L’intervista inedita che presentiamo on-line è stata curata dal Centro culturale Gli scritti, in occasione della pubblicazione del libro del prof.Marco Cursi, Il Decameron: scritture, scriventi, lettori. Storia di un testo, Roma, Viella, 2007. Marco Cursi è ricercatore presso la cattedra di Paleografia latina della Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma ed è autore di numerosi contributi incentrati sulla tradizione delle opere di Giovanni Boccaccio e sui meccanismi di trasmissione manoscritta in botteghe di cartoleria nella Firenze nei secoli XIV e XV.
Il Centro culturale Gli scritti (13/9/2007)
Quali manoscritti autografi del Decameron
ci sono pervenuti?
È giunto fino a noi un solo testimone autografo del Centonovelle,
il manoscritto Hamilton 90, conservato presso la Biblioteca di Stato di Berlino.
Si tratta di un codice in membrana – la materia di scrittura più
diffusa nel Medioevo – di dimensioni medio-grandi, integralmente di mano
dell’autore; Boccaccio si serve di una scrittura inconfondibile, definita
dai paleografi “semigotica”; si tratta di una tipologia grafica
piuttosto simile alla gotica ma caratterizzata da maggiore ariosità e
da un contrasto di tracciato meno pronunciato, una scrittura piuttosto simile
a quella utilizzata in quegli stessi anni da Francesco Petrarca. La storia di
questo eccezionale testimone è piuttosto avventurosa: fu confezionato
dal Boccaccio nei suoi ultimi anni di vita (intorno al 1370) ma ben presto se
ne persero le tracce. Ricomparso nei primi anni del Cinquecento nella Firenze
dei Medici, da quel momento è stato a disposizione dei letterati e degli
studiosi interessati al capolavoro della narrativa trecentesca. Anche Pietro
Bembo ebbe la possibilità di consultarlo, tanto che appose una nota in
margine al codice; il grammatico e linguista veneziano, però, come i
suoi contemporanei e tutti coloro che ebbero la possibilità di avere
tra le mani il manoscritto nei secoli seguenti, pur ritenendo il testimone berlinese
un codice di ottimo livello quanto alla resa testuale, non lo considerarono
mai come l’originale del Decameron. Nell’Hamiltoniano,
in effetti, si leggono alcuni errori che non erano ritenuti compatibili con
una copia d’autore; un esempio celebre viene dalla novella settima della
seconda giornata, nella quale si raccontano le incredibili peripezie vissute
da Alatiel, la figlia del sultano di Babilonia. Il nome di uno dei suoi
spasimanti, Marato, in un caso è reso nel codice berlinese con
marito; siamo quindi dinanzi ad un tipico errore derivante da una banalizzazione,
secondo una dinamica di copia che può essere attribuita ad un copista
ma certamente non all’autore. L’interesse intorno all’Hamiltoniano
si riaccese agli inizi degli anni ’30 del Novecento, quando il codice
fu inviato a Firenze per essere esaminato da uno dei più grandi critici
letterari del tempo, Michele Barbi, che tra l’altro era un esperto conoscitore
della scrittura del Boccaccio. Il primo incontro tra l’anziano professore
e il manoscritto berlinese fu breve e memorabile: i presenti raccontano che
il Barbi, dopo aver sfogliato il codice quasi distrattamente, dato un rapido
sguardo, lo attribuì senza alcuna esitazione alla mano dell’autore,
con un giudizio che non concedeva spazio ad ulteriori dubbi: «È
lui, e non dei primi, ma piuttosto degli ultimi anni». Passati tre lustri,
ormai nel primo dopoguerra, tale ipotesi di autografia, affermata dalle caratteristiche
della scrittura ma negata dalla presenza di errori come quello segnalato sopra,
animò il dibattito tra gli studiosi, specialmente grazie ad alcuni interventi
di un allievo di Barbi, Alberto Chiari, strenuo sostenitore della paternità
boccaccesca del codice; alla sua tesi, però, non fu concesso molto credito.
Soltanto nel 1962 avvenne il definitivo riconoscimento; anche in questo caso
fu necessaria una trasferta del manoscritto (nel frattempo depositato
a Magdeburgo, dopo essere stato sottratto alla biblioteca berlinese per evitare
la sua dispersione negli anni caotici della seconda guerra mondiale). Un altro
studioso italiano, Vittore Branca, ebbe la possibilità di far arrivare
il codice in Biblioteca Marciana, a Venezia, e dopo averlo studiato attentamente
insieme all’amico Pier Giorgio Ricci fu in grado di sciogliere definitivamente
ogni riserva, identificando la mano con quella dell’autore, Giovanni Boccaccio.
Come venne risolta, allora, la questione degli errori?
Quelle sviste effettivamente comparivano nelle carte del codice, ma non erano
attribuibili al Boccaccio. La scadente qualità della membrana utilizzata,
infatti, aveva determinato fin dagli anni immediatamente successivi alla copia
un distacco di molte zone di scrittura, che erano state sostituite da integrazioni
di ripassatori quattrocenteschi; a questi anonimi restauratori si deve
assegnare la responsabilità degli errori che per molti anni avevano di
fatto reso impossibile qualsiasi ipotesi di autografia.
Il codice hamiltoniano, dunque, è un autografo risalente agli ultimi
anni di vita dell’autore; cosa pensare, allora, della tesi di chi sostiene
che Boccaccio, dopo il 1350, avesse deciso di bruciare la sua opera?
Quando il Decameron venne scritto, subito dopo la terribile esperienza
della peste nera del 1348, Boccaccio non temeva certamente di aver dato alla
luce un’opera pericolosa per la moralità dei suoi lettori, poiché
aveva approntato uno strumento apposito per delimitare nettamente i confini
tra letteratura e vita, la cornice. Non si dimentichi, infatti, che la
separazione tra le vite di cui si ragiona e la vita reale dei
giovani che di quei racconti sono al tempo stesso produttori e fruitori è
netta. La brigata, in altre parole, non corre il rischio di recepire i comportamenti
talvolta scandalosi che le novelle del libro che si denomina prencipe Galeotto
propongono: per dirla con Lucia Battaglia Ricci, le varie Pampinea, Fiammetta,
Elissa, ecc., non possono cadere nel tragico errore che segnò per sempre
l’esistenza della lettrice di provincia Francesca, che nella Commedia
dantesca è colpevole di aver scambiato letteratura e vita. Con il passare
degli anni, però, eventi come gli incontri con il Petrarca (avvenuto
nel 1350), l’assunzione della dignità ecclesiastica (intorno al
1360), l’accettazione di incarichi di alto prestigio a servizio del Comune
potrebbero aver scalfito la fiducia che l’autore nutriva verso la capacità
di discernimento dei suoi lettori e soprattutto delle sue lettrici – pur
sempre esposte alla tentazione di divenire preda di un “desiderio mimetico”
–e suscitato in lui scrupoli di carattere moralistico. Ciò determinò
a mio parere non il ripudio dell’opera, ma un tentativo di orientarne
in qualche modo la diffusione, riservandola ad uno specifico strato di lettori
che sapesse leggerla, senza ricavarne motivo di scandalo. Ad attestarlo
è la tradizione manoscritta stessa, che negli anni in cui il Boccaccio
è ancora vivente appare strettamente orbitante intorno alla figura dell’autore;
i pochi codici superstiti anteriori al 1375, infatti, sono riconducibili a copisti
e lettori-possessori che ebbero rapporti di conoscenza diretta con il Boccaccio
o con persone che, a diverso titolo, gli furono vicine in diversi momenti della
sua vita. In altre parole è da escludere che l’autore avesse rinnegato
la sua opera maggiore (del resto continuò a rivedere il testo con un’accuratissima
revisione fino agli ultimi mesi di vita, secondo quanto è dimostrato
dal codice Hamilton 90), ma forse tentò di promuovere una diffusione
controllata del Decameron. Si trattava, come è ovvio, di
un tentativo destinato ad un inevitabile fallimento; fu, paradossalmente, la
morte ad eliminare ogni impedimento consegnando all’entusiasmo dei contemporanei,
senza altri ostacoli, l’amatissimo e galeotto Centonovelle.
Esistono mss. antecedenti la fissazione definitiva del testo?
Il Decameron fu presumibilmente composto dal Boccaccio tra il 1348 e
il 1353; alcuni studiosi sostengono che il Boccaccio elaborò almeno due
redazioni dell’opera lungo un arco di tempo che si estese fino agli ultimi
mesi di vita; altri affermano invece che si può parlare al massimo di
una serie, sia pure ricchissima e del tutto significativa, di varianti d’autore.
In ogni caso, sono sopravvissuti tre manoscritti sicuramente anteriori all’autografo
hamiltoniano. Il più antico è un codice conservato presso la Biblioteca
Nazionale Centrale di Firenze (con la segnatura II, II, 8) un manoscritto che
– paradossalmente – non contiene il Centonovelle ma un “altro”
Decameron, costituito non secondo l’impianto, l’ordinamento
e la struttura concepita dall’autore, ma accostando parti della raccolta
novellistica originariamente destinate a rimanere ben separate tra loro da un
anonimo compilatore (e copista?) di origine fiorentina, che ho avuto modo di
identificare in un mio studio di qualche anno fa. La più spinosa questione
posta dal frammento è senza dubbio quella relativa alla logica
– apparentemente incomprensibile – che si cela dietro alle scelte
di carattere contenutistico: in esso, infatti, sono state trascritte soltanto
le “conclusioni” delle giornate I-IX del Decameron (con le
relative ballate) e la novella decima della nona giornata; il tutto è
abilmente connesso mediante brevissime parti di raccordo, opera dell’anonimo
tessitore di questo intreccio, al quale dobbiamo attribuire anche
un ampio proemio, posto nelle carte iniziali (cc. 20r. -21r.), nelle quali è
celebrata l’intera attività letteraria del Boccaccio, definito
come ancora vivente. Indizi di carattere paleografico e codicologico inducono
a datare questo enigmatico testimone ai primissimi anni ’60 del Trecento.
L’identificazione della mano del copista, che ho potuto effettuare qualche
anno fa, con quella di un anonimo funzionario che lavorava a servizio di Lapa
Acciaiuoli, la sorella del potentissimo Nicola (un mercante fiorentino trapiantato
a Napoli che in quel periodo aveva assunto la funzione di plenipotenziario del
Regno angioino), conferma questa indicazione cronologica e lascia intendere
che – sorprendentemente – il più antico testimone del Decameron
non è di origine fiorentina, ma napoletana (pur se posseduto e forse
commissionato da fiorentini che lavoravano nella capitale del Regnum).
Gli altri due testimoni sono ugualmente di grande suggestione: il primo è
un manoscritto conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, sottoscritto
da un giovane copista fiorentino, Giovanni d’Agnolo Capponi, ed è
databile intorno al 1365. La particolarità di questo esemplare sta nel
fatto che è arricchito da 18 bellissime illustrazioni ad acquarello,
che con ogni probabilità furono realizzate dall’autore stesso.
Saremmo, quindi, in presenza di un idiografo, un manoscritto cioè
non propriamente autografo ma realizzato sotto il diretto controllo dell’autore.
Il secondo è un testimone frammentario, formato da 35 carte contenenti
ampie sezioni dell’opera, riportate alla luce più di un secolo
fa da un avvocato e bibliofilo piacentino, Fabio Vitali, che le aveva riportate
alla luce dopo averle intraviste al di sotto delle coperte dei piatti di uno
dei libri della sua collezione, un’edizione quattrocentesca dei Sermones
quadragesimales di fra’ Leonardo da Udine. Il frammento di Piacenza
può essere datato, grazie all’analisi della tipologia grafica e
delle filigrane, alla metà degli anni ’60 del Trecento e si presenta
come un codice particolarmente prezioso, poiché una serie di indizi di
carattere paleografico e testuale lascerebbero intendere l’uso di un antigrafo
d’autore e una probabile supervisione delle operazioni di copia effettuata
in prima persona dallo stesso Boccaccio.
Tornando al codice parigino, il Boccaccio, dunque, era anche disegnatore?
Certamente non un professionista del disegno, ma un dilettante di genio, che
si divertiva ad aggiungere frequentemente in margine ai codici che passavano
per il suo scrittoio manicule (vale a dire manine di foggia molto elegante,
con l’indice puntato a segnalare una sententia o un luogo testuale
ritenuto significativo) o altri segni d’attenzione come fiorellini, faccette,
parentesi graffe con elementi a forma di conchiglia. In qualche caso, poi, egli
inserì vere e proprie illustrazioni, in codici di sua mano o in manoscritti
copiati sotto la sua supervisione, come il Decameron della Biblioteca
Nazionale di Parigi. L’immagine più significativa tracciata nel
codice parigino è probabilmente quella collocata nella carta incipitaria
(con il termine si intende la carta iniziale, nella quale cominciava la trascrizione;
nei codici medievali, infatti, non esisteva nulla che potesse essere comparato
ai frontespizi delle edizioni a stampa moderne): immediatamente al di sopra
della rubrica nella quale era indicato il titolo dell’opera (“Comincia
il libro chiamato Decameron, cognominato prencipe galeotto...”), sono
raffigurate due coppie di innamorati a cavallo, poste l’una di fronte
all’altra. Secondo una suggestiva ipotesi di Daniela Delcorno Branca,
i personaggi di destra, stretti in un forte abbraccio, potrebbero essere Lancillotto
e Ginevra, quelli di sinistra Galeotto e la dama di Malehaut. Il Boccaccio,
dunque, in un punto di grande importanza strategica del manoscritto, avrebbe
voluto raffigurare il personaggio-sottotitolo dell’opera, quel principe
Galeotto protagonista dell’episodio più famoso del romanzo
francese Lancelot, che Dante aveva stigmatizzato nel canto quinto dell’Inferno
(nel quale Galeotto è chiamato il libro che Paolo e Francesca
leggono per diletto e che consentirà il manifestarsi di una passione
che li porterà alla dannazione eterna). Se tale interpretazione fosse
corretta, la suggestione romanzesca, veicolo di peccato nella Commedia,
verrebbe riproposta e reinterpretata in una nuova accezione all’inizio
della sua opera maggiore. A ciò si aggiunga che immediatamente al di
sotto, all’interno dell’iniziale, è tracciato un ritratto
del Boccaccio, rappresentato come un maestro in cattedra con il mano il volume
dell’opera, declamata dinanzi ad un folto pubblico in cui, in prima fila,
spiccano le donne, indicate dal Boccaccio stesso nel Proemio come le
destinatarie privilegiate del Decameron.
Lei ha studiato, in particolare, la diffusione dell’opera maggiore
del Boccaccio. Chi erano i copisti del Decameron?
Il Centonovelle (così come spesso veniva denominato nei manoscritti
trecenteschi e quattrocenteschi) ebbe un’ampia diffusione soprattutto
all’interno del ceto mercantile; per molto tempo si è ritenuto
che l’opera fu trascritta quasi esclusivamente da copisti per passione
– secondo una felice definizione messa a punto ormai quasi mezzo secolo
fa da Vittore Branca – persone di cultura tecnica e mercantile, privi
di conoscenza del latino, abituate a scrivere per apprendere, per divertirsi,
per educarsi religiosamente, ma soprattutto a scrivere da sé e per sé.
Le radici di tale fenomeno affondano fino al sec. XII, ma trovano le loro prime
significative espressioni soprattutto nel Duecento, quando, con la conquista
da parte del volgare italiano del diritto alla scrittura rinasce la figura
dell’alfabeta libero di scrivere “al di fuori di precise funzioni
sociali o di obbliganti costrizioni giuridiche” (A. Petrucci); in sostanza,
arriva un momento in cui non occorre più essere maestri, scribi, chierici,
giudici, notai, professori per potersi dedicare ad un’attività
di scrittura, ma basta semplicemente essere alfabeti, cioè capaci di
farlo. Alla metà del sec. XIV la presenza di questo nuovo
pubblico di lettori (e potenziali scriventi), costituito principalmente da laici
dell’Italia comunale appartenenti al ceto mercantile, artigianale o professionale,
si fa consistente e così la pratica della scrittura per la lettura
diviene consuetudine ampiamente diffusa e dà origine ad una produzione
quantitativamente rilevante, in grado di costituire una concreta alternativa
all’opera degli scribi professionali, e specialmente di quelli più
legati alla antica tradizione monastica o alla più recente editoria
universitaria. Se già nella diffusione della Commedia il numero
dei copisti per passione era andato progressivamente crescendo, la natura
stessa del Decameron, in quanto epopea della borghesia mercantile
in fortissima ascesa, lo rendeva fin dalla prima circolazione – immediatamente
successiva alla morte dell’autore – oggetto privilegiato dell’attenzione
di chi con la pratica dell’autoscrittura di testi letterari esprimeva
non soltanto un interesse appassionato per la narrazione novellistica in se
stessa, ma anche un’espressione visibile da un lato delle proprie aspirazioni
culturali e dall’altro di attitudini grafiche da ostentare orgogliosamente,
forse proprio perché maturate in ambienti lontani dai tradizionali centri
di formazione scolastica di livello superiore. Il ruolo rivestito dall’autoscrittura
nella diffusione del Centonovelle, dunque, fu certamente determinante,
anche se non esclusivo o decisamente maggioritario, come si è ritenuto
per molti anni.
Nel ceto mercantile, in effetti, molti dovevano essere i potenziali lettori
che non erano in grado di affrontare l’esperienza di copiare personalmente
un testo letterario, sia per motivi di tempo sia per la loro stessa educazione
grafica, non sempre adeguata a compiere un’operazione che richiedeva una
notevole perizia scrittoria e la conoscenza di precisi canoni formali nell’organizzazione
della pagina. Tale ampia fascia di mercatanti, provvisti di una cultura
grafica fatta soprattutto di scritture economiche e di documentazione privata,
aveva bisogno di referenti ai quali rivolgersi per ordinare un Decameron,
una Commedia, una Cronica del Villani o una qualsiasi altra opera
della nuova letteratura in volgare. Dunque, è ragionevole supporre che
negli anni e nei luoghi nei quali la pratica dell’autoscrittura di codici
volgari in mercantesca cresceva in progressione rapida e costante, il mercato
del libro, molto più flessibile e articolato di quanto non si ritenga
comunemente, si venisse attrezzando in modo tale da poter rispondere a queste
nuovissime esigenze. Tale sistema di produzione e distribuzione del manoscritto
prevedeva diverse modalità, a mio avviso fondamentalmente riconducibili
a tre possibili situazioni:
La maggior parte dei codici appartenenti a tale circuito di
produzione, sviluppatosi per la letteratura volgare dalla metà del Trecento
fino alla diffusione della stampa e oltre, era di livello esecutivo basso: materiale
scrittorio cartaceo, decorazione modesta o completamente assente, tipologie
grafiche mercantesche, cancelleresche o ibride. La circostanza che tali
manoscritti fossero sottoscritti molto di rado, presumibilmente per sfuggire
a controlli di carattere fiscale, ne ha determinato l’inevitabile dispersione
e ha reso la loro individuazione piuttosto difficile: identificare un codice
trascritto su commissione è possibile da un lato basandosi sulla rilevazione
di particolari abitudini di copia, dall’altro affidandosi ad una sistematica
esplorazione della tradizione manoscritta di una determinata opera; l’attribuzione
alla stessa mano di più codici rappresenta, a tale riguardo, un segnale
molto significativo, per non dire decisivo. L’applicazione di tali criteri
di ricerca mi ha consentito di identificare un buon numero di manoscritti decameroniani
appartenenti a tale circuito di produzione, che nella diffusione dell’opera
ebbe un peso pari, se non addirittura maggiore, a quello della copia per
passione.
Ci sono anche dei casi che non rientrano nelle due categorie principali della
copia per passione e della copia a prezzo?
In effetti alcune eccezioni ci sono; il caso più singolare è senza
dubbio quello di un monaco che si fa copista del Decameron: egli si sottoscrive
(in latino) in calce al codice Banco Rari 37 della Biblioteca Nazionale Centrale
di Firenze (n° 25) e specifica di appartenere all’ordine benedettino:
Qui finisce la decima et ultima giornata del Decameron, cogniominato principe
Ghaleotto, conpilato per messer Giovanni Bocchacci da Certaldo. Deo gratias.
Amen. Quis scripxit hunc librum collocetur in paradisum. Manus scriptoris salvetur
omnibus oris. N. Hoc librum expletum fuit die XXV mensis Iulii 1396 per me,
domno N monachum ordinis Sancti Benedictiti (così). Amen. Deo
gratias. Amen. N. Nicolaus
Nicolaus – secondo le abitudini grafiche del mondo monastico, nel
quale esisteva una stretta correlazione tra le dimensioni del manoscritto e
quelle della scrittura – scrive in una gotica dal corpo delle lettere
grande e dal tracciato spezzato. Pur essendo innegabile che il problema dei
rapporti intercorsi tra le opere boccacciane in volgare e il complesso universo
monastico e conventuale nel corso del sec. XV è ancora tutto da studiare
(si pensi, al riguardo, alla vicenda editoriale di uno dei più antichi
libri a stampa decameroniani, finito di stampare il 13 maggio del 1483 nel convento
fiorentino delle monache di San Jacopo a Ripoli), la singolarità di questo
codice è indubbiamente dovuta all’antinomia esistente tra lo status
di religioso del copista e l’interesse per un’opera come il Decameron,
che aveva i propri punti di forza ideologici da un lato nell’omaggio alle
donne e dall’altro nella polemica contro il clero e in qualche misura
anche contro la letteratura di argomento devozionale. Piuttosto oscure si presentano
anche le circostanze nelle quali si svolse l’opera di copia: Nicolaus,
infatti, non operò da solo ma con l’aiuto di un altro copista che
fa la sua apparizione alla c. 101r. Davvero singolare la divisione del lavoro
di copia tra Nicolaus e il copista della mano B: i due si alternano continuamente
– un’analisi approfondita del manoscritto mi ha permesso di scoprire
ben 136 cambi di mano – e sembrano lavorare con ritmi molto diversi: i
passi trascritti da Nicolaus sono generalmente più brevi e molto
spesso corrispondono a 42 righe, cioè ad una completa colonna di scrittura;
le ultime 14 carte, però, sono interamente copiate di sua mano, quasi
che il monaco volesse riappropriarsi della paternità di quel codice che
egli solo ha poi sottoscritto.
Anche se finora non è stato possibile identificare altri manoscritti
di mano di Nicolaus, credo sia lecito ipotizzare che egli abbia trascritto
il codice decameroniano non per se stesso, ma in seguito ad una commissione
esterna all’istituzione monastica cui apparteneva. Se infatti la copia
di un Decameron – condotta con una certa difficoltà e con
ritmi di lavoro irregolari, come lascerebbero intendere le continue interruzioni
e la inconsueta divisione del lavoro cui si faceva cenno sopra – poteva
forse essere tollerata sul finire del sec. XIV anche in un monastero benedettino,
specialmente se situato in un contesto urbano, la conservazione del Centonovelle
in una biblioteca monastica era sicuramente meno accettabile e agevole. Non
è certamente facile identificare il luogo in cui si poterono realizzare
le condizioni favorevoli ad un’operazione di tal genere; una pista di
ricerca che potrà essere battuta con qualche probabilità di successo
potrebbe ricondurre al monastero fiorentino della Badia, soprattutto in considerazione
degli stretti rapporti di collaborazione intrattenuti con le tante botteghe
di cartoleria che avevano sede nelle sue immediate vicinanze o addirittura in
locali appartenenti al monastero stesso.
Cosa possiamo sapere dai manoscritti autografi di Boccaccio dantista?
Boccaccio fu probabilmente il più grande conoscitore delle opere dantesche
nel corso del secolo XIV; a testimoniarlo, oltre agli echi delle opere di Dante
che si colgono in tutti i suoi scritti, la sua attività di copista e
in qualche maniera di editore della Commedia, della Vita
Nova, di parte delle Rime, delle Egloghe e di alcune Epistole.
Particolare importanza hanno le tre copie della Commedia, che egli trascrisse
tra il 1350 e il 1365, ancora oggi a nostra disposizione in manoscritti conservati
a Toledo (Biblioteca Capitolare, ms. Zelada 104.5), Firenze (Bibl. Riccardiana,
cod. 1035) e nella Città del Vaticano (Biblioteca Apostolica Vaticana,
cod. Chigi L.VI.213). Al di là dei complessi problemi di carattere testuale,
questi tre esemplari colpiscono per la bellezza della scrittura, e, in un caso
(quello del codice fiorentino) per la presenza di sette illustrazioni ad acquerello
che sono attribuibili – con qualche dubbio – alla mano del Boccaccio.
Non si dimentichi, inoltre, che il Certaldese compose anche una importante biografia
dantesca (il De Origine vita studiis et moribus clarissimi Dantis Aligerii...),
che nel 1350 la Compagnia di Orsanmichele gli affidò l’incarico
di consegnare dieci fiorini d’oro alla figlia di Dante, Beatrice, monaca
nel monastero di Santo Stefano dell’Uliva di Ravenna, a titolo di risarcimento
simbolico per i danni subiti dalla famiglia con la confisca dei beni del padre
(decretata dal comune di Firenze quasi mezzo secolo prima), e che, infine, nel
1373 egli intraprese un ciclo di letture pubbliche della Commedia nella
chiesa di Santo Stefano in Badia, a Firenze, interrotte dopo pochi mesi a causa
di una fastidiosa malattia. In definitiva, per dirla con Giorgio Padoan, il
Boccaccio fu per eccellenza “il fedele di Dante: il maestro (egli proclamava)
«dal qual io / tengo ogni ben, se nullo in me se posa»(Amor. Vis.
VI 2-3)”.
Per concludere, quali rapporti ebbe con Petrarca?
Il Boccaccio ebbe relazioni di grande amicizia nei confronti di Francesco Petrarca,
che incontrò per la prima volta a Firenze nel 1350 e poi ripetutamente
a Milano, Venezia e Padova; sono proprio i manoscritti a consentirci di sorprendere
i due letterati allo stesso tavolo di lavoro: si pensi, ad esempio, al caso
del cosiddetto Plinio parigino (Bibliothèque Nationale de France,
cod. 6802, contenente la Naturalis historia), in margine al quale è
stata aggiunta una celeberrima rappresentazione di Valchiusa (luogo amatissimo
da Petrarca, nei pressi di Avignone, in cui soggiornò per molti anni),
raffigurante una chiesetta posta su una rupe, ai piedi della quale scorre acqua
sorgiva, accompagnata dalla celeberrima figura d’uccello con un pesce
in bocca e dall’altrettanto nota postilla petrarchesca Transalpina
solitudo mea iocundissima. Recenti ricerche compiute da Maurizio Fiorilla
sembrano aver attestato definitivamente quanto alcuni studiosi sostenevano da
tempo, cioè che il disegno – tradizionalmente attribuito al Petrarca
– sia invece di mano del Boccaccio, che, dunque, insieme al Petrarca,
in occasione di uno dei loro incontri, svoltosi a Milano nel 1359, avrebbe “pianificato
lo spazio che figura e annotazione dovevano occupare nella pagina”. A
ciò si aggiunga che il Boccaccio regalò diversi libri al Petrarca,
come un grande manoscritto della Commedia (non di sua mano, ma fatta
eseguire da un copista a prezzo) ancora oggi conservato presso la Biblioteca
Apostolica Vaticana (cod. Vat. lat. 3199). Quanto, infine, alla sua opera maggiore,
egli non pensò mai di fare dono del Decameron al suo maestro;
la circostanza può apparire sorprendente, ma sembra attestata da un’epistola
indirizzata da Petrarca al Boccaccio stesso, la Senile dei primi mesi
del 1373 (Sen. XVII, 3), che testimonia il recente e casuale arrivo di
un manoscritto del Centonovelle nella sua biblioteca. In questa lettera
il Petrarca da un lato manifesta un divertito distacco nei confronti dell’opera
dell’amico, ma d’altro canto sancisce uno straordinario riconoscimento
dei meriti del Decameron, poiché annuncia la realizzazione della
traduzione in latino (con la conseguente trasfigurazione in senso esemplaristico-morale)
dell’ultima novella (Dec. X, 10), in cui è narrata la storia
di Griselda. Sembrerebbe, dunque, che egli apprezzò il Centonovelle,
ma ne portò avanti una lettura fortemente selettiva; ciò, del
resto, probabilmente non dispiacque al Boccaccio degli ultimi anni, tutto preso
dal suo progetto di stretto controllo della prima diffusione dell’opera.
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