
mancava. Ero divenuto un enigma angoscioso a me stesso - in realtà, è molto più bello in
latino: Factus eram ipse mihi magna quaestio, una “grande questione a me stesso”.
Chiedevo a quest’anima perché fosse triste e mi opprimesse tanto e lei non sapeva rispondere e se
dicevo «Spera in Dio», lei non ubbidiva, giustamente. Sentite cosa arriva a scrivere Agostino: Lei
non mi ubbidiva, giustamente, perché quella persona concreta che le era tanto cara e che aveva perduta, era
migliore e più vera del fantasma in cui le si ordinava di sperare. Questa è una pagina degna
della letteratura contemporanea, molto più forte, direi, di molte pagine della letteratura contemporanea.
Solo il pianto mi era gradito e aveva il posto del mio amico nelle gioie dell’animo.
Più avanti (capitolo VI), scrive: Ero stupito che vivessero ancora gli altri mortali quando era morto
lui che avevo amato come fosse immortale, e ancor più ero stupito di vivere io stesso, per un altro lui,
quando l’altro era morto. Ora, pensate a quando Agostino si dichiara stupito che gli altri vivessero
mentre l’amico non c’era più e confrontatelo con le parole di Re Lear quando muore
Cordelia: Perché un cane, un cavallo, un topo devono avere respiro e lei no?[1].
Vedete è proprio questa la sensibilità modernissima che Agostino testimonia. Ma che cosa stupisce?
Stupisce il fatto che Agostino sta parlando di una esperienza di assoluta disperazione, assoluta angoscia, vedete
quanto è sconcertante: Dio stesso è un fantasma che non ha presa, non ha concretezza nella sua
esistenza.
Pensate che i nemici di Agostino – e lui ne ha avuti tanti sia in vita che dopo – gli rimproveravano di
essere una persona immorale perché Agostino gli aveva raccontato chi era e lui rispose: E’ vero io
ero quello e se sono diverso – e lo sono – è per grazia di Dio, per opera di Dio e tutto ha fatto
Lui e nulla ho fatto io. Se non irrompe la grazia di Dio nel cuore di Agostino, l’uomo
troverà sempre più concreto questo corpo da abbracciare o questo sguardo da guardare di quanto non sia
appunto un’idea astratta di Dio. E allora qui davvero l’occidente scopre teologicamente, (ci sono
quattro secoli di cristianesimo prima di Agostino) scopre filosoficamente la consapevolezza del divino cristiano
come una forza di carità che illumina l’interiorità, come una esperienza di gioia assolutamente
non dominabile - che poi è questo il racconto delle Confessioni!
Quando Dio diventa qualcosa di reale? Quando irrompe in Agostino? Vi voglio leggere un altro brano celeberrimo di
Agostino in cui racconta della sua conversione (Libro X, capitolo XXVII, paragrafo XXXVIII) è una delle frasi
più celebri e più belle di Agostino: Tardi ti ho amato, Sero te amavi,
pulchritudo tam antiqua e tam nova, sero te amavi! - Ecco, eri dentro di me Tu ed io fuori, fuori di me ti
cercavo e informe nella mia irruenza mi gettavo su queste belle forme che tu hai dato alle cose. Eri con me, io non
ero con te, le cose mi tenevano lontano, le cose che non ci sarebbero se non fossero in Te. Mi hai chiamato e il Tuo
grido ha lacerato la mia sordità; hai lanciato segnali di luce e il Tuo splendore ha fugato la mia
cecità; ti sei effuso in essenza fragrante, ti ho aspirato e mi manca il respiro se mi manchi; ho conosciuto
il tuo sapore ed ora ho fame e sete; mi hai sfiorato e mi sono incendiato per la Tua pace.
E’ un testo complicato anche questo. Innanzitutto, è un testo che sembra puramente lirico, in
realtà è un testo che media una dottrina estremamente complessa - che non ha inventato Agostino, ma
ha inventato Origene, un altro grande Padre della chiesa - la cosiddetta dottrina dei sensi
spirituali, che diventerà un luogo comune della storia della mistica cristiana, ovvero
l’espressione del contatto indescrivibile, inenarrabile, dell’anima con Dio, attraverso
l’utilizzazione delle metafore che derivano dai nostri cinque sensi.
Qui Agostino sta dicendo che Dio è il tatto supremo, l’udito supremo, l’olfatto supremo, il
gusto supremo, la vista suprema dell’uomo. Vedete che questa distinzione lirica, in realtà si posa
su una dottrina esegetica e teologica volta ad esaltare la finezza e l’assolutezza di Dio che è la
verità di tutto ciò che noi cerchiamo attraverso i nostri sensi.
Quando noi guardiamo la luce del cielo, ad esempio, la luce sul mare che si riflette (ci sono pagine supreme di
Agostino nel De Civitate Dei) in realtà che cosa cerchiamo? Cerchiamo la luce interiore spirituale di
Dio e quindi questa luce interiore può essere espressa attraverso le metafora dei sensi. Ma che cosa
è che caratterizza questo “grido” vero e proprio tardi ti amai? Che cosa
vuol dire? Il significato banale è che appunto prima, Agostino peccava e poi soltanto in un secondo momento,
“tardi” Dio l’ha scoperto; in realtà il significato è più radicale, più
strutturale, è più profondo: l’uomo è sempre in ritardo al cospetto di Dio, il
“tardi” non indica un appuntamento che per un po’ ha mancato ma poi alla fine Agostino è
riuscito finalmente ad acchiappare.
La caratteristica del rapporto fra me e l’altro è che io sono sempre in ritardo al cospetto della
sacralità dell’altro. Non esiste un mio dominio nei confronti dell’altro, ma l’altro
è ciò che, in qualche modo, irrompe dentro di me, mi assedia, mi chiama ed a cui, alla fine,
io rispondo, riconoscendone il dono. Qui, teologicamente, abbiamo questo tipo di relazione che è una
relazione insuperabilmente asimmetrica e diacronica. Asimmetrica nel senso che non c’è simmetria fra Dio
e l’uomo. Io trovo Dio perché Dio mi tira a sé. Infatti, Agostino dice: Tu eri con me, ma
io non ero con te, ma tu hai gridato e sfondato la mia sordità, sei apparso e hai illuminato le mie tenebre.
Il tuo splendore ha fugato la mia cecità - Fragrasti, et duxi spiritum et anhelo tibi. Anelo,
respiro in te stesso soltanto perché tu, con il tuo odore soave, hai invaso me stesso. Questa capacità
di Agostino di cogliere Dio e di credere in Dio e di amare e conoscere Dio, dipende unicamente dalla Sua iniziativa.
Notate anche la violenza di questa evoluzione che sconvolge tutti i sensi di Agostino.
Da questo punto di vista qui – ai miei allievi io lo ricordo sempre - la teologia agostiniana è al
tempo stesso una retorica della Grazia ed un’erotica della Grazia cioè una dottrina dell’Amore
come Amore che è attrazione irresistibile, bellezza che l’uomo non riesce a dominare. Ripeto ecco
qui il tema del tardi - sero te: che cosa vuol dire? L’autentico amore è sempre un
amore in ritardo, è sempre un amore grato per un dono; cioè il senso più profondo
dell’amore è la donazione. Vedete come all’interno di quest’opera in fondo così
strutturata teologicamente ci siano davvero questi nuclei incandescenti che non a caso il pensiero occidentale non ha
ancora finito di sondare. Cioè che cosa ci dice la dottrina della Grazia di Agostino? Ci dice che Dio è
un Dono, non è una Verità che sta lì e noi dobbiamo trovare o cercare.
Da questo punto di vista, vorrei leggervi un brano delle Confessioni, in cui Agostino mette in relazione il
problema della creazione con il problema della salvezza. Si dovrebbe leggere molto di più, ma mi limito a
leggere il XIII libro, II capitolo, III paragrafo: Che tipo di merito aveva la materia dei corpi per esistere,
anche solo invisibile e informe, dato che neppure questo sarebbe stato, se non fossi stato Tu a crearla? E dunque non
poteva, non esistendo, meritare ai Tuoi occhi l’esistenza. La materia non poteva meritare in alcun modo
di esistere al cospetto di Dio.
Che titoli di merito aveva quell’abbozzo di creatura spirituale anche solo per fluttuare al buio, simile
all’abisso, dissimile da Te, se non per essere indotta da quello stesso Verbo a volgersi verso il suo Autore e
da Lui illuminata farsi luce e per uguale forma a te conforme ancorché non uguale. Guardate che è
un testo veramente straordinario perché articola una dottrina trinitaria, sottolineando
l’assoluta mancanza di merito delle creature:
-a livello di creazione, cioè nessuna creatura può nulla, l’esistenza gliel’ha
donata Dio perché lei era nulla
-la forma, cioè la modalità di esistere, gliel’ha donata il Verbo, la verità.
-di per sé, nessuna forma poteva avere la capacità di conversione a Dio stesso, anche nel caso
degli angeli, nel caso degli eletti; la capacità di essere è un dono dello Spirito Santo. Che merito
hanno, dunque, le creature al cospetto di Dio?
Qui cogliamo un altro tratto semitico proprio di Agostino, cioè veramente biblico, giudaico-cristiano.
Cioè mentre il mondo greco è un mondo di simmetrie, di armonie, il mondo giudaico è un mondo
di asimmetrie infinite: al cospetto di Dio non vi è nessuna consistenza se non il nulla informe. Ecco
allora il senso di parlare della creazione della Genesi in relazione alla descrizione della propria esistenza:
la mia esistenza è qualcosa di informe, solo Dio le ha donato forma non solo perché mi ha creato ma
anche perché mi ha convertito.
Allora vedete che qui la dottrina della Grazia di Agostino che sembra così ostica, brutta e inaccettabile
è in realtà una dottrina paradossale, mistica, radicalmente mistica: io sono nulla, tutto è Dio
in me se io sono qualcosa. E’ una dottrina mistica che però è radicata in una capacità
di intuizione proprio della tradizione giudaico–cristiana e cioè del fatto che Dio è il Dio
creatore infinitamente trascendente le creature; non è una forma perfetta rispetto ad una forma imperfetta
perché la forma se noi l’abbiamo l’ha donata il Verbo; l’essere ce lo ha donato senza alcun
nostro merito il Creatore; l’Amore e il Desiderio ce l’ha donato lo Spirito Santo, quindi capite –
ripeto - il senso della connessione tra la dottrina della Trinità e appunto la struttura dell’opera
agostiniana.
Per concludere, soffermiamoci un momento sul titolo: Confessiones. Che cosa vuol dire
confessio? Ancora una volta, già solo nel titolo, vediamo intrecciati questi pochi temi
che ho cercato di enucleare. Noi per confessione intendiamo automaticamente
“confessione del peccato”. In questo vi è, da un punto di vista storico, nella nostra
quotidianità di esperienza, nel rapporto con il sacro e con il religioso, un impoverimento del termine antico
latino, poiché la confessione sembra essere soltanto il sacramento. C’è il rito, ma
riguarda solo una parte del rito, perché il rito è molto più complesso, ha dei momenti che lo
scandiscono molto più complessi, mentre per noi diventa una specie di automatismo finalizzato ad un perdono
che il sacerdote ci concede.
In realtà, il latino confessio, che nella sua complessità dobbiamo ancora una volta ad Agostino,
indica due cose: indica, come dice ripetutamente Agostino non solo in quest’opera, ma anche nei commenti
ai Salmi, “confessione di peccato” e “confessione di lode”. Quindi, il termine
confessio, quindi il titolo dell’opera, è un termine eminentemente dialettico.
“Dialettico” significa che tiene insieme due cose che tendono ad essere opposte, in quanto tiene
insieme il peccato dell’uomo e l’infinita Grazia e misericordia di Dio che perdona.
Quindi, le Confessioni sono scandite da questa confessione del peccato che è confessione di tutta la
propria esistenza, non solo dell’esistenza passata, ma anche di quella presente da vescovo. Nel X libro ci sono
pagine su Agostino che guarda le lucertole, la luce del sole che gioca tra le foglie e questo è un peccato
perché distrae da Dio. E’ chiaro che quello agostiniano è un aspetto assolutamente
egocentrico. Un altro esempio riguarda i sogni erotici notturni. Pensate di cosa parla Agostino vescovo nel X
libro: si chiede se questi siano un peccato. Si domanda: Io dove sono, quando sogno qualcosa che da vigile non
voglio minimamente, a cui non voglio dar retta.
Non è un caso che gli studiosi di psicoanalisi abbiano individuato in queste pagine agostiniane
sull’incapacità di controllo della coscienza di una parte che nel sonno emerge, una sorta di
anticipazione della nozione di inconscio; ci sono delle forze, delle potenze nella psiche che si sottraggono al
controllo della razionalità. Agostino si chiede: Ma io dove sono, quando sogno questo? Chi è che
sogna questo? Vedete la complessità dell’uomo. Qui, la confessione del peccato passato, presente
e, ovviamente, futuro - Agostino non si fa illusioni su questo - è incrociata con la confessione della grazia
di Dio che è Colui che perdona il peccato.
Qui, la confessione come titolo e come significato del termine, vuol dire al tempo stesso non soltanto confessione
del peccato, decostruzione della propria peccaminosità e della propria vita come scandita dal peccato, ma vuol
dire anche riconoscimento della grazia di Dio, senza la quale neanche il peccato sarebbe confessabile,
perché soltanto la luce della Grazia è quella che mostra il peccato come tale. In questo senso:
Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato, questo tema che da Agostino arriva a Pascal,
è un tema che si fonda proprio su questa nozione di confessione.
Il fatto che l’uomo non riesca a trovare Dio, ma che provi soltanto l’esitazione del peccato, è
già la presenza di Dio che illumina la tenebra dell’uomo e induce la stanchezza, il tedio di fronte ad
ogni realtà parziale che l’uomo incontra, quindi la stanchezza mortale. Anche qui ci sono pagine
straordinarie su quello che Agostino prova nei confronti del peccato. Confessione, quindi, vuol dire al tempo stesso
“confessione di lode”, quindi “confessione di grazia” e “confessione del
peccato”, cioè confessione di alienazione. Come Agostino scrive nell’XI libro, XXIX capitolo del
paragrafo XXXIX: At ego in tempora dissilui. Questa frase straordinaria Io mi sono dissipato nella
successione dei tempi, cosa vuol dire? Agostino nell’XI libro ormai è vescovo, sta sondando
l’abissale testo biblico. Cosa vuol dire dissiparsi, schiantarsi, scheggiarsi nei tempi? Vuol dire che
l’uomo vive sempre questa esperienza di dispersione, di frantumazione interiore, anche l’uomo che crede.
E’ soltanto la grazia di Cristo – aggiunge Agostino – che mi fa “uno” e che mi
realizzerà in unità solo quando mi chiamerà a sé. Vedete come questa dialettica tra
confessione di peccato e confessione di lode, tra confessione di alienazione, di scheggiamento, di frantumazione e
confessione di grazia, scandisce anche l’Agostino vescovo, l’Agostino uomo di fede.
Da questo punto di vista vi invito a leggere con attenzione il VII libro delle Confessioni, il
libro con il quale Agostino racconta quella che è la sua esperienza culturale più straordinaria,
cioè la lettura dei neoplatonici. Ci tengo a sottolineare questo aspetto perché è stato
molto discusso, ma è anche un elemento decisivo per la valutazione della natura straordinaria di
quest’opera e della novità proprio rispetto alla tradizione filosofica che pure la condiziona. Agostino,
chiedendosi quando Dio abbia deciso di strapparlo al peccato e di condurlo alla verità, si risponde che
è stato allorché, per Sua grazia – e qui il tema è impegnativo – lo ha fatto
imbattere in alcune opere pagane e cioè nei libri dei platonici.
Questi libri non erano di Platone, ma sicuramente di Plotino e di Porfirio, due grandi neoplatonici del III secolo,
quindi di un secolo precedente ad Agostino. Ma cosa lesse in questi testi che lo rischiarò tanto, che lo
convinse della certezza dell’esistenza di Dio come vero e come onnipotente? Lesse che esisteva un Verbo divino,
eterno, luminoso, che questo Verbo aveva creato il mondo (in realtà, nei testi dei neoplatonici questo non
c’è scritto, ma Agostino fa questa lettura) e che questo Verbo era l’orizzonte di
luminosità, di intelligenza, di ordine, di forma di tutto il creato. Ma cosa non lesse? Su queste
riflessioni, in fin dei conti, si conclude questo libro. Lì non lesse, non trovò l’incarnazione
del Verbo di Cristo, la Sua morte, la Sua crocifissione, non trovò la parola della Sua grazia e le
lacrime della confessione dei peccati.
Si può dunque cogliere l’esistenza di una salda continuità tra i modelli filosofici più
alti dell’antichità tardiva, i modelli neoplatonici di Plotino e di Porfirio, e la teologia agostiniana.
Non possiamo, cioè, valutare le Confessioni senza rilevare questa continuità e questo rapporto
di dipendenza apertamente confessato. Ma la novità straordinaria sta in quello che, in quei libri, Agostino
non trova. Non trova la Grazia. Cioè, la novità della teologia cristiana rispetto alla teologia
platonica, in fin dei conti, non è la definizione di un Dio che sta al di là, sopra ai corpi, che
è immateriale, che è una verità eterna e creatrice, che è una verità puramente
intelligente, che trascende tutto ciò che è sensibile e corporeo, perché questo, in fondo le
Scritture lo condividono con la prospettiva neoplatonica.
In realtà - non è proprio vero, qui Agostino semplifica, ma per ora non approfondisco - Agostino coglie
un’ampia continuità là dove ci sono anche notevoli discordanze. Ma la rottura decisiva,
però, è un’altra e Agostino ce la segnala: nei neoplatonici non trova Dio come grazia. Cosa vuol
dire Dio come grazia? Vuol dire Dio come Volontà, come Amore, quindi come Trinità
nel senso proprio del termine. Questo è ciò che manca alla metafisica neoplatonica.
Qual è, allora, la peculiarità di una teologia cristiana, rispetto anche alle grandi teologie
neoplatoniche che tanto l’hanno condizionata storicamente, perché parlano appunto di verità
eterna, di verità divina? La peculiarità è che il divino non è solo l’approdo
dove dobbiamo andare – come ci dice Agostino - non è solo la patria, la meta, ma il divino è la
forza della via, la potenza della redenzione, è la forza della Grazia che in realtà ha indotto Dio a
crearci e induce Dio a redimerci. Vorrei dire che qui, quello che manca ai neoplatonici, è il volto di Dio
rivolto alla creatura e alla creatura dei tempi. E’ un tema teologico enorme ed anche un tema filosofico
complicatissimo: come può il divino – ricordate il dio di Aristotele che guarda solo a se stesso
– rivolgere il Suo volto verso ciò che non è, che è contingente, che è
temporale, che è materiale, che si disperde, che si frantuma nella temporalità? E’ divino solo
ciò che è eterno.
Questo è in fondo il paradosso cristiano che sorregge tutta quest’opera così fortemente
paradossale di Agostino. Ecco perché don Mario Pio diceva Felix culpa: il peccato è
“felice” perché lo colgo davvero solo quando c’è la Grazia che
già me lo ha perdonato. Quindi, davvero si tratta di una dimensione fortemente dialettica e paradossale di
gioia, che sostituisce quella dispersione. Ecco, la novità straordinaria è questa: il divino è
un divino-persona che rivolge il Suo volto verso il nulla della creatura, che la crea, la costituisce e la redime.
Cristo, nel divino che si fa uomo, che si fa uomo morto, è davvero la cifra decisiva e rivelativa di questa
rivoluzione teologica, che è anche una rivoluzione esistenziale ed una rivoluzione culturale.
Domanda del pubblico:
1) Dalla descrizione che ha fatto del concetto di amicizia in Agostino, si vede che ne aveva un’esperienza
molto profonda e mi ricorda le parole che Orazio indirizza all’amico Virgilio Animae dimidium meae e
cioè: “metà della mia anima”.
2) Vorrei poi aggiungere che, forse, un ricordo di questo modo di intendere la confessione alla maniera di
Agostino - confessione, anzitutto, come lode a Dio - si può trovare quando, entrando in alcune chiese, viene
segnalato dove si trova l’altare della confessione. Ora, l’altare della confessione, è sempre
accompagnato dalla preposizione “di” seguita da un nome specifico, e, solitamente, si vuol indicare un
fedele testimone che non ha esitato a dare la propria vita per dar lode al suo Signore. Da quanto detto, siamo
lontani dal considerare la confessione come un prontuario di cose da dire.
Risposta:
Sicuramente. Sull’amicizia ci sono stati molti libri dedicati da Agostino; esiste un senso fortissimo di
amicizia umana. Ripeto quella pagina straordinaria è interessante perché in fin dei conti
l’uomo è investito di un desiderio, di una forza che in qualche modo cerca Dio. Questo è
il problema: la forza di Agostino è ricercare Dio nell’amico tanto è che Agostino dice
“Noi riusciamo ad amare veramente il prossimo unicamente quando riusciamo ad amarlo in Dio” - il che
sembrerebbe che non possiamo avere un amore pieno ed assoluto e quindi l’uomo diventerebbe una specie di
controfigura di Dio, uno schermo su cui Dio in qualche modo è proiettato!
Ma che cosa vuol dire Agostino? Agostino vuol dire davvero che la radicalità e la profondità
dell’amicizia e quindi della “caritas” che è la verità più profonda
dell’amicizia stessa (anche se la caritas si specifica individualmente nell’amicizia in maniera
eccezionale) è la capacità di vedere Dio stesso nell’amico, Dio stesso nel prossimo e
cioè di rivedere nel prossimo una dimensione di dono; di gratuità e anche di impossibilità
dell’autosufficienza.
In fondo qual è il mito umanistico? L’uomo è autosufficiente, l’uomo è
libero, l’uomo realizza pienamente sé stesso. In fin dei conti, invece, la concezione agostiniana
è che l’uomo è alienato, “felicemente alienato”, è alienato in Dio che
è il suo centro spirituale, il suo fuoco, è alienato nei confronti del prossimo perché nel
prossimo vi è una pienezza di senso che l’uomo neanche interiormente in sé può in
realtà attingere tanto è che la pienezza spirituale – che io colgo nel rapporto con Dio e la
Grazia stessa fonda in me - mi spinge poi subito ad uscire al di fuori di me.
Vi voglio descrivere un opera che io amo molto, è un opera di influenza agostiniana molto più tarda:
I Quattro gradi della violenta Carità - siamo verso il 1160 (XII secolo), è di
Riccardo di San Vittore uno dei grandi mistici vittorini. Questo autore afferma una cosa del tutto anomala
– una mistica che mi piace molto – e cioè che l’ultimo grado, il grado più
violento della carità, il grado della perfetta unione mistica con Dio, non è quello dell’unione
interiore con Dio, ma è quello della carità nei confronti del prossimo. La carità che mi
spinge verso il prossimo è più alta della carità che mi unisce a Dio misticamente, in estasi
mistica.
Quindi, il grado perfetto della carità è la carità che mi spinge al di fuori, perché
la carità in cui sono uno con Dio che è uscito fuori di sé, implica che la vera e perfetta
unione con Dio ci porti a ripetere un movimento cristologico. Capite che si può pensare una mistica in
questi termini soltanto quando il registro cristiano domina ancora sul registro sostanzialmente platonizzante dove,
nel neoplatonico in particolare, l’esito del desiderio era l’unione in unità con Dio, con
quest’Uno. Qui l’Uno è alienante e davvero qui la Gioia è una gioia paradossale.
Domanda del pubblico:
3) Volevo chiedere una cosa: ho letto la biografia di Edith Stein e ad un certo punto la Stein – penso
sulla stregua di S. Tommaso - dice un’affermazione in latino che si traduce più o meno con “la
Grazia porta a perfezione, a compimento la natura umana” Allora questo – se ho ben capito quanto lei ha
detto prima – è molto diverso dalla posizione di Agostino, secondo il quale, la natura umana è
invece una natura portata al male, al peccato. In questa affermazione, al contrario, la natura umana trova la sua
perfezione nella Grazia.
4) Quando dice “tardi ti amai” io ho pensato che si potrebbe anche interpretare in questo modo:
in realtà per noi cristiani è molto facile desiderare di conoscere Dio, voler sapere i suoi
insegnamenti, ma è molto difficile amarlo perché, quando uno ama – noi lo sperimentiamo nel
momento dell’innamoramento - diventiamo un po’ folli cioè non facciamo che pensare a quella
persona, faremmo qualsiasi cosa per quella persona. Cioè, voglio semplicemente dire che, forse, è
difficile per tutti noi fare questo salto, arrivare al punto di amare Dio in maniera quasi folle… forse si
può interpretare anche così “tardi ti amai”.
5) Che relazione c’è tra la teologia di Agostino e la teologia di Lutero, in particolare per
quanto riguarda il problema della predestinazione, della gratuità della Grazia?
6) Per Agostino il dono della Grazia viene fatto a tutti gli uomini da Dio?
Risposta:
La prima domanda è perfettamente pertinente nel senso che l’espressione della Stein è una
citazione di Tommaso d’Aquino, secondo cui la grazia perfeziona la natura umana, la compie, quindi non
è qualcosa che si pone in rapporto contraddittorio con la natura stessa.
Questa affermazione tomistica è evidentemente non agostiniana come intenzione teologica, però due cose
bisogna precisare. La prima: la dottrina della grazia come l’abbiamo letta qui, potrebbe essere conciliabile
con questa affermazione tomistica, nel senso in cui Agostino dice che anche nel peccato, anche nell’uomo
naturale abbandonato a se stesso, in fondo l’uomo cerca Dio e quindi costruisce paradossalmente nella natura
stessa un movimento naturale di ricerca di Dio che è vano proprio perché Dio nella natura ancora non si
dà, quindi la grazia perfeziona la natura in maniera più dialettica, più complessa di quanto
il continuismo di Tommaso non sottolinei.
Da questo punto di vista, non può che esserci continuità tra natura e grazia. Per Agostino, la
grazia è l’unica possibile realizzazione dei movimenti, dei desideri, delle attese della creatura.
Quindi, la perfeziona la compie, ma, compiendola, la sana, la risana, la restituisce all’integrità. Qui
lei coglie benissimo la questione: Tommaso ha proprio una sensibilità, una visione positiva
dell’uomo, della creatura, quella visione che, in fondo, noi cattolici abbiamo ereditato e che privilegiamo,
direi giustamente. Ogni cosa che esiste, ogni aspetto della natura ci testimonia di Dio, del buono di per sé
che non ha nulla di malvagio. Ci può essere il peccato volontario dell’uomo che turba l’ordine
della creazione. Queste sono tematiche agostiniane, perché lo stesso Agostino ha affermato che esiste
il buono e che il male non è altro che un peccato della volontà umana, ma è la
sensibilità di Tommaso che è diversa.
Per Agostino, nella natura c’è sempre nascosta l’insidia del peccato, anzi la realtà
del peccato. Per Tommaso, in ogni aspetto della natura è presente davvero, già in stato potenziale, la
grazia di Dio. Vorrei aggiungere un’ultima cosa: che però Tommaso, se noi prendiamo la Summa,
a livello di teologia della grazia ritorna alla dottrina della predestinazione di Agostino, sorprendendo,
perché in realtà tutta la sua metafisica e la sua teologia sono costruite nel tentativo di rendersi
autonomo da Agostino, tanto è vero che i francescani, che erano agostiniani, a suo tempo l’hanno
condannato affermando che era più aristotelico che agostiniano. Però, nei suoi articoli che trattano
della dottrina della grazia, troviamo l’uomo incapace di movimento volontario che possa davvero salvare,
incapace di bene autentico, quindi soltanto la predestinazione salva l’uomo. Questo per farvi capire quanto
la dottrina agostiniana della predestinazione, approvata dai Concili, e quindi diventata patrimonio della Chiesa, ad
una mente straordinaria come Tommaso faccia in qualche modo difficoltà, pur non riuscendo, allo stesso tempo,
a scartarla. Sull’amore sono perfettamente d’accordo.
A mio parere, l’attualità della teologia di Agostino, non è nella predestinazione. Dire
che Agostino è un predestinazionista vuol dire che Dio non dà la sua grazia a tutti, ma solo agli
eletti, perché, se la desse a tutti, tutti saremmo convertiti. Dato che molti rimangono nel male,
evidentemente non sono mossi dal minimo desiderio di Dio, per cui, altrettanto evidentemente, in loro Dio non ha
agito. Quindi, non è che Agostino sia “cattivo”, ma formula una dottrina della predestinazione
“a posteriori”. Dato che molti continuano ad essere malvagi, evidentemente Dio non ha toccato il loro
cuore. Allora, cosa conviene pensare, che loro sono cattivi, impuri? No, loro sono cattivi e impuri, ma lo sono
anch’io. La differenza fra me e loro non è nel fatto che io ho meritato qualcosa, ma è nel fatto
che, misteriosamente, la grazia io l’ho avuta - ma Dio me la potrebbe togliere - e gli altri non l’hanno
avuta. Non insuperbirti mai, perché Dio potrebbe rovesciare, all’ultimo momento della tua vita,
la Sua elezione.
Domanda del pubblico:
7) Che colpa ne hanno gli altri ?
Risposta:
Nel senso in cui coloro che non hanno avuto la grazia vogliono solo il male. E’ un fatto, un dato di fatto.
Qui Agostino dice che non dobbiamo chiederci che colpa abbiano i cattivi, perché i cattivi vogliono il
male, quindi Dio non li costringe a volere il male. Nell’uomo c’è un movimento naturale di
concupiscenza, di autoaffermazione, di violenza, di rimozione del desiderio di Dio, quindi essi stanno lontano da Dio
e rimangono tali. Il problema, casomai, è chiedersi perché ha scelto te e non un altro e qui lui
risponde: l’abisso della volontà divina. Noi non possiamo sindacare questo abisso. Non possiamo neanche
dire a Dio che è ingiusto perché ha premiato uno, ha donato a qualcuno la grazia ed ha punito
l’altro per i suoi peccati. La tesi è complessa. Certo il Dio agostiniano è un Dio non equanime,
che ha una giustizia paradossale.
Per quanto riguarda l’amore, è vero questo tema della follia. Agostino è un mistico, ciò
vuol dire che vive l’assoluto abbandono di tutto ciò che è dell’uomo per Dio. Io sono nulla
al cospetto di Dio, ma un nulla radicale, e quindi non ho meritato nulla, tutto ciò che ho è un dono di
Dio. La predestinazione è l’esito del fatto che altri non vivono questo amore folle. E allora, come me
lo spiego? Non che io sono stato bravo ed ho meritato, ma il fatto che questa meraviglia che è stato lo
sguardo di Dio che si è posato su di me, evidentemente sugli altri non si è posato, non si è
ancora posato. Aggiungo che Karl Barth, che citavo prima come esito moderno dell’agostinismo,
universalizza la grazia agostiniana e dice che noi siamo salvi solo per grazia immeritata, indebita e
predestinata. Ma, in Cristo, Dio ha donato la sua grazia a tutti, persino ai peggiori peccatori. Noi abbiamo una
radicalizzazione ed una universalizzazione dell’agostinismo. Evidentemente questo comporta il fatto che, chi
vive nel male oggi, è già perdonato da Dio, malgrado muoia malvagio, perché in qualche modo Dio,
nella Sua morte, ha assunto l’abbandono dell’uomo nella Sua volontà. Nel momento in cui il
malvagio - Hitler – muore, abbandona la sua perdizione e diventa un puro corpo al cospetto della volontà
di Dio, ritorna al nulla della sua volontà, al nulla della sua capacità di generare peccato. Nella
morte di Cristo in croce, è assunto e perdonato persino Hitler. Ma qui c’è una radicalizzazione
del pensiero agostinano.
Per quanto riguarda Martin Lutero, dal punto di vista del fondamento teologico della Riforma, è
assolutamente agostiniano. Lutero è un agostiniano radicale, Lutero ha il grande merito storico di aver
riattivato l’agostinismo teologico sulla grazia e sulla predestinazione, appoggiandosi fedelmente ai testi
agostiniani, all’interno del trionfo di schemi teologici umanistici, che tendevano ad abbandonare Agostino e
ad orientarsi verso l’autorità di altri padri della Chiesa. Questo in Lutero, soprattutto,
poiché già Melantone, il suo braccio destro, alla morte di Lutero tempera, cioè abbandona le
figure teologiche agostiniane del maestro. Ma in Lutero noi abbiamo una teologia pienamente agostiniana. In
questo secondo semestre sto leggendo ai miei studenti il De servo arbitrio, l’opera
teologica più ampia e sistematica di Lutero. Il titolo è una citazione di Agostino. In
quest’opera, Lutero sostiene che l’uomo di per sé vuole solo il peccato. Cioè senza la
grazia di Dio, l’arbitrio dell’uomo è servo del peccato. Se invece Dio dona all’uomo la Sua
grazia, l’uomo in qualche modo diventa servo della grazia di Dio. E’ talmente invaso dall’amore
debordante di questa forza spirituale meravigliosa, che non può resistere o sottrarsi al suo sguardo
d’amore. E’ una pura dottrina agostiniana, tant’è che la Chiesa cattolica si troverà
in grave difficoltà perché dovrà in qualche modo condannare Lutero – al Concilio di Trento
– ma salvare Agostino, quando Lutero e Agostino dicono la stessa cosa teologicamente. Come fa? Formula, con
grandissima abilità teologica, delle affermazioni agostiniane in apparenza, e quindi fatte con citazioni
agostiniane, ma anti-luterane, quindi vuol dire anti-agostiniane, nella sostanza. Tanto ambigue sono queste formule,
che i giansenisti, fra cui Pascal, che sono cattolici, le riprenderanno e le reinterpreteranno in senso agostiniano
radicale, distinguendosi da Lutero, per cui saranno condannati dalla Chiesa cattolica per questo. Si apre,
cioè, questa grande questione storica nella Chiesa cattolica di un agostinismo apparente che coincide con la
rimozione dell’agostinismo sostanziale. Invece, l’agostinismo diventa patrimonio di Lutero e di
Calvino, ma anche all’interno delle tradizioni luterane e calviniste, è in qualche modo risistemato. Per
cui il destino storico di Agostino, proprio per la sua dottrina così paradossale, che è una dottrina
mistica in fin dei conti, una dottrina che tende a dire che l’uomo è nulla al cospetto del Dio creatore,
se l’uomo viene salvato è solo merito Suo che ha creato ed eletto e l’uomo non può dire
nulla (san Paolo ai Romani 9, 11). Da questo punto di vista, tutte le tradizioni confessionali ecclesiastiche,
quella cattolica, quella luterana e quella calvinista, accettano Agostino perché ha un’enorme potenza
teologica, ma poi lo reinterpretano ammorbidendolo.
Quindi, noi abbiamo un agostinismo radicale che, nella Chiesa cattolica, dal 418 fino al 529, al Concilio di
Orange, accetta le tesi agostiniane radicali. Ma poi comincia un movimento di riduzione, di ammorbidimento, di
allegorizzazione, di affiancamento di altre autorità patristiche ad Agostino.
Lutero non è il primo, perché ci sono altri, come Pietro Lombardo, il grande sistematizzatore su
cui si formeranno tutti i grandi teologi del XV secolo, che ha una dottrina della grazia agostiniana
predestinazionista – si veda il suo Liber sententiarum. Quindi non è che Agostino sparisca
dall’Occidente, abbiamo detto che Tommaso recupera la sua dottrina a livello della Summa Theologica,
però in una sezione dell’opera che è una specie di corpo estraneo rispetto all’impostazione
di tutto il resto. Quindi si crea una specie di mancanza di sintonia tra le due parti dell’opera.
Lutero, potentemente, riaffermerà l’assoluta fedeltà all’agostinismo. Per Lutero,
Agostino è l’unico interprete autentico di Paolo, quindi riaffermerà una dottrina della
predestinazione come Agostino, della distinzione fra eletti e dannati, come Agostino, e una dottrina della grazia
indebita e del servo arbitrio, cioè la libertà dell’uomo è un puro vuoto
concetto.
L’uomo, in realtà, quando è libero e agisce di per sé, agisce solo per il male, cerca
il male. Non è una tesi tanto astratta. L’uomo è sempre egocentrico, vuole affermare sempre se
stesso. La carità, dirà Pascal, è sovrannaturale, cioè è un miracolo, l’uomo
non se la dà perché l’uomo dice sempre “io, io, io”. Per Pascal, l’io
è “odioso” perché vuole sempre affermare se stesso. Sin dal bambino che dice “Questo
giocattolo è mio” - scrive Pascal - già lì si vede la faccia del peccatore, cioè di
un movimento autoreferenziale che è la peccaminosità naturale di ogni soggetto. Ogni soggetto vuole
solo affermare se stesso. E’ chiaro che questa tradizione agostiniana è così forte, così
paradossale, che le Chiese istituzionali non la possono tollerare.
Agostino è fortissimo teologicamente, non si può apertamente sconfessarlo, ma si dovrà
smussarlo. Questo vale per i cattolici, per i luterani - Melantone semipelagianizza la questione di Lutero - per i
calvinisti. Lo stesso calvinismo, che forse è più rigido, più fedele alla dottrina della
predestinazione luterana, però, andando avanti, modifica la sua fedeltà ad Agostino. Il cuore
teologico della dottrina agostiniana viene messo in secondo piano.
Domanda del pubblico:
8) Nelle Retractationes Agostino fa il dettaglio di quello che sconfessa oppure globalmente sconfessa
tutto quello che aveva asserito? Le Retractationes di che cosa trattano?
Risposta:
Pensate a questo personaggio che si inventa le Confessioni. Le Confessioni è come
il diario che ogni studentello va a scrivere, come dire una replica culturale, di ben altro livello, di questo
capolavoro di Agostino, nel senso che gli antichi non scrivevano qualcosa di analogo; c’era la lettera, ma era
qualcosa di completamente diverso.
Le Retractationes sono un’altra invenzione di Agostino. E’ un’opera in
cui Agostino esamina tutte le sue opere precedenti - la scrive nel 427, a tre anni dalla morte - in cui
corregge ciò che gli pare inadeguato. In quest’opera prende tutti i suoi scritti precedenti e
dice che in quel determinato punto ha sbagliato perché ha detto questo, questo e quest’altro, in
quell’altro punto ha sbagliato perché ha detto qualche altra cosa, e così via. Ci accorgiamo
che le Retractationes sono un’opera molto ampia fino al periodo in cui Agostino cambia la
sua teologia e passa da una teologia del libero arbitrio – Dio punisce chi è cattivo e premia chi
è buono - ad una teologia della grazia indebita – Dio dà la Sua grazia a chi vuole senza
alcun merito.
Quest’opera divide in due l’opera di Agostino. Noi ci accorgiamo che le Retractationes sono
un’opera molto dettagliata riguardo alle opere giovanili che arrivano fino al 397. Al contrario, dal
397-398, cioè dalle Confessioni, fino al 427 - sono trent’anni - le correzioni sono
minime, perché nel primo libro deve correggere una teologia che ormai ha abbandonato e superato e quindi
è quella sostanziale teologia che Agostino ritratta.
Riguardo alle altre, nel secondo libro, che sono le opere che lui chiama “dell’episcopato”,
scritte cioè quand’era vescovo, cioè successive a questa svolta teologica che lui ha avuto
quando è diventato vescovo, le annotazioni e le correzioni sono marginali, culturali, molto meno interessanti.
Quindi, teologicamente Agostino ritratta niente affatto tutto, ma soltanto la sua teologia giovanile, che corregge
affermando che lì aveva sbagliato perché Dio ancora non gli aveva rivelato la grazia indebita.
E’ un’opera anche questa straordinaria, l’uomo che sente l’esigenza di dare coerenza a
tutto ciò che ha scritto, di trovare il filo della grazia come il filo sistematico della sua ricerca
teologica. Nel 1600 ci fu una polemica giansenista e si arrivò a dire che Agostino era il più
grande teologo, eccezion fatta per le sue opere sulla grazia; questo lo diranno i Gesuiti, nemici mortali di Agostino
e dell’agostinismo.
I Gesuiti, nel loro geniale pragmatismo, prendono alla lettera Agostino, precisando quello che ha detto e quindi
sostenendo la necessità di abbandonarlo riguardo alle opere sulla grazia. Ovviamente è una
prospettiva troppo dura che la Chiesa cattolica non se la sente di accettare e quindi viene accantonata, però
è una tesi fortissima. Agostino, invece, ha considerato la sua teologia della grazia il cuore della sua
teologia, non è una parte della sua teologia, perché è il segreto di tutta la sua indagine
su Dio.
Dire che Dio è Spirito Santo, significa dire che Dio è grazia. Come facciamo a parlare quindi della
Trinità, senza dottrina della grazia? A parlare di antropologia, di teologia, di esegesi, senza dottrina
della grazia? In tutte le esegesi agostiniane, per esempio le esegesi intorno al Vangelo di Giovanni, che è
un’opera straordinaria, che fonda la spiritualità della mistica occidentale in maniera radicale, si
parla continuamente di predestinazione, redenzione e grazia. Quindi, che specie di Agostino rimane, se noi
togliamo la grazia che è la lente, lo sguardo che ti fa capire come Dio operi nei confronti della
creazione? Anche il De civitate Dei e il De Trinitate sono intrise della dottrina della grazia
predestinata. Quindi, la posizione polemica dei Gesuiti era scarsamente proficua da un punto di vista teologico.
Domanda del pubblico:
9) Se un peccatore incallito va a confessarsi dal sacerdote che rappresenta in quel momento Dio, si pente dei
suoi peccati ed è assolto dal sacerdote che assolve nel nome di Dio, come è considerato da Dio se la
Grazia non è concessa?
Risposta:
No, il peccatore incallito si va a confessare, viene assolto e perdonato dal sacerdote solo perché la
Grazia lo ha toccato, cioè la Grazia è il motivo, la causa, la scossa del suo pentimento e della
sua conversione.
Domanda del pubblico:
10) Quindi la Grazia non è data all’inizio della vita, può essere data in qualsiasi
momento!
Risposta:
Agostino muore facendo appendere nella sua stanza i salmi penitenziali, testi straordinari, poetici, in cui
l’anima grida al Signore il suo peccato, la sua disperazione ed invoca l’intervento di Dio. Ce lo
racconta il suo biografo, invoca e prega Dio chiedendogli di non togliergli la Sua grazia. La grazia, quindi,
può essere tolta ad Agostino stesso, vedete la coerenza dell’uomo, questo è veramente un
mistico. La coerenza di quest’uomo – Agostino - dice sempre: “Non inorgogliamoci mai della
nostra fede perché la fede è un dono non un possesso e anzi guardiamo al peccatore e pensiamo che
Dio può aver eletto lui e tolto a me la Grazia”.
Vedete quindi quanto la dottrina della Grazia di Agostino o della predestinazione non sia affatto la
dottrina che dice: “Noi siamo i puri e gli altri sono i dannati” ma tende a scansare qualsiasi quiete o
possesso da parte dell’uomo. Ecco l’inquieto cuore dell’uomo, inquietudine, la santa
inquietudine: perché l’uomo è sempre inquieto? Perché l’uomo non ha mai nelle sue
mani il suo destino, proprio perché il destino autentico dell’uomo, la sua autentica libertà
è solo il dono - questo è proprio quello che ci interessa di Agostino. Guardate per Agostino
l’uomo non è libero perché fa ciò che gli pare, ma l’uomo è libero se capisce
che tutto ciò che è, è dono, come dice Bernanos nel Diario di un curato di campagna:
Tutto è Grazia e muore presso un prete che praticamente ha rinnegato la sua vocazione, che convive.
Quindi “tutto è Grazia” e lo dice lì, cioè lo dice nel luogo della massima perdita
apparente di fede. “Tutto è Grazia” quindi, tutto è perdonato e, in qualche modo, Agostino,
è iperbolico da questo punto di vista.
[1] Shakespeare, Re Lear, Atto V, sc. III.