L’esperienza di gruppo caratterizza ormai da decenni la proposta
che le parrocchie italiane offrono, in particolare ai giovani ma poi ad ogni fascia di
età, come primo luogo in cui vivere esperienzialmente e – così almeno
dovrebbe essere – riflessivamente la dimensione ecclesiale della fede.
Presentiamo on-line due contributi dei primi anni ottanta dovuti al sociologo Franco
Garelli, su questo tema. Il mutato clima culturale ed ecclesiale non toglie forza e
validità a molte delle provocazioni che ci vengono da questi due brevi testi.
Qui e là appare anche la prospettiva teologica, ma, ovviamente, il taglio è
sociologico e non può soffermarsi su elementi fondanti dal punto di vista
ecclesiologico, che vanno poi ad intersecarsi, nel vissuto parrocchiale, con i punti
affrontati, vedi, fra tutti, il rapporto con la celebrazione eucaristica, sorgente e nutrimento
della vita ecclesiale.
Per una integrazione con questi temi, vedi, su questo stesso sito nella sezione
Approfondimenti, il VII gruppo di testi antologici del Papa Benedetto XVI, sul tema della
Chiesa.
Il primo testo che presentiamo è tratto da Note di pastorale giovanile (NPG 6/1982,
pagg.39-45). Il secondo da Responsabilità giovani (Responsabilità giovani 7/1981,
pagg.45-57). Quest’ultimo è la trascrizione di una relazione tenuta per
l’Azione Cattolica Italiana, tratta dalla viva voce dell’autore e non da lui
rivista. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line
dei due articoli.
Centro culturale Gli scritti (17.07.2006)
Nonostante il mutare dei tempi il gruppo come momento aggregativo e come
spazio privilegiato per una proposta educativa sembra mantenere una elevata
validità.
Per i giovani l'esperienza di gruppo appare fondamentale, in quanto essi ritrovano a questo
livello una comunanza di condizioni di vita, un'omogeneità di situazioni, una
parità di rapporti, che permette loro di pienamente identificarsi in uno spazio di
autonoma espressione.
Agli educatori il gruppo appare una delle poche realtà in cui sia possibile trasmettere
dei contenuti e dei valori rispettando il “linguaggio giovanile”. I giovani infatti
danno molto peso, soprattutto in un contesto caratterizzato da forte pluralismo culturale (con
esiti di relativismo), da crisi di ampie prospettive, da eccedenza di proposte di vita
scarsamente traducibili nella prassi, all'esperienza, ricercando nelle pratiche di vita, negli
spazi in cui sono inseriti, nelle dinamiche della vita quotidiana, una concreta risposta alle
loro esigenze di identificazione e di socializzazione. L'esperienza del gruppo risulta
così sulla lunghezza d'onda delle loro attese, in quanto permette di fare pratica di
rapporti, di trovare di fatto una risposta al problema della sicurezza e dell'integrazione
sociale. Di fronte a questo dato molti educatori rivalutano il gruppo come uno spazio in cui
è possibile non separare i contenuti dall'esperienza, in cui fare una proposta
attraverso le concrete dinamiche relazionali.
Il gruppo può pertanto costituire un interessante «rendez-vous» tra giovani
ed educatori, tra soggetti che hanno nei confronti di esso diverse aspettative.
Infatti i giovani possono essere attenti a quelle esperienze di gruppo - anche organizzato -
che sono in linea con la loro condizione, che permettono loro di rispondere alle esigenze di
socializzazione, di sviluppo affettivo, di espressività. Parallelamente gli
educatori considerano il gruppo come un luogo privilegiato di mediazione tra le istanze
della personalità del giovane (proprio di chi si sta aprendo alla vita sociale) e quelle
della società complessa (con le sue sollecitazioni e il suo pluralismo culturale e di
esperienze), come un luogo di fondamentale importanza per una maturazione graduale e armonica
del giovane che risponda da un lato all'esigenza giovanile di protagonismo e di esperienza e
dall'altro lato all'interiorizzazione di proposte educative. In questa linea il gruppo
organizzato viene considerato un'occasione che si offre al giovane per orientarsi in senso
collettivo, pur avviando a soluzione i problemi della sua condizione.
Affermare la centralità del gruppo non significa ancora avere gli strumenti per impostare una corretta esperienza di gruppo. In molti casi nei gruppi religiosi ed ecclesiali, si dà poco peso a problemi di metodo nel fare gruppo, ponendo eccessiva fiducia nell'affinamento dei contenuti più che nell'impostazione e nella verifica di un metodo educativo. (...) Il «nodo» preso in esame in questo articolo è la differenza tra gruppi di appartenenza e gruppi di riferimento, un problema che continua ad angustiare molte realtà associative di base e che provoca - se non affrontato correttamente - molti disagi. Ma questo non è che uno dei problemi sul tappeto: altri (...) sono individuabili nella scelta che ogni gruppo deve effettuare tra:
In genere i gruppi ecclesiali vanno incontro ad una serie di rischi per non
aver chiara o per non rendere operante a livello associativo la distinzione tra appartenenza e
riferimento.
Il gruppo di appartenenza delinea una situazione in cui i membri risultano fortemente
coinvolti - in termini di tempo, di rapporti, di risorse - nella realtà associativa di
cui fanno parte. Il gruppo viene da essi vissuto per lo più come totalizzante o
fortemente impegnativo, in grado di dare senso al resto dell'esperienza personale e sociale.
In questo caso il confine tra vita di gruppo e vita personale e sociale e molto sottile,
ad indicare la tendenza da parte dei soggetti a far coincidere queste due realtà della
vita quotidiana.
Siamo pertanto di fronte ad un gruppo basato sui rapporti primari, sull'affettività,
omogeneo per quanto riguarda l'età e le problematiche degli appartenenti, che impegna
per lo più i membri ad un'assidua compresenza secondo una continuità che
identifica l'appartenenza al gruppo con lo stare, l'esserci, il condividere spazio e tempo, il
farsi compagnia.
Si tratta di un tipo di gruppo particolarmente adeguato per l'età
adolescenziale, la quale sempre più avverte nel tempo presente l'esigenza di
maturare una propria identità all'interno però del soddisfacimento dei bisogni
affettivi, relazionali, espressivi, amicali.
Anche la proposta religiosa, l'intento educativo, l'istanza di partecipazione sociale ed
ecclesiale... non possono prescindere da questa realtà di base, da queste esigenze
aggregative dei giovani. O si dà risposta ad esse, pur nell'intento di orientare
all'impegno, di far maturare un'identità sociale e religiosa, oppure le proposte
educative e religiose appariranno ai giovani eccessivamente lontane dalla propria
sensibilità, insignificanti per la propria condizione di vita. Il gruppo di
appartenenza che appare plausibile per la condizione adolescenziale, può invece
risultare "patologico" per la condizione giovanile o adulta. A questo livello occorrerebbe
infatti prefigurare una situazione di gruppi di riferimento.
Qual è l'identikit di un gruppo di riferimento?
Si intende in questo caso un gruppo centrato sui rapporti di tipo “secondario”,
nel quale l'adesione poggia non su aspetti di simpatia o di compresenza e di condivisione del
tempo e dello spazio, o su rapporti “faccia a faccia”, ma su aspetti, valori,
largamente condivisi e interiorizzati dai membri. Stiamo così delineando un gruppo
di adulti, di “giovani” maturi, i quali trovano motivo di appartenenza non nello
stare insieme, nell'interazione costante, nella condivisione fortemente coinvolgente della vita
quotidiana, nell'esserci... ma su una comune identità sociale e religiosa, su una
sensibilità «affine».
La specificità d'un gruppo di riferimento non è solo data dalla condivisione di
valori e di un'identità ma anche dall'esigenza del confronto, dalla revisione
comunitaria, dalla riflessione sulla rispondenza delle scelte pratiche al nucleo dei valori in
cui ci si riconosce. Il gruppo di riferimento quindi si distingue da un lato dal
“gruppo di appartenenza” in quanto è centrato più su aspetti
«secondari» che “primari” (più sulla condivisione dei valori che
sull'esigenza affettiva e relazionale), e dall'altro lato dal «gruppo di impegno»,
in quanto la sua finalità è più di confronto, di verifica, di maturazione
dei membri che non di incidenza sociale, politica o religiosa.
Qual è il senso attuale d'un gruppo di riferimento?
Anzitutto un tale gruppo appare oggi plausibile da un punto di vista sociale, richiesto
dalle condizioni socio-culturali in cui si vive. In una realtà complicata come
l'attuale, caratterizzata da elevati processi di mutamento, in cui i soggetti hanno sempre
più difficoltà a comprendere gli avvenimenti e a ridefinire la propria
identità esposta ad esiti dissociativi, i gruppi di riferimento si presentano come un
indispensabile momento di maturazione e di crescita per quanti non vogliono essere travolti e
frastornati dai mutamenti e dagli avvenimenti sociali.
In secondo luogo il gruppo di riferimento appare indispensabile anche relativamente
all'identità religiosa. Attualmente molti credenti avvertono la necessità di
ridare radici alla propria identità religiosa, considerando la dimensione religiosa come
una delle poche risorse disponibili che permettono di far fronte alla crisi dei significati e
delle prospettive.
Oltre a ciò il gruppo di riferimento religioso permette di contrastare il pericolo che
l'identità religiosa venga vissuta prevalentemente in termini soggettivi, secolarizzati,
troppo a misura delle attese e pre-comprensioni umane. Inoltre il gruppo di riferimento
può rappresentare un'inversione di tendenza rispetto all'orientamento prevalente nel
campo ecclesiale di impegnare immediatamente a livello pastorale le risorse umane disponibili.
Attraverso di esso, in altri termini, si può contrastare la tendenza al fare,
all'efficienza, alla realizzazione, alla “gestione”, che caratterizza per lo
più la «domanda» delle strutture religiose di base, per affermare in primo
luogo l'esigenza della ricerca spirituale, il primato della fede, la centralità
dell'istanza religiosa. Così delineato un gruppo di riferimento religioso è
composto da adulti inseriti in ambienti sociali e professionali diversi, aventi vocazioni
diverse, accomunati dall'esigenza di ricomporre la propria identità religiosa in uno
spazio comunitario. La comunità come luogo di memoria storica, come deposito dei
valori, come insieme delle varie componenti e delle diverse vocazioni, rappresenta il punto di
riferimento ideale, il luogo di verifica dell'identità ultima, lo spazio di
rigenerazione delle risorse, motivazioni e ideali, il momento in cui si confronta la
concretezza della propria storia - fatta di limiti, compromessi, asprezze, cadute,
velleità - con lo specifico dell'identità religiosa.
Il gruppo di riferimento pertanto non sostituisce l'impegno dei soggetti nella vita
quotidiana (nella famiglia, nel lavoro, nel sociale); anzi lo richiede: non diventa esso
stesso un gruppo di azione, di impegno sociale e politico, anzi si arricchisce della
diversità degli interventi e delle presenze sociali dei suoi membri; non mira a
uniformare - come risultato del confronto, dell'interazione - il comportamento dei
membri nei vari campi della morale e della presenza sociale, ma dà adito ad un confronto
su questi aspetti - alla luce dei valori condivisi - che lascia spazio per libere ed autonome
scelte da parte dei membri: non deve essere “troppo selettivo” tra
gli aderenti, in modo da permettere una proficua dialettica interna, e nello stesso tempo
non troppo diversificato, per evitare che vengano a mancare elementi di condivisione tra
i membri e si determinino eccessivi disturbi nella comunicazione.
In particolare il gruppo di riferimento dovrebbe essere composto da due
tipi di "vocazioni " che appaiono complementari e necessarie nella comunità
religiosal’area degli animatori (anche adulti) che oltre al loro impegno
professionale spendono il loro tempo libero prevalentemente in termini di servizio educativo
nella comunità (ai vari livelli del ciclo educativo) e l'area di quanti invece
non hanno rapporti educativi con la comunità e vivono la loro identità
religiosa soprattutto nella vita quotidiana e professionale (lavoro, famiglia, impegni
sociali e politici). La ricchezza di un gruppo di riferimento si può misurare dalla
compresenza e complementarità di queste due aree al suo interno, che esprimono vocazioni
e posizioni sociali e religiose diverse.
L'area degli animatori ricorda, a quanti sono impegnati nel sociale, l'esigenza - per la
sopravvivenza della comunità e per la fecondità della fede come valore - di un
impegno educativo in favore dei piccoli, l'importanza di un'azione formativa, la
centralità del lavoro di sensibilizzazione e di formazione (educativo e religioso) di
base. In tal modo ogni membro «esterno» viene richiamato alle radici della
comunità, all'esigenza della continuità dei valori religiosi nelle generazioni,
alla coscienza di una fede comunitaria.
Quanti hanno il loro impegno all'esterno della comunità ricordano in primo luogo
alla comunità stessa che lo sbocco dell'azione educativa è il mondo, che la
comunità non è fine a se stessa ma costituisce uno spazio-momento in cui i
soggetti si abilitano per poter poi vivere a pieno titolo nel sociale l'identità
religiosa; in secondo luogo essi ricordano a chi è in «formazione», ai
«più piccoli», che è possibile realizzare l'identità religiosa
nel sociale e nel politico, in terzo luogo essi riversano sulla comunità educativa le
loro tensioni, sensibilità e speranze, contribuendo in tal modo ad arricchire quanti in
essa hanno compiti specificatamente educativi, in modo che la loro proposta abbia a tener
presente - in termini di contenuti e di metodi - la situazione e le problematiche reali.
S'è detto in precedenza che una comunità che non sappia
differenziare al suo interno il livello associativo, operando una distinzione tra gruppi di
appartenenza e gruppi di riferimento, è una realtà che corre il rischio del
«patologico», utilizzando formule aggregative non adeguate alle
potenzialità, alle condizioni, alle esigenze dei soggetti che ad essa aderiscono. Se
ciò si verifica siamo di fronte ad un problema organizzativo non affrontando il quale
gli sforzi di affinamento dei contenuto o dei metodi educativi appaiono velleitari, non danno
ragione dei problemi realmente in atto.
Ogni qual volta si riscontrano adolescenti inseriti in un gruppo di riferimento o
«giovani maturi» o adulti che vivono la realtà dell'appartenenza,
abbiamo a che fare con disegni organizzativi «spuri» o
«patologici».
Infatti gli adolescenti sono costitutivamente estranei ad una logica di gruppo dì
riferimento in quanto hanno ancora da affrontare quei problemi di socializzazione e di
interiorizzazione di motivazioni e di valori religiosi, la cui risoluzione permette loro
quell'autonomia di vita propria di chi fa parte di una realtà di riferimento.
Così, parallelamente, i «giovani maturi» o gli adulti
«costretti» in un gruppo d'appartenenza, avvertono la ristrettezza di questo
modello di realizzazione rispetto ai campi sociali e alla pluralità di appartenenza a
cui la loro maturità lì chiama a vivere. Mentre per essi il gruppo di
appartenenza risulta troppo ristretto, eccessivamente costrittivo nelle dinamiche che produce,
per gli adolescenti il gruppo di riferimento appare «fuori quota», fuori misura,
rispetto alle loro esigenze e condizioni.
Si tratta pertanto di creare le condizioni organizzative, perché gli uni e gli altri
trovino a livello ecclesiale quegli spazi più connaturali con la propria
sensibilità, condizione e livello di maturazione.
Certo sulla scelta delle formule organizzative ha largo peso il tasso di
conoscenza psicologica presente nella comunità.
Infatti dietro l'esposizione di adolescenti in un contesto di riferimento si avverte la
carenza dì conoscenza circa la psicologia dell'età giovanile, il non
avvertire che gli adolescenti hanno necessità di realtà fortemente coinvolgenti,
in cui le dinamiche della vita quotidiana e quelle del gruppo a cui appartengono si fondono in
tutt'uno. Parallelamente nel perpetuare anche a livello di «giovani maturi» e di
adulti la formula dell'appartenenza non si tiene conto che il modello di realizzazione
personale di questi soggetti passa per lo più per la molteplicità delle
opportunità e appare refrattario alle proposte totalizzanti che li isolino in
particolari contesti.
Ma dietro la scarsa attenzione al mutamento - nelle coscienze - dei modelli culturali e alla
psicologia delle varie età della vita, si cela in molti casi una precisa
concezione della realtà e opzione teologica.
Alcune esperienze in cui si continua a proporre agli adulti o ai giovani maturi
un'appartenenza totalizzante al gruppo religioso, sono dettate dall'obiettivo di non disperdere
i soggetti nel sociale, dal timore della loro diaspora a contatto col mondo, dalla paura che
essi nell'autonomia di vita e di appartenenza, disperdano l'identità religiosa. In
questo caso, ad una visione della società in termini negativi, corrisponde per lo
più una concezione teologica di gruppo ecclesiale chiuso al suo interno, concluso in se
stesso più che aperto al sociale. Il gruppo ecclesiale appare così senza sbocchi,
centrato sulla sua riproduzione interna, scarsamente fecondo per la realtà in cui
è inserito. Così, parallelamente, nel non creare gruppi di appartenenza per
gli adolescenti può emergere una teologia della scarsa attenzione per le condizioni
storiche dei soggetti, per la realtà, i problemi, le tensioni che essi vivono.
La difficoltà nell'ambiente ecclesiale non riguarda soltanto la
capacità-possibilità di organizzare tipi di gruppo diversi a seconda delle
differenti tappe di maturazione dei soggetti (in questo caso a realizzare gruppi di
appartenenza per adolescenti e gruppi di riferimento per adulti e «giovani
maturi»); ma anche a «curare» il passaggio dei soggetti dal gruppo
d'appartenenza a quello di riferimento, a creare cioè le condizioni perché - col
diventare adulti dei componenti - il gruppo d'appartenenza esaurisca la sua funzione (almeno
per quei particolari soggetti) e perché questi trasformino il proprio legame in una
realtà di riferimento.
Nei gruppi ecclesiali infatti è questo un momento di passaggio in cui più si
registrano «punti di rottura», «situazioni critiche».
Una prima difficoltà si riscontra nella pressione dì
conformità del gruppo d'appartenenza a non permettere che alcun membro lasci il
gruppo. In certi casi si producono a questo livello vere e proprie fratture, preclusioni, verso
soggetti prima compagni di viaggio e poi considerati improvvisamente estranei perché non
possono più dedicare al gruppo la maggior parte del proprio tempo. In alcuni casi queste
preclusioni sono indirette ma ugualmente nette. Il fatto che qualche membro abbia maturato
altri impegni, abbia meno tempo a disposizione, presenti altri orientamenti ed appartenenze, fa
sì che il gruppo a poco a poco lo estranei dalle decisioni, dalla comunicazione, dalla
dinamica dei rapporti, relegandolo in una posizione di effettiva marginalità.
Una seconda difficoltà è legata all'abitudine all'appartenenza che
può aver ormai condizionato l'esperienza dei soggetti. In alcune realtà
d'appartenenza i rapporti primari mantengono la loro validità in tutti i vari stadi del
gruppo. Non si verifica, in altri termini, una progressiva diminuzione dell'aspetto
affettivo, della sicurezza reciproca, delle relazioni primarie... per lasciar spazio a poco a
poco alla condivisione di valori e di obiettivi. In tal modo i soggetti appaiono assuefatti
ad una realizzazione “particolare” di gruppo, per cui avvertono come negative le
proposte di sbocco in altre realtà associative che non abbiano quelle caratteristiche di
forte integrazione che erano alla base dell'esperienza di appartenenza. Un terzo
problema riguarda la difficoltà d'approccio in un gruppo di riferimento
già costituito precedentemente, nel quale i soggetti devono a poco a poco –
secondo il proprio livello di maturazione – confluire. Una vita associativa omogenea
alle spalle, nel gruppo d’appartenenza, può condizionare i giovani
nell’affacciarsi al gruppo di riferimento. In alcuni casi essi possono avvertire
un’estraneità di condizione e di problematica rispetto a quanti già fanno
parte del gruppo di riferimento, per cui tendono a non riconoscersi in quell’impostazione
e a creare un nuovo gruppo di riferimento sulla misura della sensibilità che li
caratterizza. Una quarta difficoltà è rappresentata dal diverso
livello di maturazione che si registra tra i membri del gruppo d’appartenenza.
Si pone qui il problema se il passaggio al gruppo di riferimento debba avvenire
contemporaneamente per tutti i giovani del gruppo d’appartenenza – ad un
determinato stadio di maturazione - oppure se siano preferibili distacchi dei singoli che
più di altri avvertono tale esigenza. In tutti i casi questi distacchi producono
lacerazioni nel gruppo di appartenenza, dal momento che alterano gli equilibri in esso
esistenti e producono nuove dinamiche.
Quanto detto sta ad indicare che il passaggio dall’appartenenza al riferimento non può avvenire casualmente, ma deve rappresentare l’esito di un processo di maturazione, deve costituire il traguardo d’un progressivo cambiamento dell’atteggiamento dei giovani e delle loro aspettative nei confronti del fare gruppo. L’esigenza di fedeltà alla “proposta” e l’inadeguatezza – ad un certo stadio della vita – di un’appartenenza coinvolgente in termini primari, deve far nascere nei giovani il desiderio della continuità di formazione pur nella diversità delle modalità aggregative. Anche in questo caso pertanto appare essenziale il lavoro educativo mirante a creare le pre-condizioni di un’opzione, di un orientamento. Di fronte ai molti problemi esposti, e in particolare alla difficoltà di differenziare metodi educativi in rapporto all’età e ai livelli di maturazione dei giovani, alcuni educatori possono essere presi dallo sconforto e cedere alla tentazione di non addentrarsi in impegni di gruppo per privilegiare invece – quale momento educativo – il rapporto diretto e personale con i giovani. Occorre a questo proposito riflettere su quali metodi siano più efficaci per permettere un’interiorizzazione dei contenuti e dei valori educativi e più adeguati all’attuale condizione giovanile.
Il tema della relazione è: giovani, gruppi ed associazionismo.
Tenterei di affrontare questo tema nei cinque seguenti aspetti.
Primo aspetto, il rapporto giovani e associazione,
cioè la risposta, o il tentativo di una risposta, all'interrogativo: cosa stimola la
«tensione» verso una associazione?
Un secondo aspetto, dovrebbe trattare l'importanza del gruppo, come luogo di
maturazione e di aggregazione (e i rischi che questo presenta).
Terzo aspetto: quale tipo di proposta può «motivare» un giovane d'oggi,
cosa può suscitare l'impegno dei giovani, e quale tipo di proposta può
polarizzare la condizione giovanile attuale.
Un quarto aspetto, riguarda le caratteristiche di una associazione giovanile che vuole essere,
nel tempo stesso fedele ai giovani e alla propria identità, in modo da non disperdersi,
da non stemperare la propria identità, alla luce anche dei bisogni dei giovani
nell'ambito del pluralismo socio culturale che caratterizza la nostra società.
Un quinto aspetto tocca problemi che deve affrontare un'associazione che fonda la sua
identità sulla fede.
Non mi addentrerò nei problemi della dinamica di gruppo, (che cosa è un gruppo,
la leadership, la “pressione” di gruppo, le “conformità” di
gruppo, ecc.) perché vorrei cercare di entrare nel merito della vita di una associazione
che ha a che fare oggi con dei giovani che presentano delle peculiari caratteristiche,
cioè che vivono una socializzazione differente da quella dei giovani dell’inizio
degli anni settanta o della metà degli anni sessanta.
Direi che in questo momento dalla fine degli anni settanta e l'inizio degli
anni ottanta, l'adesione dei giovani ad un movimento organizzato non è, credo,
spontanea, né vi sono delle condizioni socio-culturali favorevoli ad essa. Questo
perché viviamo in una società che in termine tecnico si dice
«complessa», cioè estremamente differenziata, per cui oggi un giovane ha di
fronte a sé un pluralismo di proposte, un «mercato dei significati» molto
ampio, quindi può scegliere in quali spazi giocare la sua socializzazione.
E’ chiaro che, di fronte ad una proposta associativa, la valuti come una tra le tante
proposte che ci sono sul mercato dei significati. In una società complessa, questo
pluralismo socio-culturale porta a relativizzare tutte le proposte, quindi anche quella
associativa. Ancora, in una società complessa c'è la molteplicità delle
appartenenze, delle occasioni: noi viviamo in una realtà in cui siamo bombardati
dalle possibilità di associazione, dalle diverse occasioni di vita ecc. Facciamo un
esempio: un giovane, diciamo del ceto medio, è impegnato nello sport, in uno o due
sport, magari frequenta corsi di lingue, vive nella scuola o nel mondo del lavoro, ha il gruppo
degli amici, un gruppo di hobby e altro ancora.
Tutto ciò lo porta a differenziare molto la sua giornata e al limite, lo porta ad
essere refrattario alle proposte che lo «impegnano» cioè, che gli chiedano
in qualche modo un impegno serio, un impegno che orienti la sua giovinezza. La
differenziazione non riguarda soltanto i giovani ma un po' tutti: credo che qualcuno di noi,
venendo qui, ha dovuto lasciare altre occasioni, altre opportunità e siamo con un occhio
a ricordare cosa abbiamo lasciato, e direi che nella condizione attuale è sempre
più forte questo riferirsi a ciò che si perde, a ciò che si lascia
più che vivere con intensità il momento presente. E’ il segno
dell'estrema differenziazione nella quale viviamo in questa società complessa, ed
è un modo con cui, tutto sommato, noi facciamo fronte alla complessità sociale:
differenziare, moltiplicare le appartenenze, e gli ambiti di impegno.
Oggi c'è la tendenza giovanile di impegnarsi di meno in «opzioni di fondo»,
forse neanche di predisporsi ad esse, perché in qualche modo si interpreta una scelta
di fondo come orientare la propria vita in un imbuto, quindi perdere molte possibilità
di scelta mentre il tentativo è quello di mantenere, dare il primato alle esperienze,
fare molte esperienze, considerando l'esperienza come un fatto di notevole arricchimento.
Significa questo la difficoltà di compiere delle azioni «di fondo» anche in
termini affettivi, o associativi, o anche di vocazione al sacerdozio. Magari, quando si fanno
queste scelte, c'è più il rimpianto a ciò che si lascia che la
convinzione di ciò che si sceglie.
È una situazione che, per i soggetti, può significare «fedeltà
passiva»: si è fedeli ad una vocazione, ad una scelta, ma in termini passivi,
cioè non con quella identificazione, con quell’impegno proprio di chi è
consapevole di aver fatto una grossa scelta e relativizza tutte le altre rispetto a questa. Di
qui deriva una certa difficoltà dei giovani d'oggi all'associazionismo, proprio
perché l'associazionismo in qualche modo richiede una militanza, una maturazione di idee
e convinzioni, richiede che il giovane cominci a scegliere, mentre oggi viviamo in un contesto
nel quale il giovane tende in qualche modo a non scegliere, o a procrastinare le scelte.
C'è un secondo elemento sfavorevole all'associazionismo, ed è la crisi della
partecipazione organizzata e la sfiducia istituzionale: i giovani hanno interiorizzato
nella loro socializzazione elementi di sfiducia nei confronti delle istituzioni e dei movimenti
organizzati.
Non si crede quindi che in tali ambienti sia possibile avviare a soluzione i propri problemi e
le proprie contraddizioni.
Credo che questo sia un dato scontato e che lo si provi in tutte le parti d'Italia,
è la crisi della partecipazione, la non-identificazione non soltanto con quella
società dei consumi, a forte sviluppo, che prevedeva in qualche modo, di potersi
autoregolare nel suo sviluppo, di regolare anche le contraddizioni, ma anche la non
identificazione con una società alternativa, una società che privilegia la
partecipazione. Mi sembra importante ricordare che, se un giovane passa 4 o 5 anni in una
scuola media superiore sapendo che il titolo di studio non lo metterà poi nella
possibilità di avere un lavoro in continuità con lo studio compiuto e facendo, in
altri termini, un'esperienza di formazione che però non lo «forma» molto per
la vita, questo giovane esce dalla scuola con una sfiducia istituzionale. Ed è
l'esperienza di questi 4 o 5 anni che lo abilita alla sfiducia, per cui per recuperare questa
situazione di sfiducia, saranno necessari altrettanti, se non più anni di un'esperienza
di fiducia politico-sociale.
Questo è il problema credo oggi dei giovani che interiorizzano la sfiducia facendone
esperienza, facendo esperienza della impossibilità di contare o di vedere una
consequenzialità fra impegno e risultati. Lo stesso problema può verificarsi in
altri campi basti pensare a quello della casa, della autonomia della condizione giovanile ecc.
Ma basta fare un solo esempio per vedere come questa sfiducia istituzionale sia un fatto
esperienziale. Direi che questa sfiducia riguarda anche le proposte associative dei partiti;
perché questo? lo credo fondamentalmente perché i partiti trattano i giovani
come se fossero degli adulti; cioè in altri termini chiedono ad un giovane di decidersi
di fare una scelta di fondo e quindi di avere una militanza consequenziale a questa decisione,
mentre la persona è ancora in fase di orientamento.
Si aggiunge a questo il fatto della scarsa possibilità di partecipazione istituzionale
in questi partiti, ecco anche qui una crisi di partecipazione, e
quindi una sfiducia istituzionale.
Direi che un altro aspetto può riguardare la famiglia. A mio avviso oggi
c’è un certo qual ritorno dei giovani alla famiglia, lo si vede tra
l’altro da una ricerca promossa dal movimento della GIOC su oltre settemila giovani di
cui 2/3 in Piemonte: emerge questo ritorno dei giovani alla famiglia, perché è un
ritorno di tipo affettivo, cioè i giovani oggi stanno recuperando la famiglia da un
punto di vista affettivo. La famiglia non è più solo il luogo di garanzia
economica, ma anche il luogo di garanzia affettiva, in un contesto avaro di sicurezze, di
certezze; ma questo recupero affettivo, non significa il ritorno della dialettica familiare.
Non significa cioè che genitori e figli si confrontano, ma che i figli accettano dalla
famiglia ciò che la famiglia a loro può dare in termini di sicurezza, di
identità, e tralasciando il resto, quindi in famiglia la dissonanza di idee non diventa
più conflittuale ma diventa un elemento di accettazione di alcuni aspetti per
tralasciarne altri. C’è un recupero affettivo, a mio avviso, anche
perché il giovane oggi, ha molte appartenenze e la famiglia è più
permissiva. Cioè, avendo molte appartenenze sociali, il giovane è portato anche a
rivalutare l’appartenenza familiare come una tra le tante appartenenze, ma non come
quella totalizzante. Se la famiglia oggi si presentasse come totalizzante, il giovane la
rifiuterebbe, ma viene accettata oggi come una delle appartenenze tra le tante, un luogo di
memoria storica, famigliare, individuale: da questo punto di vista la famiglia non apre il
giovane ad un inserimento allargato, cioè non è un veicolo di partecipazione, ma
un luogo di soddisfacimento di certi bisogni nella linea della selettività. Una
caratteristica di fondo, secondo me, della condizione dei giovani d’oggi è la
selettività: si sta negli ambienti, si assumono le cose che interessano, si tralasciano
le altre, ma nel segno della tolleranza, non più della conflittualità.
E’ il tentativo di portare a casa tutto ciò che serve per la propria
identità, per la propria sicurezza, identificazione, appartenenza sociale, senza entrare
in conflittualità.
In presenza, quindi, di questa difficoltà di adesione ad un movimento organizzato, di
questa crisi della partecipazione istituzionale, a chi si rivolgono i giovani? Credo
fondamentalmente al gruppo dei “pari”, al gruppo degli amici, che costituisce
proprio il vero luogo di elaborazione dei valori secondo la linea della cosiddetta
“socializzazione orizzontale”, che è la trasmissione dei valori non
più verticale – dal padre al figlio – ma dal giovane al giovane. Se
questo però è il luogo di socializzazione dei giovani privilegiato, è vero
anche che perlopiù gruppi di divertimento o di interesse, ma che non aprono una
prospettiva sociale, aiutano il giovane a realizzarsi in se stesso ma non costituiscono un
momento di progressivo inserimento attivo e critico nella società. Sono dei gruppi per
lo più indifferenti alla società, non dico neanche “contro” la
società, ma indifferenti ad una realizzazione comunitaria, ad una acquisizione ad un
senso del collettivo significativo.
Io però non credo alla tesi del riflusso che vedrebbe questi giovani sbracati,
questi giovani indifferenti a tutto, ma credo che oggi i giovani anche in questi gruppi degli
amici dei pari, stiano ricercando un senso alla loro esistenza negli spazi, però
autonomi, di idealizzazione che hanno. C’è un problema, ed è
l’autonomia della ricerca: avendo questa sfiducia istituzionale vivendo in un contesto da
cui non ricevono molto, la ricerca si realizza su basi autonome, è quello che io chiamo
il piccolo cabotaggio, cioè credo che tutti sappiamo che cosa è il piccolo
cabotaggio: quel tipo di navigazione che permette di andare in mare, con la consapevolezza
di avere una barca così debole, per cui si sta vicino a riva, in modo che se succede
qualcosa si è pronti ad attraccare. Non si rinuncia ad andare in mare, ma lo si fa con
dei mezzi poveri ed autonomi: la ricerca di senso insomma vien fatta essenzialmente in
questi gruppi che non aprono ad un inserimento collettivo allargato. I giovani in questo
contesto hanno comunque la necessità di trovare una identità, e lo fanno
attraverso il gruppo “dei pari”: hanno necessità di trovare un senso di
appartenenza, un luogo di identificazione, di cittadinanza sociale, in qualche modo un luogo in
cui ricomporre quanto più è possibile le proprie contraddizioni, la propria
identità.
E’ vero anche che viviamo in un momento di sfiducia politica, di stallo sociale, di
progressivo declassamento della prospettiva politica e sociale del Paese, e anche di crisi dei
modelli. Pensate al modello cinese, a quello cubano, e ad altri modelli che sono venuti meno,
come quello americano. I giovani rispecchiano una situazione di crisi di idealità, e
quindi, in questa situazione, oltre che percorrere la strada del gruppo dei pari, degli amici,
risultano anche più attenti che nel passato a quelle proposte, fatte anche da movimenti
organizzati più in linea con i loro bisogni. C’è una certa attenzione o
domanda della condizione giovanile verso dei movimenti che rispondono immediatamente ai loro
bisogni: non abbiamo di fronte dei giovani “attendisti”, come potevano essere i
giovani degli anni ’70, che lottavano per un domani; abbiamo dei giovani che vogliono
consumare subito, realizzare subito qualcosa che dia efficacia alla politica; non una politica
di lungo respiro. Sono giovani abbastanza attenti a quelle proposte che rispondono in modo
globale alle loro esigenze, che non le discriminano in esigenze di tipo spirituale, e corporeo
e affettivo che tendono alla sintesi. Ma dire che l’adesione ad un movimento, laddove
c’è, viene condizionata, almeno in prima istanza, da questa domanda dei giovani
che non esprime in generale una esigenza di trasformazione della società, ma la ricerca
di una condizione di vita umanamente soddisfacente.
Io credo che sia un “nodo” dell’oggi riuscire, nel giro di
qualche anno, a creare delle strutture di mediazione tra le istanze della personalità
giovanile e la società stessa, pena uno scollamento di fondo tra i giovani e la
società. Si tratta di mediare le istanze dei giovani e quelle di un loro inserimento
nella società, sia pure in modo attivo e critico, ovviamente non in termini di
integrazione. A me sembra che questi giovani, maturino essenzialmente una presenza di tipo
indifferente alla loro ricerca di senso. E quindi credo che il compito politico, o comunque di
tutte le forze sociali che lavorano coi giovani, sia quello di ricreare delle condizioni di
mediazione tra le istanze della società e le istanze della condizione dei giovani,
cioè che la famiglia riprenda ad essere un luogo dialettico, un luogo di confronto
generazionale, un luogo ovviamente non contrassegnato dall’uniformità dei
comportamenti ma dalla dialettica interna; e che la Chiesa a sua volta riprenda a sviluppare
una dialettica interna: mi capita, andando in giro, di dire le stesse cose ai vari movimenti
evoluti, senza notare mai una dialettica interna. Mi sembra che il momento ecclesiale, sia
caratterizzato da una forte azione di ripensamento, per certi versi, a vari gruppi-movimento,
ma senza una esigenza di complementarietà.
Questo credo che sia un grosso problema perché pone il problema
dell’identità di fondo della Chiesa. Si va verso una Chiesa estremamente
differenziata, dove però le varie branche non sentono assolutamente l’esigenza di
raccordarsi e di vedere cosa gli altri hanno da dire a loro e che cosa loro hanno da dire agli
altri. Ci troviamo di fronte dei gruppi che hanno delle grosse ricchezze, che però
negano le ricchezze al loro interno senza renderle dialetticamente utili per gli altri. Al
limite nella Chiesa c’è più pace, ma c’è anche meno
dialettica.
Ancora, occorrerebbe che anche la scuola ricomincia ad essere un luogo di mediazione e non
solo un luogo di scollamento, di illusione e frustrazione ma anche che i gruppi che lavorano
con i giovani, riprendano questa azione di mediazione tra giovani e la società
perché questi giovani ridefiniscano la loro identità non solo per sé, ma
anche in rapporto alla società da cambiare, mentre oggi, a me sembra, si stia
privilegiando l’idea che i giovani cercano un senso per sé e non in rapporto a
qualcosa da costruire, a una partecipazione sociale. Credo che l’area ecclesiale
abbia un po’ di responsabilità in questo, perché probabilmente nel
proporre il valore religioso, ci può essere il rischio di proporlo come un elemento per
il solo individuo, un elemento di formazione, di arricchimento, ma poco in grado di proiettarlo
fuori. Si perde la dimensione etica in senso lato, la dimensione sociale e politica,
cioè probabilmente c’è il rischio di una fede troppo di riferimento e poco
di impegno. C’è allora il problema di trovare un equilibrio tra questi due
poli di riferimento e di impegno.
Ora data l’importanza del gruppo come luogo di maturazione, perché è una
struttura immediatamente vicina ai bisogni dei giovani, perché un gruppo dà di
fatto una risposta a quei problemi di ricomposizione delle contraddizioni, di visibilità
sociale, di identità, di identificazione, di cittadinanza, quindi un gruppo è uno
strumento vicino alla condizione giovanile, capace di rispondere a quei problemi di
socializzazione e di interazione senza i quali i giovani di fatto non riescono a ricomporre la
loro identità. Ma un gruppo è anche un’esperienza che apre i giovani a
un qualcosa più ampio del soddisfacimento dei propri bisogni, perché li butta in
una proiezione non solo individuale, ma già comunitaria, ecco quindi perché
il gruppo è luogo di maturazione, momento di mediazione tra l’istanza del giovane
a rispondere ai bisogni, e un qualcosa di più allargato che proietta il giovane al di
fuori di sé, lo fa entrare in una dimensione comunitaria che prende quella collettiva.
Ci sono una serie di rischi comunque connessi al fare gruppo oggi, io ne elenco soltanto
alcuni. Il primo rischio è legato alla possibilità che alcuni gruppi siano
più per sé che per il mondo, per la società, cioè in altri termini
coinvolgono il giovane ma senza aprirgli una prospettiva sociale, senza aprirlo poco a poco
all’inserimento allargato nella società, (si corre il grosso rischio – se,
per esempio, questi gruppi sono religiosi – che siano una Chiesa per sé o momento
per sé o, viceversa, un momento di Chiesa per vivere nel mondo).
Altri gruppi corrono altri rischi, sono dei gruppi in cui il giovane trova forte sicurezza
e forte identificazione ma in modo gregario, con scarso processo di interiorizzazione personale
delle proposte, per cui si sente la base ripetere le cose del vertice senza ripensarla in
chiave o locale o particolare della condizione che vive: questo è un grosso rischio.
C’è il rischio che molto associazionismo giovanile ecclesiale ha corso anche negli
anni sessanta, che - venendo meno il gruppo - si perde l'identità dei soggetti,
perché il gruppo era costitutivo dell'identità. Qui si dà grosso peso al
gruppo come momento di maturazione dei soggetti, ed è interessante, è
problematico, che il gruppo si sostituisca come spina dorsale al giovane, per cui al posto di
una interiorizzazione dei valori da parte dei soggetti, ci sia un clima di conformità,
di pressione, di conformità del gruppo: finché stai all'interno, è una
spina dorsale, se esci, ce l'hai spezzata.
Un altro rischio: ci sono alcuni gruppi che sembrano essere troppo riversati sulla
condizione giovanile, sono eccessivamente giovanilisti, si adeguano troppo facilmente alla
domanda dei giovani e, nel dare risposta a questa domanda, non stimolano il giovane verso altre
mete. Sono dei gruppi che perdono capacità propositiva nei confronti dei giovani,
perché si plasmano, si adeguano troppo a questa condizione giovanile tanto da perdere la
loro identità; magari hanno successo, però disperdono quello che hanno di
più prezioso.
Ci sono poi dei gruppi che mobilitano essenzialmente sulla rivendicativa, sulla critica,
sono dei gruppi cosiddetti «contro»: ma è abbastanza facile riuscire a
mobilitare avendo un gruppo di riferimento negativo, è molto più difficile
mobilitare alla propositività. Credo che questo sia stato anche un po' il limite del
movimento studentesco di contestazione, l'avere un'identità «contro», quando
questo «contro» in una società complessa non risulta più chiaro ma
è frastagliato. Quindi è importantissimo, vicino e accanto al
«contro» eventuale, introdurre altre cose in termini di propositività.
Non costruire soltanto dei gruppi dove c'è una propositività autonoma, per
proprio propellente.
Ci sono ovviamente, altri aspetti, a me sembra che un altro rischio è che oggi i gruppi
soprattutto ecclesiali corrono, sia quello di aver spostato il loro baricentro sullo
spiritualismo, avendo perso molto la dimensione sociale-etica, (questo può essere un
altro aspetto): oggi si sta ritornando a delle forme di direzione spirituale di tipo
individuale, di forte preghiera di riferimento, il che può andar benissimo, a patto che
ci sia l'altra dimensione, a patto che non sia in funzione di gratificazione, che il baricentro
non sia tutto all'interno sullo spiritualismo.
Il giovane oggi, si diceva in precedenza, sembra mobilitarsi, non tanto
su idee sociali e politiche, non tanto sull'azione e sul fare, quanto invece sui problemi
dell'identità, il che significa ricerca di uno spazio, come si diceva, in cui
identificarsi, in cui trovare e dare accoglienza, in cui essere riconosciuto e riconoscere la
convivialità; in cui «fare festa» e comunicare e impegnarsi, ma dove le due
cose non devono essere disgiunte, in cui affrontare i propri problemi, quelli di chi si
conosce, in cui vivere la propria vita quotidiana con intensità autocosciente:
c'è questa domanda quindi di vita quotidiana, una ricerca che coinvolge quella che ho
definito «la generazione della vita quotidiana».
In altri tempi, noi vivevamo la giovinezza in termini di rincorsa dell'ideale che non si
raggiungeva mai perché era situato due metri davanti al nostro naso, quindi si scontrava
con noi: il momento giovanile non lo vivevamo mai, perché eravamo tutti proiettati
nell'impegno, questo dannato impegno che ad alcuni di noi ha fatto proprio perdere
completamente la giovinezza, (per cui qualcuno ha fatto il giovane a 30 anni, con tutti i
problemi che questo significa, giovanilista ad una certa età...). Oggi i giovani sono al
rovescio, mentre allora noi, non vivevano le contraddizioni del presente perché c'era
questo orientamento di fondo che in qualche modo dava dimensione al presente, quindi leniva
tutte le contraddizioni, le metteva in un quadro di valori più forte, oggi, i giovani
invece hanno un atteggiamento rovesciato, sono aderenti a questo quotidiano, non hanno
più il senso della prospettiva; per cui vivono in un modo molto più acuto, le
contraddizioni del presente, perché manca una prospettiva in cui queste contraddizioni
trovano un senso vengono in qualche modo ricomposte a livello più ampio. Il giovane
in qualche modo cerca di trovare un senso in questa vita quotidiana, è la
«generazione della vita quotidiana».
Questo giovane può essere motivato soltanto da una proposta che parta dal quotidiano,
dalla frattura che il giovane vive a questo livello, anche se molte volte non ne ha coscienza.
Se soddisfatto di queste aspettative, probabilmente il giovane potrà prendere in
considerazione anche altre proposte, anche altre esperienze, ma soltanto a partire
«da». Siamo in un momento in cui i giovani non avanzano una grossa domanda sociale
e politica perché non hanno un'identità, poiché l'aver l'identità
è la condizione preliminare anche della partecipazione, della domanda sociale e
politica.
I giovani non hanno una base sufficiente per sopportare stimoli e sollecitazioni, quindi
sentono immediata la necessità di rispondere a dei problemi di fondo, essenziali che la
vita quotidiana a loro pone, dopo di che - e solo dopo - potranno essere anche disponibili a
delle domande di tipo esistenziale o a delle domande di tipo partecipativo.
L'impostazione del famoso catechismo olandese, era sui grossi interrogativi della vita, la mia
impressione è che oggi, se riportassimo ai giovani d'oggi quel catechismo non darebbe
più nulla, perché oggi i giovani non sono polarizzati su problemi
esistenziali, bensì su problemi più vicini a loro. A sostegno di questa mia
tesi, io porto l'esempio della trasformazione dei gruppi e dei movimenti ecclesiali. Credo che
tutti abbiano notato, che dalla metà degli anni '70 in qua, sono in crisi, o comunque in
una situazione di stallo, i gruppi «terzomondisti», o i gruppi; più in
generale, di azione sociale, i gruppi che nella Chiesa lavorano per gli handicappati, per i
drogati, cioè gruppi che vogliono risolvere dei problemi, e sono per l'incidenza, per
l'azione. Sono in una situazione di stallo, di crisi, nonostante certe immagini nazionali. Sono
anche in una situazione di stallo, di crisi i gruppi di contestazione ecclesiale, che da anni
vivono in una situazione di non identità dell'area di riferimento; sono in crisi i
gruppi che hanno fatto delle scelte politiche, chiaro il caso di Gioventù Aclista che
sta vivendo un momento di tentativo di recuperare uno spazio di riferimento. Ma non c'è
l'ha più, perché si è spostata nel politico, e nel politico ha trovato
altri che facevano le stesse cose ma non in nome di una fede: quindi, o recupera uno spazio di
riferimento, oppure ha la crisi dei nuovi, ha la crisi del fare una proposta nuova.
I gruppi in forte espansione dalla metà degli anni settanta in qua, sono quelli a
specifica identità, che fanno ai giovani una proposta di formazione, per i soggetti, che
quindi cercano, in qualche modo di dar soluzione ai loro problemi per una partecipazione,
notate che sono in espansione dalla metà degli anni settanta in qua i gruppi che nel
periodo della contestazione, delle lotte operaie, non hanno perso la loro identità,
cioè non hanno fatto delle strane trasformazioni di identità, voi sapete che
allora molti gruppi son passati dal religioso al politico. Ecco, quei gruppi che hanno fatto
questo passaggio dalla metà degli anni settanta in qua, hanno grossi problemi. È
premiato, chi, invece, negli anni della contestazione, della lotta operaia, ha cercato di
ridefinire la propria identità essendole fedele pur in presenza del politico.
L'AGESCI, nel '68, contava 50 mila aderenti, nel '78 dieci anni dopo, anni di profonda crisi
di tutti i gruppi associativi, di tutto l'associazionismo non solo religioso, anche politico,
anni di profonda crisi di tutto il discorso educativo, raddoppia i suoi membri, questo è
un fatto stranissimo per la società italiana. Tanto è che Ombre Rosse,
una rivista della sinistra, titolava esterrefatta un articolo, Comunione e Liberazione e gli
Scout, che fare di questi movimenti? Come mai, cioè, questa gente riesce a far breccia
nella condizione giovanile, mentre noi che abbiamo certe proposte, non riusciamo. Quindi era un
momento di autocritica, di grossa capacità di lettura dell'area cattolica.
Ma, come mai, l'AGESCI raddoppia i propri membri ribadendo la propria proposta educativa in
anni di profonda crisi dell'associazionismo e delle proposte educative? Questo è il
problema di fondo. A mio avviso, la risposta è questa: L'AGESCI è stata fedele
alla propria identità, cioè non ha venduto l'educativo per politico, non ha fatto
il passaggio, ha mantenuto l'educativo collegandolo però al politico, facendo
un'educazione che è pre-politica. Quindi ecco la capacità di attualizzare la
propria identità alla luce del presente, non negandolo, ma rimanendo fedeli
all'identità. Se avessero puntato sul campo del politico, avrebbero invaso altri campi,
avrebbero cominciato con delle problematiche mai conosciute a loro, invece hanno avuto la
capacità di definire la loro identità problematica alla luce del presente.
L'altra caratteristica grossa della AGESCI, è stata la capacità di cogliere il
fatto ecologico e di ripresentarsi come un movimento capace a rispondere a questo bisogno che
veniva fuori negli anni settanta.
Un altro movimento di specifica identità, è Comunione e Liberazione, se ha
avuto, negli anni settanta, l'espansione che ha avuto è perché ha toccato alcuni
tasti giusti, ha risposto a dei bisogni. Non sono più d'accordo su come risponde a quei
bisogni, però di fatto è riuscita a toccare alcune leve giuste, per esempio il
protagonismo giovanile. Un altro aspetto è la memoria storica che CL ha sempre cercato
di radicare, ed è giustissimo. In questa società sradicata, in questi giovani
sradicati, CL cerca di radicare la comunità primitiva, i padri, anche, al limite, delle
figure di una religione più concreta, meno intellettualizzata, figura di
riferimento.
Il rammarico è che questo movimento non sia stato in grado di rappresentare un qualcosa
per la Chiesa o per gli altri movimenti ricordando questi aspetti positivi, si è creata
molti nemici, quindi l'incapacità di coglierne gli aspetti un po' interessanti che il
movimento può anche avere. Un altro movimento interessante e complicato: i carismatici i
quali, in una società di forte secolarizzazione in una società radicale, vanno a
proporre una aggregazione sullo spirituale, sullo spirito in senso intero, in senso forte, e
riescono nel loro scopo. Sia in CL che nei carismatici giocano poi dei grossi fattori di
insicurezza della gente in un gruppo che è rassicurante. Noi notiamo comunque che hanno
un'identità precisa che viene giocata in contrapposizione al presente.
Infine io credo che l'Azione Cattolica abbia fatto una scelta coraggiosissima
all'inizio degli anni '70, subendo una gravissima emorragia. E questo perché ha
giocato tutto sul religioso, in anni dove tutti giocavano sul politico o al limite sul sociale
come mediazione. Direi che l'Azione Cattolica, dalla metà degli anni 70 in qua,
è un po' ripagata di questa scelta che, secondo me, tra tutte, è la scelta
più difficile, nel senso che, i giovani, di primo acchito, non sono presi spontaneamente
dalla proposta religiosa, però è anche la proposta che in qualche modo non
inciampa o non incontra tutti quei problemi di mediazione che altri gruppi incontrano, problemi
di passaggio al discorso religioso, come possono essere gruppi sportivi, pensate al CSI.
C'è questo aspetto di forte interesse dell' Azione Cattolica che probabilmente ha
risolto una serie di contraddizioni degli anni sessanta, presentandosi allora più come
luogo di socializzazione e meno di specificità religiosa, e forse è riuscita,
negli anni di profonda crisi di identità a proporsi in termini di identità.
Il primo punto, è direi, avere una propria originale
identità. Io credo che un gruppo-movimento, se non ha una identità, è un
gruppo morto, un gruppo senza storia. Ovviamente l'identità di un gruppo movimento non
si ricava dal momento presente, ma è il frutto di una storia, il condensato di una
memoria storica, e l’insieme in altri termini delle scelte compiute da un movimento o
da quanti ad essi sono appartenuti nel tempo. Quindi l'identità è in funzione
della storia delle dinamiche, della dialettica, del dibattito, delle scelte, di un gruppo o di
un movimento; quanto più questi aspetti sono stati interessanti, vissuti a fondo, magari
con dei rischi, tanto più l'identità è ricca; viceversa, quanto più
il movimento è risultato rinsecchito, ha fatto delle scelte di compromesso, non ha
risolto dei problemi di fondo, tanto più l'identità è complicata, è
frastagliata, non é chiara. Se il gruppo-movimento parte oggi, prendiamo per esempio
«Febbraio 74», partito da poco, deve farsi tutta questa storia, prima di maturarsi
una identità chiara. Quindi c'è in qualche modo una relazione tra tempo,
vicissitudine dialettica e identità. L'identità non si matura in un momento.
Secondo problema, riattualizzare; la necessità di riattualizzare oggi la
propria identità; qui un problema è che non basta avere un ottimo casato alle
spalle, nel senso che un patrimonio anche di idee, di valori, di opinioni, di metodo educativo,
si può facilmente disperdere se non si è in grado di riattualizzarlo nell'oggi,
se non si è in grado di ripensarlo alla luce del momento presente. Quindi il
problema qui è di vedere quanto la propria identità è giocabile oggi,
cioè quanto un movimento ha da dire oggi, nella situazione sociale ed ecclesiale
italiana. L'interrogativo di fondo è: che cosa un movimento ha da proporre ai giovani
d'oggi, nella Chiesa d'oggi? Molti gruppi chiudono con la storia perché non sono stati
in grado di reinterpretare la propria identità, cioè di riattualizzare
l'identità oggi, oppure perché hanno fatto dei passaggi incredibili, per esempio
alcuni gruppi che sono passati direi in modo un po' acritico dal religioso al politico, hanno
chiuso con la loro storia perché non sono stati in grado di ripensare un politico in
funzione dell'identità che avevano prima, è stata una sostituzione acritica.
Il terzo aspetto è la specificità di spazio culturale e funzione sociale.
Riattualizzare la propria identità è necessario con un gruppo-movimento che
copra oggi, con la sua azione-proposta, uno spazio sociale e culturale non occupato da
altri, o comunque che lo occupi in modo originale. In altri termini: che svolga una
funzione di cui si sente la necessità in un contesto sociale od ecclesiale, e non
assolta in quel particolare modo da altri gruppi o movimenti. E’
importantissimo avere un ambito, un ambiente di riferimento, un gruppo una popolazione cui mi
riferisco, per la quale faccio una proposta, in rapporto alla quale ritrovo anche la mia
identità; quindi un gruppo senza un'area di riferimento manca di base, è
destinato al dissanguamento oppure ad operare in ambiti culturali puri nei quali appare
straniero o che gli richiedono una riconversione della propria identità.
Quarto aspetto, essere portatori in modo forte di una proposta: nel contesto di un pluralismo
culturale, un gruppo-movimento, per affermarsi, deve non solo aver maturato una specifica
identità, ma deve anche proporre questa con forza, cioè cosciente dei valori
che ha. Questo non significa diventare integristi, non significa manipolare la realtà,
ma significa essere coscienti dei valori di cui si è portatori ed essere pronti,
disponibili alla verifica. La forte propositività è necessaria perché la
proposta arrivi ai giovani, non si perda nei meandri del sistema del significato, nei vari
mercati di significato presenti nella società, non sia relativizzata ancora prima di
essere fatta annuncio. I giovani mettono in riga, in linea tante proposte e le salutano un po'
allo stesso modo, perché hanno il criterio che siano significative per sé, non
importa la verità in termini assoluti. L’AC spesso è accettata per il
servizio che fa e non magari per le idee che ha. Il problema è di riuscire a mettere
insieme le due cose, di mediare tra queste, quindi c'è un problema di scambio e di
condizionamento della realtà locale. D'altronde l'AC non è un'Associazione
selettiva, come possono essere alcuni movimenti (o prendere o lasciare) ma la caratteristica
dell'AC è invece di essere presente nella Chiesa locale, con tutti i condizionamenti che
questo significa, con tutte le diversità. Questo crea una situazione di
diversità, di autonomia della realtà associativa. Esiste il problema
dell'eterogeneità dell'Azione cattolica, rispetto ad altri movimenti più omogenei
al loro interno.
Ognuno dei punti citati ha aspetti interessanti e aspetti problematici: occorre fare i conti
con questi punti, sia nel positivo che nel problematico.
C'è ancora un aspetto, che l'AC coniuga è rapporto Chiesa-mondo in modo un po'
particolare. Non è che la realtà del mondo non ci sia, però l'AC utilizza
il dato di fede, l'appartenenza ecclesiale, come forte riferimento, per poi sviluppare una
presenza significativa nel mondo e nella realtà sociale. Questa realtà
sociale-ecclesiale, sociale-culturale, non è, però, che immediatamente emerga
nell'esperienza associativa mentre si usa molto il filtro della fede e dell'appartenenza
ecclesiale come criteri di valori utili a ripensare alla presenza nella società.
Altri agiscono più come gruppo nella società, invece l'AC lascia che i singoli
facciano delle scelte autonome, quindi l'associazione è il momento del riferimento, per
cui poi, ognuno sceglie.
Se dovessi fare una critica all'Azione Cattolica, è quella della carenza di metodo. A
me sembra che in AC si sia bravissimi a elaborare contenuti e a raffinarli, a renderli adeguati
anche al minuto presente: c'è una preoccupazione contenutistica fortissima, mentre
è poco curato il metodo. Il primo aspetto, credo, che oggi, per un'associazione che basa
la sua identità sulla fede, sia probabilmente non tanto far l'annuncio di fede, quanto
creare le condizioni per l'annuncio, almeno in termini di condizione giovanile. Probabilmente
ci sono oggi delle condizioni che impediscono la ricezione dell'annuncio di fede, e si rischia
che questo annuncio di fede non attecchisca. Faccio degli esempi. C'è per esempio un
atteggiamento pragmatico di tutti quanti noi a «garantirci» a tutti i livelli, per
cui c'è il pragmatismo nella vita e nelle scelte: nessuno di noi può vivere in
modo autonomo, senza un lavoro sicuro, che abbia la certezza circa la data e l'ammontare della
pensione, che abbia le previdenze mutualistiche, che dia un reddito soddisfacente. Ma questa
mentalità garantista, caratterizza anche altri aspetti della nostra vita, senza che
ce ne accorgiamo. Questo pragmatismo nella vita e nelle scelte può essere contrario a
una prospettiva di fede, se intendiamo una fede-rischio, perché altrimenti si utilizza
la fede come polizza per una vita eterna, e di nuovo si riproduce una situazione di
pragmatismo. Allora il problema, per un annuncio di una fede che sia rischio, è che
occorre creare degli atteggiamenti di rischio, occorre uscire da una situazione di pragmatismo,
perché i giovani, di fronte ad una fede-rischio, possano capirla, e non accettino quindi
soltanto una fede sicurezza.
Una delle caratteristiche della condizione giovanile è il senso dell'autonomia, la
ricerca autonoma di spazi, il rifiuto delle mediazioni. Indubbiamente questi aspetti possono
essere contrari rispetto a una prospettiva di fede comunitaria, perché per arrivare ad
una fede comunitaria, ad un senso dell'appartenenza ecclesiale, occorre costruire un minimo di
senso di comunità, di fiducia reciproca. Se noi facciamo delle indagini nella scuola
media superiore o anche negli ambienti di lavoro, notiamo come ormai oggi ci siano delle
divisioni in gruppi, in clan, ecc. Occorre, quindi, ricostruire alcune condizioni
indispensabili, di fiducia collettiva, di ascolto, di attenzione reciproca, altrimenti il
discorso di fede non sa dove poggiarsi. Ancora direi il giovane oggi è, si dice,
«aprogettuale» (io dicevo ha una progettualità di piccolo cabotaggio): se io
arrivo con la mia proposta, parlo un linguaggio diverso da quello della condizione giovanile,
che vive invece la frammentarietà.
Come si fa a calare un progetto di Dio su questa condizione frammentaria? Ci potrà
essere anche una adesione, ma probabilmente, si tratterrà di una adesione dove non ci
sono delle radici, dove non c'è la condizione per una interiorizzazione. Creare le
condizioni per l'annuncio significa, da questo puntò di vista, creare una
progettualità intermedia, o piccoli progetti, cominciare ad avviare verso la
progettualità, per arrivare a questo progetto di Dio, in modo che non ci sia uno stacco
tra progettualità e assenza di progettualità. Ancora, si pensi al discorso
della non scelta. Se è vero che oggi i giovani sono orientati per non scegliere o
comunque per stare in una situazione di stallo in modo da non precludersi alcune
possibilità di scelta, il discorso della vocazione, dove va? Quindi occorre creare le
condizioni per una scelta, gradualmente, e qui si situa il discorso educativo, la formazione.
Oggi viviamo nell'assenza del senso del mistero nella nostra vita. Oggi non viviamo più
nella realtà contadina, che era impregnata del senso del limite e del mistero, e
abbiamo sostituito il mistero con il «problema». Come si rapporta a questo
la dimensione di fede che è il senso del limite, del mistero?
Sappiamo che Dio è più grande di tutti noi e conosce ogni cosa, che Dio è
più grande dei nostri cuori, ma questa dimensione di limite e di infinito è
difficilissimo vederla nella condizione giovanile. Come si fa allora a radicare un annuncio di
fede dove c'è soltanto problema o dove non c'è spazio per il mistero?
Il primo aspetto che emerge da questa analisi della condizione giovanile, in termini di
metodo, è l'indicazione a creare le condizioni per l'annuncio, cioè riconoscere
che occorre oggi educare agli atteggiamenti, perché mancano nei giovani degli
orientamenti di fondo che diano continuità e profondità alla loro vita e al loro
agire, e quindi occorre costruirli poco a poco. Secondo aspetto di questo metodo, l'essere
convinti che l'annuncio non è solo un fatto verbale, ma che è un fatto
soprattutto di esperienza. Per esempio, non è che noi abbiamo o non abbiamo imparato
ché cosa é l'amore perché nostro padre e nostra madre, da quando avevamo
tre mesi, ogni sera ci parlavano per un'ora su che cosa è amore, ma abbiamo imparato che
cosa è l’amore, se abbiamo vissuto un'esperienza di amore. Quindi abbiamo un
certo equilibrio affettivo-relazionale di sensibilità, se abbiamo fatto esperienza
all'interno della nostra famiglia di questa realtà. Il problema di fondo di oggi
è tradurre i contenuti e i modelli progettuali in esperienza. Ma oggi c'è carenza
di proposte del messaggio religioso anche nell'esperienza. E molto più facile, ad
esempio, fare una predica sul senso del collettivo che non tradurlo in esperienza. Pensate -
oppure come riuscire oggi ad educare al senso del sacrificio in una società come questa:
è complicato, però direi che si gioca qui, si gioca nel concreto, la bontà
di una identità, non si gioca sull'astratto. Il discorso del gruppo, secondo me,
è già un credere nell'esperienza, praticare il discorso del gruppo, del
movimento, dell'associazione, è già credere nell'esperienza.
Terzo aspetto è l'attenzione, ovviamente a non sedersi su questi bisogni, a non
limitarsi alla domanda, a registrare la domanda, ma al limite è attenzione a creare una
carta di credito; si soddisfano prima questi bisogni, proprio perché i soggetti siano
sensibili anche ad altre cose; cioè una volta soddisfatti questi bisogni i soggetti
possano essere sensibili e attenti anche ad altre proposte che al limite esulano, vanno
aldilà delle loro attese. Se non si parte dal soddisfacimento dei bisogni affettivi, di
espressione, io credo che si crea una frattura tra chi propone e i soggetti, e i giovani.
E’ normale che un giovane si avvicini ad un gruppo religioso, ecclesiale, chiedendo
anche il soddisfacimento dei bisogni, e di interazione sociale, di espressione, di
affettività, ricreativi, di festa. Il problema credo è di non ridurre il gruppo a
questo, di non limitarsi a questo, ma di immettere il giovane in un quadro di valori che
risponde e al limite anche supera questi bisogni.
Quarto aspetto è l’attenzione a coniugare sempre Evangelizzazione e Promozione
Umana. Mi ha colpito molto il notare che nel Vangelo, Gesù risponde sempre a dei
bisogni: guarisce il fratello, lo resuscita, guarisce i malati, guarisce gli storpi. Quindi
risponde di fatto a dei bisogni umani.
Quinto aspetto, e ultimo, di questo problema del metodo, è l’importanza di
differenziare il metodo. Per esempio nell’età adolescenziale, occorre
indubbiamente puntare su un gruppo di appartenenza dove sono importanti i rapporti primari,
dove è importante fare delle esperienze forti, dove è importante vivere la
propria appartenenza in termine totalizzante e coinvolgente, cioè fare una
esperienza forte che riempie totalmente la vita del giovane, dove c’è molta
attenzione ai rapporti primari, alle pacche sulle spalle, al guardarsi negli occhi. E’
importante qui a poco a poco recuperare un’altra dimensione che è quella
dell’impegno, del servizio, una maturazione in una crescita progressiva.
Per poi ad una certa età, uscire dal gruppo di appartenenza e puntare ad un gruppo
di riferimento: chi ha già fatto un certo cammino, chi ha già percorso una
serie di impegni all’interno della Chiesa, chi ha, tutto sommato, fatto un cammino di
crescita personale è chiamato a vivere la sua vocazione cristiana nel mondo, la sua
appartenenza ecclesiale la vive in termini di riferimento, ci sono dei momenti in cui si
confronta con gli altri della comunità, sulle scelte che sta facendo, per vedere se
queste sono confacenti, sono in linea con la dimensione della fede, quindi riferisce tutto in
termini di fede e di appartenenza ecclesiale e gioca questa identità di fede nel
sociale, nel politico, nella famiglia.
Altrimenti si crea una situazione dei “gruppi a prolunga”, quei gruppi cioè
che creano sempre la propria prolunga e non lasciano mai andare i soggetti per il mondo, dei
gruppi sempre per sé, (magari prima si crea il gruppo dei fidanzati, poi il gruppo degli
sposati, poi il gruppo dei padri e poi il gruppo dei nonni) dove si gioca l’impegno
tutto all’interno. Io credo che questo sia un fatto patologico perché è
importante che i soggetti, una volta che hanno vissuto un certo periodo di formazione, giochino
la loro identità al di fuori, e quindi recuperino il discorso ecclesiale in termini di
riferimento. Significa che la comunità che fa una scelta educativa e formativa,
avrà alcuni responsabili che giocano molto in termini di formazione e di animazione,
cioè rifanno per i nuovi, il cammino che hanno fatto loro, quindi animeranno,
dedicheranno più tempo all’educazione, mentre altri faranno delle scelte fuori.
Gli uni e gli altri si ritrovano in termine di riferimento: chi fa una vita più
bilanciata dentro la comunità sottolinea a chi è fuori, a chi vive la propria
identità nel mondo, che c’è una comunità di nuovi che sta partendo,
nuovi che dovranno poi fare il loro stesso cammino; gli altri che sono fuori, sottolineano a
chi è dentro che è importante vivere questi valori nel mondo, testimoniano che
c’è uno sbocco, la possibilità di uno sbocco. Anche i giovani che crescono
vedono così che non c’è soltanto il modello dell’educatore, ma
c’è anche un modello di chi si impegna, e che è possibile impegnarsi e
vivere il cristianesimo nella realtà sociale e politica. E’ un circolo molto
arricchente, mi sembra della stessa comunità educativa.
Siamo però a due livelli diversi, a livello adolescenziale e a livello di giovani che
già diventano maturi, che già acquisiscono una certa autonomia: è un
passaggio molto difficile, perché a gestire un gruppo di riferimento ci vanno dei
responsabili, degli animatori, delle persone in grado di affrontare situazioni nuove, anche
culturalmente molto preparati, perché è il momento della verifica se la
identità di fede tiene anche nel sociale. Ci deve essere il momento e le persone
raffinate che riescono a cogliere e, a incanalare o a risolvere alcuni problemi che possono
nascere, perché altrimenti la gente perde l’identità. Ci può essere
una forte circolarità, molto interessante; si pensi solo a dei momenti di preghiera in
comune tra il gruppo di appartenenza e quello di riferimento o a momenti di confronto
interessantissimo sulla sessualità per esempio.
Un altro aspetto può essere di differenziazione: appartenenza e riferimento, maschi
e femmine (e qui un po’ per contrastare la predominanza di un modello maschilista
della pastorale giovanile italiana. L’importante è che le donne, le ragazze
giochino questo loro ruolo in termini di sensibilità, di valori di cui sono portatrici
dentro, per correggere questa tendenza).
Un altro aspetto che credo sia importantissimo è il rapporto studenti-operai,
perché credo che molti movimenti giovanili ecclesiali commettano delle grosse omissioni
da questo punto di vista, non affrontando mai questa questione in termini di metodo, e nemmeno
di contenuto. Metodo significa che gli animatori devono essere anche operai, cioè non
solo chi studia di più, non solo chi ha più possibilità in termini
intellettuali. Molte volte, nei gruppi misti operai e studenti, gli operai si mettono a
scimmiottare gli studenti e perdono la loro identità, mentre hanno una identità
ben originaria che deve venire fuori, non deve essere soffocata da un'altra identità.
Ci sono poi alcuni criteri di analisi, di valutazione dei gruppi e dei movimenti giovanili
ecclesiali: un primo criterio è vedere il rapporto tra l'azione e il
ripensamento. Si può dare cioè un gruppo tutto centrato sull'azione, sulla
prassi, oppure tutto centrato essenzialmente sul ripensamento, sulla teoria.
Ancora, spiritualismo-incarnazione: un gruppo centrato molto sullo spiritualismo,
oppure un gruppo che cerca di incarnare i valori e le idee in cui crede.
Terzo: totalizzante-relativo: si può dare ancora un gruppo totalizzante,
cioè che «prende» totalmente, oppure un gruppo che prende ma che nello
stesso tempo lascia anche spazio, relativizza un po' la sua proposta, fa sì che ci siano
altre proposte. Un gruppo basato essenzialmente sul tempo libero dei giovani, cioè che
li inchioda sul tempo libero, fa delle proposte su questo, oppure un gruppo che fa delle
proposte coinvolgendo essenzialmente il quotidiano dei giovani. Un gruppo che va avanti
essenzialmente ad esperienze forti, il gruppo «agenzia di viaggi» che manda a
Taizè o a Spello, oppure un gruppo che essenzialmente li impegna sulla vita quotidiana
cioè il rapporto
esperienze forti-quotidiano.
Quarto rapporto: formazione o incidenza: vedere se l'obiettivo di un gruppo è la
formazione o è l'incidenza, risolvere i problemi o formare la gente.
Quinto rapporto: massa o élite: esistono dei gruppi che progressivamente sono
diventati élite e hanno perso il raccordo con la massa, oppure
gruppi attenti ai nuovi, che fanno il discorso dell'accoglienza, dell'itinerario,
differenziano gli interessi, i momenti di crescita ecc.
Sesto rapporto: personale e collettivo, si privilegia una educazione di tipo
personalista oppure di tipo comunitario e collettivo.
Settimo rapporto: critica e costruttività: vedere se un gruppo privilegia
l'aspetto della critica o della costruttività.
Se noi usiamo questi diversi criteri di valutazione, si può attraverso di essi valutare
un gruppo: il problema di fondo sta nell'essere fedeli ai propri valori, alla propria
identità, e in qualche modo avere un certo equilibrio tra questi aspetti. Voi capite che
un gruppo che potenzia essenzialmente il tempo libero, inchioda i giovani sul tempo libero, e
trascura il quotidiano, è un gruppo problematico. Però nello stesso tempo, un
gruppo che butta i giovani sulla vita quotidiana senza delle esperienze forti è un
gruppo che non è sensibile ai bisogni dei giovani, i quali hanno anche bisogno di
momenti così. Alcuni di questi aspetti, sono poi riconducibili in termini di
appartenenza e di riferimento: un gruppo adolescenziale sarà più totalizzante per
andare verso il relativo, il gruppo adolescenziale sarà più di appartenenza per
andare verso il riferimento, sarà più primario per andare verso il secondario.
C'è cioè la dimensione del processo.
Mi sembra che i giovani orientati religiosamente, i giovani che fan parte
dei gruppi religiosi ed ecclesiali, denuncino un riferimento di fede funzionale alla ricerca
del significato della vita quotidiana; credo che, oggi più che mai, i giovani
richiedano alla dimensione religiosa soprattutto una risposta alle loro esigenze di
socializzazione, di identificazione, di integrazione sociale, più che ad una risposta
sul fine ultimo, sul senso ultimo della vita. È una domanda che parte dalle esigenze
quotidiane e le lega alla fede, ma l'aspetto problematico è che i giovani possono
orientarsi ad assumere una fede-sicurezza, una fede-certezza in cui annidarsi, più che
una fede-rischio. Nasce quindi il problema del contenuto della fede.
Una seconda caratteristica con cui i giovani vivono il fatto religioso, è
l'essenzialità e l'immediatezza del riferimento religioso. Più che
identificarsi con i vari aspetti che costituiscono la religiosità tradizionale o il
modello religioso prevalente, i giovani danno più importanza al proprio specifico e
diretto riferimento con Dio, cogliendo il messaggio nella sua centralità ed
essenzialità. A me sembra che oggi per i giovani, il sacro non costituisca un
tremendum, il fascinoso, qualcosa di inavvicinabile, ma sia un qualcosa gestibile
immediatamente, come in una sorta di filo diretto con Dio. Si guarda al Vangelo cogliendo
l’essenzialità, non tanto l’aspetto etico o normativo. C’è il
superamento di una religiosità tutto sommato anagrafica e l’attenzione al nucleo
centrale del messaggio religioso più che alle sue incrostazioni storiche, ed è un
dato interessante. Viceversa, il dato problematico è il possibile rifiuto della
mediazione ecclesiale, e quindi il pericolo del soggettivismo nell’interpretazione del
messaggio.
Un terzo aspetto, è il forte senso del gruppo ecclesiale: più che appartenere
alla Chiesa in generale, il giovane orientato religiosamente attribuisce molta importanza alla
appartenenza allo specifico gruppo religioso giovanile, il ristretto gruppo di persone con cui
viene in contatto. Complessivamente sembra ci sia un esito sembra di crescita
dell’appartenenza ecclesiale, però è dovuto al fatto che cresce
l’identificazione con i singoli gruppi più che con la Chiesa in generale.
L’aspetto interessante è il fatto che i giovani vivono una esperienza in cui si
riconoscono, che è significativa di Chiesa, piccola Chiesa; il fatto problematico
ovviamente è la perdita del senso collettivo ecclesiale, di un senso ecclesiale
ampio, ma questo secondo me è un grosso problema che non riguarda solo la condizione
giovanile, è una concezione autonoma di Chiesa, di una Chiesa per sé più
che di una Chiesa intesa in senso ampio.
Un quarto aspetto è l’interpretazione della fede più come riferimento che
come azione, come prassi, come impegno concreto. Cioè ci si riconosce come cristiani
perché c’è una fede-riferimento, ci sono alcuni valori di fondo in cui ci
si riconosce (non si è più cristiani perché si vota tutti nello stesso
modo o perché si fanno quelle stesse scelte politiche o sociali). L’aspetto
interessante è che la fede dà effettivamente una risposta al bisogno di
identificazione personale e sociale, e quindi è una fede storicizzata; l’aspetto
problematico è che oggi ci può essere una costruzione di atteggiamenti
“puristi”, per cui i giovani non si impegnano più concretamente, vivono una
fede-riferimento e non una fede-impegno, non si sporcano più le mani nella storia, nel
sociale e nel politico. C’è un “pre-politico” interessante,
perché è il nucleo di valori in cui si crede, ma questo pre-politico rischia di
rimanere tale, cioè di non impegnare più il giovane nel concreto.
L’ultimo punto, lo scollamento tra il riferimento di fede e le scelte pratiche dei
soggetti. Significa che oggi c’è la tendenza, nei gruppi ecclesiali, nelle
associazioni, a fare magari un confronto sui principi della fede, salvo poi fare delle scelte
concrete senza sentire la necessità di confrontarsi anche su queste per vedere se, in
termini comunitari, sono in linea con il Vangelo. E’ un po’ il regno
dell’autonomia, e direi anche dell’indifferenza, per cui ognuno fa le sue scelte,
non sente più l’esigenza di confrontarsi e di stimolarsi reciprocamente e la fede
perde un po’ di dinamica perché non porta ad una dialettica interna, diventa
piuttosto un confronto astratto o generale, una perdita della funzione di stimolo. Credo che un
gruppo-movimento che fondi la sua identità sulla fede debba tener presenti questi
aspetti, proprio nell’impostazione della sua proposta e nell’annuncio.