Appunti da/di viaggio: Granada e l’Islam andaluso.

N.B. I testi del nostro sito www.gliscritti.it contrassegnati dal titolo “Appunti da/di viaggio” non hanno alcuna pretesa di completezza. Sono piuttosto frammenti volti a ricordare alcuni aspetti della storia cristiana di alcuni luoghi che meriterebbero un più ampio studio. Nei differenti testi presentati si possono notare sfumature ed interpretazioni diverse, proprio a motivo della loro natura di appunti. Vogliono inoltre essere un ricordo di luoghi visitati che fornisca alcune coordinate per futuri approfondimenti.

L’Areopago


Indice:


1. Elvira cristiana (l’attuale Granada) ed il concilio di Elvira

La porta di Elvira ci conserva il nome che la città di Granada aveva prima della conquista araba. L’antica Elvira romana (Elvira viene dal latino Iliberis) e poi cristiana occupava più o meno la zona ora occupata dal quartiere di Albaicìn. L’importante concilio che vi si celebrò vide riuniti i vescovi delle cinque province romane nella quale era divisa allora la Spagna. Stranamente ci è pervenuto, negli atti del concilio stesso, il giorno di inizio del concilio stesso, il 15 maggio, ma non l’anno preciso. Siamo certamente negli anni intorno alla persecuzione di Diocleziano, ma gli studiosi sono divisi se si sia tenuto negli anni 306-314, subito dopo la persecuzione, o immediatamente prima di essa. P.de Luis, nell’articolo “Elvira, concilio di” del Dizionario patristico e di antichità cristiane (DPAC, Marietti, Casale Monferrato, 1983, vol. I, coll. 1144-1145), propende per gli anni 300-303. Gli atti del Concilio si soffermano a più riprese a dare indicazioni ai vescovi, ai sacerdoti ed ai fedeli, perché la fede sia vissuta senza sincretismi con il paganesimo del tempo. Fra i firmatari del Concilio troviamo il vescovo di Cordoba, Ossio, che diverrà poi uno dei principali consiglieri di Costantino imperatore nelle questioni ecclesiali. Il canone più famoso del Concilio di Elvira è il 33 che, pur nelle diversità di interpretazioni che ha suscitato, mostra chiaramente la crescente valorizzazione del celibato ecclesiastico, poiché chiede a vescovi, sacerdoti e diaconi, pur se sposati prima dell’ordinazione, di vivere in continenza (il testo è discusso per l’esatta interpretazione dell’espressione “per tutti i chierici che sono impegnati nel servizio dell'altare”).
E’ estremamente difficile valutare oggi con obiettività tutta la sequenza di conquiste che si sono succedute. Il turista non accorto rimane colpito più dal fatto che la Granada cristiana di Isabella la Cattolica e Ferdinando e successivamente di Carlo V sostituisca i suoi edifici a quelli della periodo islamico – o, più precisamente, conservi questi ultimi, ma con l’inserzione di architetture cristiane - che non che la Granada islamica abbia, a sua volta precedentemente, sostituito fino alla totale scomparsa precedenti architetture paleocristiane.
Un caso analogo è quello della Mezqita-Cattedrale di Cordoba, dove la costruzione islamica che ha già sostituito la primitiva cattedrale cattolica di S.Vincenzo (nella prima moschea ben 150 capitelli erano tratti da monumenti precedenti pagani e cristiano-visigoti) viene a sua volta reinterpretata nuovamente come Cattedrale cristiana.
A sua volta, spesso, l’architettura cristiana dei primi secoli, riutilizza edifici originariamente pagani (vedi su questo, per la storia di Roma paleocristiana, la splendida tesi di laurea di Marco Valenti, presente nella sezione Arte e fede del nostro sito www.gliscritti.it)

2. Cronologia e brevi cenni di storia di Granada dalla conquista araba alla fine della dinastia nasride

Il testo che segue è la traduzione dallo spagnolo, curata da Emanuela Pichi, dei pannelli che presentano la storia di Granada, dall’VIII al XV secolo, esposti all’interno delle sale museali sottostanti il Palazzo di Carlo V, nell’Alhambra di Granada. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la messa a disposizione di questi testi on-line non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

Gli Arabi chiamarono Andalusia il nuovo stato islamico fondato nella Penisola Iberica; come tutti i paesi mediterranei questa era un autentico mosaico di civiltà e culture. Fin dall’antichità esistevano insediamenti di origine europea e berbera; già nel X secolo a. C. vi si erano stabilite colonie fenice, in seguito vi pervennero i greci che le diedero il nome di Iberia. Trasformandosi in provincia romana nel II secolo a. C., adottò il latino, le leggi e i costumi romani e il Cristianesimo, religione ufficiale dell’Impero dopo il IV secolo. Con lo smembramento di Roma le popolazioni germaniche di svevi, vandali e visigoti invasero successivamente la Penisola. Gli ultimi vi si stabilirono nel V secolo.

Agli inizi del VIII secolo il Regno visigoto, con capitale Toledo, il cui trono non era ereditario, ma elettivo, si era trasformato in un caos politico e sociale con un impoverimento generale accresciuto dalle frequenti siccità, dalla rivalità tra i nobili e il conseguente discredito dei monarchi.

Diversi fattori coincisero favorendo l’arrivo di una nuova civilizzazione che in appena otto decenni aveva conquistato tutto il bacino sud del Mediterraneo. Agli occhi delle popolazioni spagnole l’Islam si presentava come una grande forza di coesione, unitaria, con un enorme potere militare, con impostazioni culturali e sociali avanzate, avendo selezionato ed assimilato l’utile del mondo antico e della romanizzazione e rigettato l’effimero, ma, soprattutto, come civiltà tollerante e rispettosa dei costumi tradizionali e delle pratiche religiose dei paesi che andava conquistando.

Non c’è da stupirsi, quindi, che il ridotto contingente di truppe, arabe e fondamentalmente berbere, fosse accolto come liberatore, con una resistenza minima e che in pochi anni la popolazione locale abbia assimilato questa nuova civiltà accettando i suoi contenuti, fondendosi alla fine con essa e contribuendo a creare una delle tappe più feconde e creative nella storia dell’umanità.

Qui di seguito una sintesi della cronologia dall’VIII al XV secolo:

Nell’anno 710 il Governatore del Nord d’Africa inviò l’ufficiale Tarif con un gruppo di ricognizione, occupando con successo il promontorio sud della Penisola che ricevette il nome con il quale si conosce oggi la città di Tarifa; il Governatore, quindi, organizzò un esercito di circa 8.000 uomini al comando del suo luogotenente Tariq. Partendo da Tangeri, nel 711, attraversò lo stretto e sbarcò in una roccaforte che d’allora si chiamò Yabal Tariq (la montagna di Tariq), Gibilterra.

La conquista fu una rapida vittoria, senza necessità di battaglia in molte città. L’Andalusia diviene così una provincia dell’enorme impero Omeyyade, stabilendo la sua capitale in Siviglia. Questo periodo è noto con il nome di Waliato (da Wali o Governatore), nel quale si succedono 21 governatori, nominati o, piuttosto, direttamente dipendenti da Damasco o dai Governatori di Qayrawan. Non mancano intrighi e cospirazioni per il potere, mentre continua la conquista della Penisola e vengono poste le basi del nuovo stato.

Nell’anno 716 la capitale fu spostata da Siviglia a Cordova, nel centro dell’Andalusia e con una maggiore importanza strategica. Gli Omayyadi continuarono l’avanzata verso Nord, entrando in Francia, dove nel 732 furono sconfitti dalle truppe di Carlo Martello nella famosa battaglia di Tours o di Poitiers.

Una rivolta in Damasco annienta nel 750 la dinastia Omayyade che viene sostituita con la dinastia Abbasside, essendo stati assassinati il Califfo e la sua famiglia, tranne il principe Abd al-Rahman che riesce a fuggire iniziando un avventuroso pellegrinaggio attraverso il Nord d’Africa fino a sbarcare nell’anno 755 ad Almunecar nella Cora (provincia) granadina di Elvira.

L’Andalusia continuò ad essere una provincia dell’Impero islamico, finché Abd al-Rahman si proclamò Emiro in Cordova e dichiarò lo stato indipendente.

Durante quasi due secoli l’Emirato consolidò un paese prospero con un grande sviluppo dell’economia e dell’agricoltura.

Nell’anno 929 Abd al-Rahman III si proclama Califfo. Durante il suo mandato l’Andalusia consegue la sua massima espansione occupando tre quarti della Penisola e dominando importanti luoghi del Nord d’Africa.
Cordova e la nuova città palatina di Medina Az-Zahara si trasformano in autentiche capitali d’Occidente, fulcro di cultura e di scienza, il loro influsso perdurerà nel mondo islamico e in Europa per diversi secoli.

Con la morte di Almanzor, visir del Califfo Hisam II, inizia un periodo d’instabilità politica che sfocerà in una guerra civile (la Fitna) e la caduta del Califfato Omeyyade dell’Andalusia, con il suo rapido smembramento in una ventina di piccoli sultanati indipendenti e rivali tra loro, conosciuti come i Regni di Taifas (da “taifa”: fazione o partito).

La situazione fu ben utilizzata dai regni cristiani del Nord che conquistarono importanti territori arrivando ad imporre il vassallaggio a diversi sultani.

Davanti al pericolo, i musulmani ricorsero alla forte dinastia Almoràvide del Nord d’Africa che riuscì a frenare l’avanzata cristiana e a unificare l’Andalusia sotto il suo comando sebbene il suo territorio comprendesse ormai a stento la metà della Penisola.

Gli Almoràvidi in appena un secolo imposero una rigida amministrazione e un forte predominio sugli andalusi, generando un inevitabile malcontento e una sommossa locale, finendo per essere destabilizzati, generando quello che è stato chiamato il secondo periodo di Taifas.

Un’altra dinastia nordafricana, originaria delle montagne di Atlas, gli Almohadi (o unitari), con il suo integralismo religioso ed estetico aveva già rovesciato il potere dei decadenti Almoràvidi e invase l’Andalusia riuscendo ad unificarla di nuovo e ad estendere le sue frontiere al Nord. Gli Almohadi, che si credevano instauratori di un nuovo ordine nel mondo, governarono quasi un secolo e mezzo, apportando nuove idee, soprattutto in campo estetico e unificando come non mai l’Andalusia con il Nord d’Africa.

A partire dal 1212, con la loro sconfitta nella famosa battaglia a Las Navas di Tolosa di fronte alle truppe di Aragona, Castiglia e Navarra, gli Almohadi andarono indebolendosi fino alla loro scomparsa dalla Penisola. I regni cristiani avanzano nelle loro conquiste e l’Andalusia si va riducendo a piccoli sultanati insediati a stento in città. Nel 1232 i Nàsridi raccoglieranno il testimone dell’Islam e riusciranno a mantenerlo ancora per due secoli e mezzo.

Il sultanato nàsride di Granada (1232 – 1492) fu l’ultimo stato musulmano che sopravvisse dopo il XIII secolo alla conquista cristiana. Il capostipite della dinastia, Muhammad Ibn Yusuf Ibn Ahmad Ibn Nasr al-Ahmar, membro di una famiglia discendente di una tribù araba che governava nella città di Arjona, a Nord di Jaen, creò uno stato che si estendeva per tutta la costa mediterranea da Tarifa fin oltre Almerìa e all’interno, al Nord fino a poco più della città di Jaen.

Stretta a Sud dal sultanato del Nord d’Africa e a Nord dai regni cristiani, ambita da entrambi per 260 anni, Granada chiese aiuto alternativamente ai cristiani, in cambio di gravosi tributi, o ai musulmani Merìnidi del Marocco, a seconda che il suo aggressore fosse l’uno o l'altro.

Intorno all’anno 1228 si produsse la frammentazione del potere Almohade, in quella che alcuni hanno chiamato seconda Fitna o Guerra Civile, dalla quale i Nàsridi ricavarono il maggior profitto rimanendo come gli unici eredi dell’Islam nell’antica Andalusia.

Muhammad I, già in possesso di Jaèn e di Guadix nel 1232, si alleò con Ferdinando III il Santo per conquistare Cordova nel 1236, in cambio della città di Granada e di una serie di accordi che includevano il suo riconoscimento come sovrano e la disponibilità dell’esercito musulmano.
Grazie a ciò Muhammad potè governare in città come Malaga ed Almerìa, sebbene si vide obbligato a partecipare alla conquista di Siviglia (1248) al fianco dei cristiani. Questo gli procurò l’avversione dei suoi correligionari. A causa di ciò, dopo la morte di Ferdinando nel 1252 e gli attacchi dei suoi alleati cristiani, patteggiò con i Merìnidi del Nord d’Africa.

Questa, che fu la genesi dello Stato nàsride, continuò ad essere la costante generale lungo tutta la sua storia.

Quello che in politica estera era una continua alternanza diplomatica con l’uno e con l’altro, a livello interno non era meno instabile.

Frequenti sollevazioni dei governatori, lotte dinastiche e intrighi di palazzo erano la costante nel potere. E’ possibile averne una conferma dalla lista dei sultani che governarono, molti dei quali furono assassinati a tradimento, deposti o reintegrati in un breve lasso di tempo.

Alla fine della prima metà del XV secolo, Granada non poteva più ricorrere ai Merìnidi del Marocco che erano in decadenza e arrivarono a chiedere aiuto all’Egitto e agli Ottomani dopo la conquista di Costantinopoli nel 1453. La perdita nel 1462 di Gibilterra, suo collegamento con il Marocco, i sempre più gravosi tributi ai cristiani, che già si avviavano ad un processo di unificazione e tolleravano meno la presenza musulmana nella Penisola, segnano la decadenza del sultanato nàsride, aggravata dal matrimonio tra Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia e l’unione dei loro regni nel 1479.

A partire dal 1481 il sultano Alì realizzò alcune conquiste, ma si abbandonò ai piaceri di corte cedendo il potere al suo visir tra il malessere e le sollevazioni dei suoi sudditi, mentre sua moglie e la sua concubina cristiana lottavano per il diritto al trono dei loro rispettivi figli, che alla fine fu conquistato da Abu Abd Allah Muhammad (Boabdil), figlio della prima.
Durante una spedizione questi fu fatto prigioniero e riscattato in cambio di 400 prigionieri cristiani, 12.000 pezzi d’oro e la promessa del riconoscimento di sovranità di Ferdinando d’Aragona su Granada.

Boabdil, dopo aver ripreso il potere, non potè mantenere la forza del suo stato e una dopo l’altra caddero le sue principali città, Alhama, Loja, Malaga, Baeza e Almerìa, rimanendo solo Granada, sovrappopolata e assediata.

Davanti all’irreversibile situazione, Granada si arrese il 2 gennaio 1492 mediante un accordo – le Capitolazioni - che garantiva ai musulmani l’esercizio della propria religione e la conservazione della lingua e dei costumi, condizioni forse troppo generose per poter essere rispettate dai vincitori.

3. La raffigurazione umana nella pittura islamica, nella Sala dei Re dell’Alhambra

Un episodio artistico che meriterebbe un attento approfondimento è quello dei dipinti su pelli di montone che, incollate al legno, ornano i soffitti delle tre sale dette “de los Reyes”. Essi sono testimonianza diretta di qualcosa che conosciamo anche da testi letterari, come gli scritti di Ibn Jaldun, Mentre l’ortodossia ufficiale dell’Islam di allora proibiva – come tuttora avviene oggi - non solo la rappresentazione di Dio, ma anche della figura umana, troviamo invece questi tre soffitti affrescati all’interno delle sale più nobili dell’Alhambra, segno di quegli interscambi e contaminazioni che allora avvenivano fra la cultura cristiana e quella musulmana. Nel primo dei dipinti vediamo la caccia del cinghiale e dell’orso, insieme alla cattura di un leone, con un cacciatore cristiano ed uno musulmano che desiderano conquistare il cuore di una donna; appare anche la Fonte della giovinezza. Nel secondo vediamo il castello dell’Amore, con nuovi episodi di caccia, con un uomo che gioca con una scacchiera, con il salvataggio di una donzella e con un cavaliere musulmano che uccide un cavaliere cristiano. Nel terzo vediamo 10 dignitari islamici, probabilmente la successione di sovrani granadini. Queste pitture mostrano come l’utilizzo della raffigurazione della figura umana, che già era conosciuta nell’Islam omeyyade (vedi i castelli nel deserto della Giordania) riappaia anche in altri momenti della storia islamica. Una analoga contaminazione troviamo nel soffitto ligneo del Palazzo dei Normanni di Palermo, dove sono tuttora conservate le immagini umane di personaggi della corte palermitana araba. Sui dipinti islamici di Granada, vedi: C.Bernis, Las pinturas de la sala de los Reyes de la Alahmbra, in Cuadernos de la Alahmbra 18, Granada, 1982, pagg. 21-50.

4. Demitizzare l’Andalusia. Prospettive per una corretta interpretazione della “Spagna musulmana” secondo le recenti ricerche su al-Ándalus e gli andalusì di Manuela Marín

L’Enciclopedia del Mediterraneo, edita da Jaca Book, ha pubblicato un agile volumetto di Manuela Marín, studiosa affermata del periodo andaluso, dal titolo Storia della “Spagna musulmana” e dei suoi abitanti: al-Ándalus e gli andalusì.
La sua ricerca consente di introdurci allo status quaestionis delle ricerche sull’Andalusia e sul regno di Granada.

Manuela Marín, nel capitolo finale del suo libro, significativamente intitolato “Il mito di al-Ándalus” si sofferma,innanzitutto, a mostrare come sia falso un primo tentativo di lettura di questo periodo, interpretato come mera parentesi fra l’Hispania visigotica e la Spagna del ‘500:

Poche epoche della storia della penisola iberica hanno suscitato tante discussioni e sono state oggetto di interpretazioni tanto divergenti come quella andalusì. E’ già stata fatta notare... l’esistenza di una corrente storiografica, che può venire classificata come “tradizionalista”, secondo la quale questa tappa della storia peninsulare doveva rientrare in una linea di continuità che preserva l’identità spagnola a partire dalla romanizzazione fino alla “riunificazione” dei territori ispanici sotto i Re Cattolici.
Secondo questa visione essenzialista della storia, la vicenda di al-Ándalus si trasforma, dopo il suo dissolversi come entità politica, in un episodio – di lunga durata – il cui ricordo doveva venir cancellato dalla memoria collettiva o, in ogni caso, permanervi sotto il segno del rifiuto più assoluto. Per questa storia della Spagna, la conquista di Granada divenne una pietra miliare fondamentale, accompagnata da altri avvenimenti non meno definitori di una certa idea dell’identità spagnola: l’unificazione religiosa e territoriale, la repressione della dissidenza ideologica, l’espansione coloniale, la contrapposizione all’impero ottomano, ecc. L’idea della reconquista come epopea secolare per recuperare le terre occupate dagli andalusì doveva necessariamente considerarli come occupanti illegittimi del proprio paese. Si espellevano così gli andalusì dalla storia della Spagna, come erano stati precedentemente espulsi i mori, considerandoli un corpo estraneo e pregiudizievole, senza alcun diritto di far parte della memoria storica spagnola (pag. 50-51).

Ma altrettanto ingannevole appare alla nostra studiosa l’idealizzazione, contrapposta alla damnatio memoriae appena vista, del periodo andaluso:

Nell’ambito di questo recupero, al-Ándalus cominciò a venire considerato, logicamente in alcuni luoghi più che in altri, come un’eredità di riguardo che poteva perfino venire utilizzata come marchio di qualità e di prestigio. Due sono stati i temi sorti con maggior forza da questo uso mitizzante e che continuano a svilupparsi con insistenza e, probabilmente, senza possibilità di ritorno.
Il primo di questi due temi ha conosciuto una fortuna di molto maggiore di qualsiasi delle sue interpretazioni precedenti e sarà difficile che, nelle circostanze attuali, possa venire sottoposto ad una rivalutazione: si tratta dell’immagine di al-Ándalus come società della tolleranza e della convivenza, nella quale fioriscono le “tre culture” in un ambiente di mutua comprensione e che fu soppressa violentemente dai conquistatori cristiani. Questa invenzione consolatrice permetteva di accettare che non tutto nella storia della Spagna era stato inquisizione e “viva le galere!”. Anzi, autorizzava a rivendicare una parte del passato e a mostrarla come esempio da seguire nelle non sempre limpide acque del presente, non solo in Spagna: il modello di convivenza delle tre religioni monoteiste ha applicazioni in altri luoghi del Mediterraneo ed esistono numerosi esempi di suoi usi politici e propagandistici, sia in Spagna, sia al di fuori di essa.
Il successo di questa proposta interpretativa di al-Ándalus è cresciuto alimentato da commemorazioni varie e dalla diffusione di concetti come il meticciato e la multiculturalità, entrambi dotati di un certo carattere paternalista (molto più accusato nel caso della “tolleranza”). In nome delle tre culture e della loro armoniosa convivenza sono stati convocati congressi scientifici e riunioni di rappresentanti delle tre religioni interessate: lo slogan ha impregnato il discorso politico e si è trasformato in una comoda risorsa per affermare retoricamente la bontà dell’aperturismo verso altre culture. Invocare l’immagine dell’ al-Ándalus tollerante e multuculturale è un procedimento di semplice efficacia e a rischio zero: pertanto la sua permanenza è garantita fino a quando non sorgerà un’altra distorsione storica di maggior forza.
Nel secondo tema di questa recente mitizzazione di al-Ándalus, le virtù decantate della società andalusì non si radicano unicamente nella sua apertura tollerante ma derivano naturalmente da essa. Quella che è stata chiamata “l’arte di vivere” andalusì ha plasmato, in questo secondo livello del mito, uno spazio di delicati piaceri sensuali, modello offerto all’ammirazione leggermente invidiosa della società postindustriale. Il gusto per i profumi, i giardini, la buona cucina, la musica e le belle donne diventa così peculiare degli andalusì, esperti conoscitori e degustatori dei piaceri vitali più raffinati. Vengono pubblicati libri di cucina andalusì e romanzi ambientati nella Cordova califfale in cui è possibile percepire chiaramente l’eco del fascino occidentale verso i sistemi sensuali d’Oriente. Si è così giunti a costruire il mito di una società andalusì reinventata nei nostri giorni per esprimere gli aneliti di coloro che abitano la stessa penisola cinquecento anni dopo e che si immaginano un mondo ideale in cui la soddisfazione del desiderio avveniva con finezza e fervore. Forse con minore diffusione dell’idea della convivenza e delle tre culture, questo aspetto del mito andalusì non è, tuttavia, meno attraente e presenta già conseguenze curiose, come l’apparizione in Andalusia di piatti “mozarabici” in alcuni ristoranti o l’imposizione a neonati (soprattutto bambine) di nomi con risonanze arabe.
Bisognerebbe ricordare che la “tolleranza” è un’idea relativamente recente ed estranea agli andalusì (come a qualsiasi altra collettività precedente alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo), e che l’unica cultura fornita di caratteristiche che permettano di considerarla tale, in al-Ándalus, fu l’araba-islamica. E’ pur vero che le minoranze ebree e cristiane godettero in al-Ándalus di uno statuto di “protezione” infinitamente migliore di quello degli ebrei nell’Europa medievale, che ci furono famiglie di religione mista e che gli emiri musulmani ebbero al proprio servizio amministratori e medici ebrei e cristiani. E’ anche vero che gli episodi di persecuzione nei confronti di queste minoranze furono pochissimi nella storia di al-Ándalus, anche se se ne verificarono alcuni, come quello di Granada dell’XI secolo, con un elevato numero di vittime. Il che non implica però che esistesse ciò che oggi viene qualificato con ammirazione come convivenza modello.
Però il mito funziona proprio perché si sente il bisogno della sua esistenza, in tempi in cui la xenofobia è la base ideologica di alcuni dei partiti politici e di molti atteggiamenti personali. Così, il desiderio di rivendicare un’ “arte di vivere” andalusì nasconde l’evidente realtà storica che il raffinamento dei costumi, che oggi risveglia il desiderio di una sua emulazione, era confinato a gruppi sociali ridottissimi. Mentre a nessuno viene però in mente di estendere lo splendore della corte di Versailles, per fare un esempio, a tutta la società francese del XVII secolo, nel caso di al-Ándalus vengono generalizzati senza pudore i gusti e gli appetiti della classe dirigente allargandoli a tutti gli strati della società e si giunge alla conclusione che gli andalusì erano, per natura, gente di una raffinatezza e saggezza speciali e particolari. Si dimentica che il Generalife non era un giardino aperto al pubblico e che la dieta normale dell’immensa maggioranza della popolazione non includeva nessuno dei piatti descritti nei ricettari di cucina giunti fino ai nostri giorni (pag. 55-58).

Per la Marín con il termine “Al-Ándalus” dobbiamo indicare un preciso momento storico, con una precisa forma di potere che lo contraddistinse:

Con il nome al-Ándalus si designa la parte della penisola iberica che dal 711 al 1492 rimase sotto il governo di un potere politico islamico: è la denominazione data a questi territori dai suoi stessi abitanti, gli andalusì. “Al-Ándalus” è la forma sotto la quale appare questo nome nell’arabo classico, la lingua in cui venne redatta la maggior parte dei testi scritti che si sono conservati di questo periodo della storia peninsulare (pag. 7).

Pertanto l’Andalusia, se da un lato nell’odierno linguaggio intende una specifica regione della Spagna, in quei secoli assunse connotazioni diverse e più ampie a seconda dei territori che venivano a trovarsi sotto quella specifica dominazione:

Perché è giusto privilegiare la forma al-Ándalus? In primo luogo perché riflette il modo in cui gli abitanti di al-Ándalus facevano riferimento alle proprie terre. Ma anche, e questo è ancor più importante, perché formule come “Spagna musulmana” sono imprecise dal punto di vista storico e geografico. Nel medioevo parlare di Spagna risulta del tutto anacronistico: ciò che esisteva allora, nella parte settentrionale della penisola iberica, erano regni cristiani con differenti nomi (León, Castiglia, Navarra, Aragona...). Neanche dal punto di vista geografico questa denominazione risulta adeguata dato che esclude da al-Ándalus tutti i territori che appartengono oggi al Portogallo e che furono tanto andalusì quanto quelli che attualmente sono spagnoli. Di tutte le formule impiegate tradizionalmente forse la meno felice è quella che fa riferimento ad una realtà “arabico-andalusa” poiché identifica al-Ándalus con l’Andalusia. E’ pur vero che il nome attuale di Andalusia proviene da al-Ándalus e che le vestigia materiali del passato andalusì sono più evidenti in Andalusia che in altre regioni della penisola iberica. Ma è bene evitare questa identificazione tra “andalusì” e “andaluso” che omette verità talmente scontate come il fatto che, in determinati momenti della propria storia, città quali Barcellona, Tudela, Madrid o Lisbona furono tanto andalusì quanto Cordova o Siviglia (pag. 8-9).

Al-Ándalus appartenne in maniera inequivocabile al mondo islamico mediterraneo, con un potere che si spostava a seconda dei momenti dalle città del Nord Africa a quelle del Sud della Spagna e che ne seguiva l’ascesa o il declino:

In primo luogo l’appartenenza di al-Ándalus al mondo islamico mediterraneo, cioè a un modello di società differente da quello della società feudale che va sviluppandosi, contemporaneamente, nell’Europa cristiana. In secondo luogo, e in questo contesto generale, la storia di al-Ándalus deve essere collocata all’interno di quella dell’Occidente islamico medievale, cioè della penisola iberica e dei paesi del Maghreb. Questo vincolo va oltre l’ovvio condizionamento geografico, dato che suppone l’esistenza di un’area culturale comune. Le vicissitudini storiche fecero sì che il potere economico oscillasse tra le due sponde dello stretto di Gibilterra, dando in un primo momento la supremazia ad al-Ándalus e poi, a partire dalla fine dell’XI secolo, al Maghreb; però la storia di al-Ándalus non può essere capita se non si tiene in considerazione questo vincolo dovuto ad una comunità d’interessi politici e culturali. Infine, una terza costante della storia andalusì è la sua qualità di società di frontiera, situata al limite occidentale dell’espansione islamica. Questo fatto ha segnato profondamente l’evoluzione della società andalusì che dovette affrontare permanentemente – in special modo a partire dalla fine del X secolo – una minaccia militare crescente che finirà per provocarne la scomparsa (pag. 11-12).

L’esercito fu sempre in mano ad esponenti non autoctoni. La differente pressione fiscale per le persone di religione islamica e di religione cristiana (o ebraica) segnava una differenza di appartenenza alla “società”. I meccanismi sociali erano, ovviamente, differenti da quelli della contemporanea società medioevale europea:

La costituzione di un potere politico proprio, realizzato pienamente solamente sotto l’emirato e il califfato omayyade, si scontrò con debolezze interne che non vennero mai sufficientemente superate, tra le quali bisogna segnalare, in primo luogo, quella militare. Un esercito basato su formazioni tribali – lo strumento della conquista e dei primi stanziamenti territoriali – venne sostituito progressivamente da un esercito professionale, basato, a partire dal X secolo, su contingenti provenienti dall’Africa settentrionale. La popolazione autoctona venne svincolata dalla difesa del territorio mediante il pagamento di imposte per finanziare l’esercito, il che provocò una cesura critica nel rapporto tra società “civile” (che partecipava solo occasionalmente alla lotta contro i cristiani mediante contributi simbolici di volontari) e il potere militare. Il potere politico, nella sua evoluzione storica, si imponeva su una società composta teoricamente da una comunità unita da legami strettamente religiosi: quella musulmana. In pratica vi furono livelli sociali differenziati dalla capacità economica e dall’origine genealogica, senza che questo desse però luogo alla formazione di una nobiltà di sangue, provvista di diritti ereditari e dotata del controllo permanente sulle risorse fiscali e sulle rendite del lavoro contadino. I contadini non erano vincolati alla terra, la cui proprietà si mantenne in alcuni casi in mano degli antichi signori di origine visigota o venne ripartita tra gli arabi e i berberi legati alla conquista. Il sistema di trasmissione patrimoniale islamico, secondo il quale si dispone liberamente solo di un terzo dei beni per la distribuzione testamentaria (il resto deve seguire rigide norme di ripartizione tra tutti gli eredi legali), implicò un freno allo stabilimento e al perdurare di grandi proprietà territoriali, anche se in alcuni casi si trovarono dei modi, all’interno della legislazione islamica, per aggirare questo ostacolo. L’acquisizione delle risorse per lo stato si basava su un sistema fiscale che, nei momenti di maggior splendore del califfato, forniva dei proventi assai elevati. Lo statuto della terra era determinante per fissare i tassi impositivi e dipendeva dall’appartenenza del proprietario alla religione cristiana o musulmana; in quest’ultimo caso doveva pagare solo il decimo. Tuttavia questa norma del diritto islamico si andò adattando, in al-Ándalus come in altre regioni, alla necessità dello stato di non perdere proventi tramite la conversione all’Islàm dei proprietari terrieri. A partire dalla dissoluzione del califfato omayyade, il fisco di ogni piccolo regno di taifa si irrigidisce a causa delle pressioni che ricevono i nuovi signori obbligati a pagare in molti casi “imposte di protezione” ai re cristiani per garantirsi la sopravvivenza. Infine bisogna segnalare che le strutture di parentela andalusì si articolano sull’esistenza di formazioni tribali – almeno in una prima epoca – e di una famiglia di tipo patrilineare in cui esiste la possibilità della poligamia e del divorzio. Il tutto conforma una società con caratteristiche proprie, soggette ad evoluzione, cambiamenti e ricezione di influenze esterne, nonché all’assimilazione di elementi preesistenti; comunque, in ogni caso, una società radicalmente differente da quella che si sarebbe formata nella penisola iberica se non si fosse verificato l’arrivo dell’Islàm (pag. 19-21).

La differenza etnica e religiosa marcava l’identità dei gruppi dirigenti:

Sia l’origine etnica, sia l’affiliazione religiosa erano elementi basici per la definizione dell’identità individuale o collettiva in al-Ándalus ed è perciò necessario dedicare a questo aspetto un’attenzione speciale. L’Islàm, come religione, fu rivelato agli arabi e in lingua araba, il che conferì a questo popolo e al suo modo di esprimersi un prestigio che lo situava al di sopra del resto delle popolazioni che progressivamente si convertirono a esso. In al-Ándalus i gruppi di origine araba non smisero mai di essere una minoranza rispetto al complesso della popolazione ma godettero sempre di questo prestigio aggiunto dovuto alla propria origine e, almeno nella prima epoca della storia andalusì, esercitarono un controllo praticamente totale sul potere politico, amministrativo e militare (pag. 22).

A fianco degli arabi, che erano una ristretta minoranza, troviamo il gruppo etnico dei berberi. Molte delle lotte intestine che, a scadenze diverse, travaglieranno al-Ándalus hanno come motivo remoto questa differenza originaria. Nella stessa Granada la bipolarità della struttura cittadina che venne strutturandosi da un lato sulla collina di Elvira (ribattezzata Albaycin), dall’altro sulla collina dell’Alhambra, fece sì che la seconda divenisse, di volta in volta, rifugio dei difensori locali arabo-andalusi o degli invasori nordafricani maghrebini:

Con l’Islam i contingenti berberi giunsero in al-Ándalus in numero molto superiore a quello degli arabi e, anche se non si tratta di un processo ben documentato, molti altri dovettero giungere a stabilirsi nella penisola, non sempre come guerrieri o soldati. I berberi erano già musulmani e lottavano in nome dell’Islam. Quelli che si stabilirono nelle città si arabizzarono rapidamente e, stando ai dati disponibili, si incorporarono con facilità alle élites governanti... Tra le famiglie berbere più importanti ci fu chi mantenne la nisba tribale berbera ma ci furono anche casi di adozione di segni onomastici arabi, come accadde con la popolazione convertita di origine locale. Ciò significa che il prestigio genealogico di cui godevano gli arabi, in quanto rettori della società, era superiore a quello dei berberi, e ciò si traduce nella perdita o nell’attenuazione dei segni onomastici di questi ultimi. Nella seconda metà del X secolo nuovi contingenti berberi si integrarono nell’esercito califfale. Questi berberi, a volte qualificati come “nuovi”, svolsero un ruolo decisivo durante il periodo di guerre civili seguito alla scomparsa del califfato; nell’XI secolo conquistarono il potere in alcuni dei regni di taifas in cui si suddivise al-Ándalus, come in quello di Granada. Poco arabizzati in alcuni casi, e con una forte permanenza delle proprie strutture tribali e sociali, questi nuovi berberi produssero un rinnovamento dei gruppi dirigenti andalusì, il che provocò una lunga serie di confitti sia con le popolazioni su cui dominarono, sia con altri poteri locali. (pagg. 28-29).

La preminenza dell’etnia araba generava un desiderio di maturare le condizioni per appartenervi:

Non bisogna dimenticare che per la popolazione non araba imparentarsi con l’élite araba era un mezzo di ascesa sociale e di integrazione con i gruppi di potere. D’altro canto, bisogna tenere in considerazione che la trasmissione genealogica, nel sistema di parentela arabo, è esclusivamente patrilineare. Cioè si è arabi al cento per cento se si è figli di un uomo arabo, senza che l’etnia della madre venga presa in considerazione. Per questo l’appartenenza alla propria parentela si mantiene anche se si produce una mescolanza con popolazioni di origine non araba (pag. 23).

Ai credenti cristiani ed ebrei era permesso la permanenza nella propria fede, ma non la libera predicazione del proprio credo. A donne cristiane era permesso il matrimonio con uomini musulmani, ma era vietato quello di donne musulmane con uomini cristiani:

Comunità cristiane e, in minor numero, ebree, formarono parte del “paesaggio” religioso di al-Ándalus per una gran parte della sua esistenza, anche se, a partire dall’XI secolo diminuirono progressivamente fino a quasi sparire nel periodo finale della sua storia. La loro esistenza si basava su una cornice legale elaborata all’interno dell’Islàm atta a situare le precedenti religioni rivelate (cristianesimo ed ebraismo, le “genti del Libro”) su un piano socialmente inferiore al proprio ma che concedeva ai cristiani e agli ebrei la gestione interna delle proprie comunità e il mantenimento dei propri usi e costumi e delle leggi familiari e religiose. Come si è già visto, i musulmani potevano sposarsi con donne cristiane ed ebree (anche se cristiani ed ebrei non potevano sposare donne musulmane), il che favorì in molti casi la conversione all’Islàm di cristiane sposate con musulmani. Si calcola che verso la metà del X secolo la società andalusì – o, per lo meno, quella urbana – era in maggior parte musulmana e che il processo di islamizzazione aveva raggiunto il proprio apogeo. Non bisogna dimenticare che nell’Islàm non esiste la conversione forzata. Le popolazioni dei luoghi incorporati al potere politico musulmano potevano conservare la propria religione, come fecero in al-Ándalus le comunità cristiane ed ebree di cui si ha notizia. Chi si convertì, fino a formare la maggioranza della popolazione, lo fece per una varietà di motivi non difficili da spiegare: dalla similitudine con le religioni preesistenti all’attrazione verso una credenza strettamente monoteista e ai vantaggi materiali e sociali che supponeva l’integrarsi al credo dei vincitori (pag. 27-28).

La schiavitù era un elemento della società andalusa del tempo:

Per completare il variegato paesaggio umano di al-Ándalus non bisogna dimenticare di menzionare la presenza di schiavi di origine molto diversa ma soprattutto provenienti dall’Europa cristiana e dall’Africa subsahariana. Come nel resto dell’Islàm medievale, la schiavitù in al-Ándalus era fondamentalmente di tipo domestico o militare. Molte delle madri degli emiri o califfi andalusì furono schiave rumi (romane, cioè bizantine) o berbere; il lavoro domestico nelle case di famiglie benestanti dipendeva spesso da schiave galiziane o franche. Nell’alcázar califfale svolsero un ruolo importante gli schiavi eunuchi, che dominarono l’apparato amministrativo fino a intervenire direttamente nella successione della famiglia sovrana prendendo partito per l’uno o l’altro dei candidati al potere. Tutti gli schiavi di origine europea erano chiamati “slavi” per estensione e, come i berberi “nuovi”, crebbero notevolmente di numero durante la seconda metà del X secolo; anch’essi riuscirono, alla caduta del califfato, a conquistare il controllo di alcuni dei regni di taifas, specialmente nelle regioni orientali di al-Ándalus (pag. 29-30).

La vita sociale aveva come fulcro l’edificio “moschea” e la sua vita pubblica, con la presenza dei predicatori, direttamente legati all’emiro o al califfo:

Le moschee rappresentano, nel contesto delle città andalusì, l’ambito religioso e pubblico per eccellenza. Nelle grandi città oltre alla moschea maggiore (moschea aljama) c’erano altre moschee più piccole situate nei differenti quartieri che, nel caso di Cordova, davano loro il nome. La preghiera comunitaria dei musulmani, che si deve tenere il venerdì, veniva presieduta da un imam o conduttore della preghiera con la partecipazione di un predicatore che pronunciava il sermone del venerdì a nome dell’emiro o del califfo. L’atto religioso più importante della comunità musulmana andalusì aveva quindi anche una forte componente politica, dato che serviva ad esprimere la lealtà e il riconoscimento della comunità al suo condottiero e guida (pag. 35-36).

Altre forme organizzative non erano abituali nell’Islam andaluso:

Come contropartita alla fluidità di un sistema basato sul primato delle relazioni personali, si osserva in al-Ándalus l’assenza di formule associative o istituzionali che accolgano ed appoggino gli interessi dei gruppi sociali o che esercitino un ruolo di intermediario tra il potere del principe e i suoi sudditi (pag. 39-40).

L’accesso alla conoscenza delle scienze islamiche non era impedito da fattori aristocratici:

Anche se sono esistiti arabi originari che si dedicarono allo studio e alla trasmissione di queste conoscenze specialistiche, una gran parte degli ulema andalusì della prima epoca discendevano da convertiti all’Islàm e provenivano da ambienti di commercianti ed artigiani. Sono questi “professionisti” delle scienze islamiche (studiosi del Corano, della tradizione profetica e del diritto) che rappresenteranno il maggior fattore di coesione nelle società urbane, giacché al loro ruolo di trasmettitori della scienza si aggiunge il fatto che essi incarnano l’ideale di uguaglianza così fortemente presente nell’ideologia islamica. Al di là delle origini etniche e delle genealogie illustri, gli uomini di scienza, gli ulema, rappresentano l’assunzione dell’identità musulmana come unica categoria sociale degna di venir tenuta in considerazione (pag. 37-38).

Sia il processo di unificazione sotto un unico potere, sia il mantenimento di esso, conobbero alterne vicende, dovute alle lotte politiche fra i differenti gruppi arabi e berberi che, di volta in volta, cercarono il potere nel Maghreb e nella Spagna musulmana. Queste lotte interne si intersecarono sovente con le lotte degli emergenti regni spagnoli, che alla fine ebbero il sopravvento:

Questo processo venne portato a termine non senza aver sperimentato alcuni soprassalti nonché una serie di crisi che minacciarono l’esistenza stessa di questa società islamica in formazione. Tra gli episodi più rilevanti in questo senso bisogna menzionare la cosiddetta “rivolta dell’Arrabal” (del sobborgo) che ebbe luogo a Cordova nei primi anni del IX secolo, durante il regno di al-Ḥakam I, e che si concluse con la vittoria dell’emiro e con l’esilio della maggior parte dei ribelli. Al-Ḥakam uscì rafforzato dallo scontro ma le tensioni interne della società andalusì, riflesse in questo caso nell’ambito ridotto della società urbana di Cordova, esplosero verso la fine del IX secolo, sotto il regno dell’emiro ‘Abd Allah. Al-Ándalus si trovò allora praticamente in una situazione di dissoluzione del potere centrale cordovese, la cui capacita di controllo del territorio finì per essere limitata alla capitale e ai suoi dintorni. Durante questo periodo, che nelle cronache arabe viene designato come fitna (“discordia, disordine, guerra civile”), si produsse una serie di movimenti disgregatori, causati in buona parte dall’apparizione di resistenze di molteplice origine nei riguardi del processo di costruzione della società islamica. Tra queste, la ribellione di ‘Umar b. ̣Ḥafsūn, che ebbe il proprio focolaio sui monti di Malaga, è quella che ha maggiormente interessato gli storici, ma non fu l’unica, e non può venire spiegata, come a volte è stato fatto, con l’origine “ispanica” del suo capo.
Le resistenze al processo unificatore, identificato in queste pagine con quello della costruzione di una società islamica, avevano molteplici origini: elementi tribali arabi desiderosi di mantenere le proprie posizioni di potere, berberi che si consideravano pregiudicati dalla suddivisione di detto potere o discendenti dell’aristocrazia visigota, convertiti all’Islàm e interessati a conservare o ad ampliare i propri margini d’azione. Nella fitna della fine del IX secolo, gli uni e gli altri si allearono tra loro in diverse occasioni per lottare contro la costruzione di uno stato che minacciava le proprie posizioni; non si può parlare, pertanto, di movimenti di rifiuto a partire esclusivamente da identità etniche o religiose (pag. 31-33).

La residenza voluta vicino a Cordova da ‘Abd al-Raḥmān III, Madīnat al-Zahra‘, recentemente risistemata, rappresenta visivamente l’ideale di governo del suo signore:

Quando ‘Abd al-Raḥmān III succedette nel 912 a suo nonno ‘Abd Allah, il futuro della famiglia omayyade in al-Ándalus non si prospettava particolarmente brillante. I primi anni del suo governo furono dedicati al contenimento e alla risoluzione delle ribellioni che erano state sul punto di porre fine al potere della sua dinastia. Una serie di energiche campagne militari e di abili accordi fecero sì che, in poco tempo, ‘Abd al-Raḥmān III riuscisse a recuperare il terreno perduto e si convertisse non solo nel principe più potente della penisola iberica, ma anche nel primo califfo di Al-Ándalus. La sua personalità rappresentò senza dubbio un beneficio fondamentale in questo momento cruciale della storia andalusì ma l’apparente facilità con cui ‘Abd al-Raḥmān III riuscì ricondurre all’ordine la situazione si spiega meglio se si tiene in considerazione che i fattori di coesione sociale stavano raggiungendo il punto critico, oltre il quale inclinarono definitivamente la bilancia del potere a suo favore.
Nel X secolo, sotto l’egida dei califfi omayyadi ‘Abd al-Raḥmān III (912-961) e al-Ḥakam II, suo figlio e successore (961-976), al-Ándalus, una società islamica, si trasforma nel potere regionale più importante del Mediterraneo occidentale. I segnali esterni di tale potere abbondano tanto nei testi scritti quanto nei testi materiali sopravvissuti al passare del tempo: nella nuova città fondata vicino a Cordova da ‘Abd al-Raḥmān III, Madīnat al-Zahra‘, i cui resti danno ancora un’idea del suo passato splendore, il califfo riceve le ambasciate dei re cristiani e dei signori magrebini. Il programma urbanistico di Madīnat al-Zahra‘ situava sul piano superiore delle tre terrazze su cui si estendeva la città la residenza del califfo, che aveva adottato il titolo califfale di al-Nāṣir li-dīn Allāh (“il vincitore per la religione di Dio”). Da quel luogo il califfo prendeva possesso simbolico dei livelli inferiori in cui erano collocati i servizi amministrativi, le zone commerciali e artigianali, la moschea e le aree residenziali della città (pag. 33-34).

5. Minoranze religiose nell’islam e nell’islam andaluso. Ebrei e cristiani

N.B. Non abbiamo voluto uniformare la trascrizione dei caratteri arabi nei diversi testi citati, ma l’abbiamo conservata così come appariva nel testo citato.

Cristiani in Arabia ed in altri territori con governo islamico

Secondo la tradizione islamica differenti regole presiedono alla vita di minoranze non islamiche, a seconda che si tratti della penisola arabica o di differenti regioni della terra. La dottrina ufficiale non autorizza la presenza di culti ebrei o cristiani in Arabia, ma lo permette altrove (diverso, come è noto, è il caso delle altre religioni dal paganesimo alle altre religioni dell’Oriente che, più semplicemente, sono interdette ovunque dalla dottrina islamica tradizionale, senza distinzioni di luogo). In realtà i primi storici dell’islam ci danno un quadro differente. Così C.Eid in A morte in nome di Allah. I martiri cristiani dalle origini dell’islam a oggi, Piemme, Casale Monferrato, 2004, pagg.25-29:

Najran, anno 20 dell’Egira, il 642-643 dell’era cristiana. “Il Comandante dei credenti vi chiede di abbandonare questa città e di trasferirvi in qualsiasi altro luogo al di fuori della Penisola arabica”. La secca comunicazione di Ya ‘la bin Umayya, emissario del califfo Omar bin al-Khattāb, si abbatte come un macigno sulla testa dei notabili di Najran riuniti d’urgenza nel palazzo del loro ‘āqib, ossia governatore. Poco prima, un drappello di cavalieri arabi si è improvvisamente presentato alle porte di questa tranquilla città dell’Arabia meridionale suscitando non poco stupore tra i bottegai dell’adiacente mercato. In pochi minuti tutta la gerarchia di Najran si ritrova lì: oltre al āqib ‘Abdul-Masīh (Cristodulo) bin Sharahbīl, il sayyid, o Gran consigliere, al-Ayham bin al-Nu‘mān, il vescovo Abū al-Hārith bin ‘Alqama, i notabili Aws, Zayd, Nabīh, Yazīd, Khuwaylid. ‘Amru, Khālid, Yohannes e altri ancora. I presenti si guardano increduli poi ‘Abdul-Masīh protesta per primo: “Abbiamo concluso un patto con il vostro Profeta. Com’è possibile?”. A questo punto, il vescovo estrae dalla tonaca una pergamena e si mette a leggere: “Nel nome di Allah, il Clemente e Misericordioso. Con la presente Muhammad concede la protezione di Allah e del suo Messaggero al vescovo Abū al-Hārith, a tutti i vescovi, sacerdoti e monaci di Najran e a tutto quanto posseggono, poco o tanto che sia. Non sarà rimosso nessun vescovo dalla sua diocesi, né un monaco dal suo monastero, né un sacerdote dalla sua chiesa e non verrà mutato alcun loro diritto o dominio...”.
Non posso discutere l’ordine del califfo”, taglia corto Ya‘la. “D’altra parte, Omar non fa altro che eseguire l’ultima volontà del Profeta, che Allah lo benedica e lo conservi in gloria”. “Non capiamo” ribatte ancora il vescovo. “Il Profeta è morto dieci anni fa, poco dopo il patto che abbiamo stipulato con lui e che abbiamo onorato in tutti questi anni ospitando gli emissari musulmani e versando puntualmente ogni anno le duemila vesti pattuite, mille nel mese di rajab e mille in quello di safar”. “Lo so. E dovrete farlo ancora se intendete mantenervi nella vostra fede” risponde Ya‘la. “Sul letto di morte, il Profeta – che Allah lo benedica – ha però detto che non possono coesistere due religioni nella Penisola degli Arabi né due qibla nello stesso Paese. Omar ha perciò disposto di espellere gli ebrei dall’oasi di Khaybar e voi cristiani da Najran. Avete una settimana per partire e quanto non riuscirete a portare via vi sarà risarcito.” Poi Ya‘la si dirige verso l’uscita, si gira e aggiunge: “Beninteso, coloro che decidono di convertirsi all’islam possono benissimo rimanere qui”...

Nessuno si chiede perché mai questa volontà non fu allora eseguita dal primo califfo Abū Bakr il quale, secondo gli storici Tabari e Yāqūt ha invece riconfermato i termini del patto...

Ne sono scaturite versioni contraddittorie e poco fondate: obbedienza all’ultima volontà del Profeta, violazione dei termini del patto da parte di Najran con la pratica dell’usura, la pericolosa crescita demografica dei cristiani, l’eventuale minaccia militare della città, eccetera (André Ferré li confuta tutti nel suo articolo Muhammad a-t-il exclu de l’Arabie les juifs et les chrétiens? in Islamochristiana 16, Roma 1990, pp.43-65).
Eppure tutti avevano ricordato – arricchendolo questa volta di dettagli fantasiosi – l’incontro che la delegazione dei sessanta cittadini di Najran aveva avuto, dieci anni prima con Maometto. A Yathrib, che tutti ormai chiamano Medina, questi li aveva addirittura autorizzati a pregare nella propria moschea, rivolti verso oriente secondo l’usanza cristiana. L’incontro sfociò in un vero trattato: un tributo in natura in cambio della protezione dei musulmani e del libero esercizio del culto cristiano.
Veri o falsi che siano i pretesti avanzati, l’espulsione ebbe luogo sotto il califfato di Omar che i cronisti arabi dipingono come uomo magnanimo e tollerante. Nel 638, all’ingresso degli Arabi in Gerusalemme, il califfo aveva respinto con garbo l’invito del patriarca Sofronio a pregare nel Santo Sepolcro per evitare, disse, che i musulmani pretendessero un giorno di trasformare la basilica in moschea. Non ci sono testimonianze storiche per parlare di nuovi martiri di Najran, ma non è affatto escluso che qualche monaco si sia rifiutato di abbandonare la sua cella. E’ invece documentato che la vita di questi cristiani nella loro nuova dimora nell’Iraq meridionale (che chiameranno Najran di Kūfa) e in Siria non fu felice. Per circa un secolo e mezzo (fino all’avvento di Hārūn al-Rashīd nel 786), gli espulsi presenteranno l’istanza di tornare a casa a ogni nuovo califfo. Da ‘Uthman a ‘Alì (“L’hai scritto tu quel patto”, gli dissero) a Mu‘āwiya, il capostipite degli Omayyadi, “cui lamentarono la loro dispersione, la morte di alcuni di loro e l’islamizzazione di altri” (così in Ibn al-Athīr, Al-Kāmil fi al-Tārīkh, I parte, sotto La delegazione di Najran). Poi, di nuovo, a ‘Umar bin ‘Abdul-Azīz (717-720) cui “lamentarono la loro decimazione e regresso demografico, le insistenti razzie degli Arabi e l’ingiustizia di al-Haijāj. [Il califfo] diede ordine di censirli e li trovò ridotti a un decimo dei loro effettivi originari” (Idem).

E’ interessante rilevare come l’unico caso di martirio raccontato nelle sure coraniche sia un caso di martiri cristiani e non islamici.E’ un episodio cronologicamente precedente alla comparsa del profeta Maometto e riguarda proprio i cristiani di Najran. L’evento è noto nella tradizione islamica come il fatto “della gente del Fossato”. Così ancora C.Eid in A morte in nome di Allah. I martiri cristiani dalle origini dell’islam a oggi, Piemme, Casale Monferrato, 2004, pagg.13-14:

Sia maledetta la gente del Fossato dal fuoco incessantemente attizzato, quando se ne stavano seduti accanto, testimoni di quel che facevano ai credenti. E non li tormentavano che per aver creduto in Allah, il Potente, il Degno di lode, Colui al quale appartiene la sovranità dei cieli e della terra. Allah è Testimone di ogni cosa. In verità coloro che perseguitano i credenti e le credenti e poi non se ne pentono, avranno il castigo dell’Inferno e il castigo dell’Incendio” (Corano, sura di al-Burūj LXXXV,4-10). Questi versetti sono gli unici in cui il Corano allude a un caso di martirio. Martirio di musulmani? Nient’affatto. L’episodio si riferisce ai martiri cristiani di Najran, nell’Arabia meridionale, oggi in Arabia Saudita.

Riassumiamo in breve il racconto di Muhammad bin Ishāq, il primo storiografo musulmano. Un monaco piazzò la sua tenda sulla strada percorsa dai fanciulli politeisti di Najran per andare a “scuola di magia” presso un noto indovino. Attratto dalla devozione del monaco, uno di loro, ‘Abdullah bin al-Tāmir, abbandonò presto le lezioni e si mise a frequentare di nascosto il santo uomo. In breve non solo credette nell’unico Dio, ma ebbe anche il potere di guarire la gente in suo nome. Venuto a sapere del fenomeno, il re cercò con tutti i mezzi di ucciderlo, senza riuscirci. Alla fine fu lo stesso giovane a indicargli il modo: radunare tutta la gente di Najran e invocare il Dio unico al momento di sferrare il colpo. Così fu. Il ragazzo morì per il fendente assestato alla testa, ma tutti i presenti abbracciarono la sua fede che “si rifaceva a quanto disse Gesù figlio di Maria nel Vangelo”. Adirato, il sovrano li pose davanti all’alternativa: abiura o morte. Scelsero tutti di morire. Il re fece allora scavare un fossato, vi appiccò il fuoco e li gettò dentro.
Questa narrazione colorita, nota tra i musulmani sotto il nome di “la gente del Fossato”, ha un fondamento storico. Nel 523, il re himyarita Dhū Nuwās scatenò, dopo la sua conversione all’ebraismo, una persecuzione contro i cristiani dello Yemen e assediò la loro roccaforte di Najran. La notizia dei massacri perpetrati (oltre 4000 persone, tra cui il principe Areta) raggiunse Bisanzio e spinse il basileus Giustino I (518-527) a sollecitare l’intervento del negus cristiano d’Abissinia Elesbaan, il quale intervenne effettivamente nel 525 trasformando lo Yemen in provincia etiopica... I martiri di Najran sono ricordati nel calendario romano il 24 ottobre.

Ebrei e cristiani al di fuori dell’Arabia: la dhimma

Per quel che riguarda, invece, la presenza di ebrei e cristiani al di fuori della penisola arabica, quindi anche nell’islam andaluso, il documento più antico, cui i successivi fanno riferimento, è un testo successivo alla morte di Maometto e attribuito, generalmente ma non secondo le recenti analisi storiche, al periodo del secondo califfo, Omar. Si tratta della cosiddetta Carta di Omar. Presentiamo di essa una nostra traduzione[1], secondo la recensione la più completa di Abū Bakr Muhammad al-Turtūsī, noto anche con il nome di Ibn Abī Randaqa, vissuto dal 421/1059 al 520/1126, nel capitolo 51 della sua opera Sirāg al-mulūk, una sorta di trattatello ad uso dei prìncipi, dei governanti sulla conduzione dello stato. Il suo nome indica un’origine andalusa (al-Turtūsī, cioé “quello di Tortosa”), ma la sua vita adulta si è svolta massimamente in Egitto.

Abd al-Rahmâm b.Ganm[2] ha riportato ciò che segue.
Quando ‘Umar b. al-Hattâb ebbe accordato la pace ai cristiani di Siria, noi gli scrivemmo in questi termini:
Nel nome di Allah, Beneficente Misericordioso!
Questa è una lettera indirizzata dai cristiani di tale città al servitore di Allah, ‘Umar b. al-Hattâb, comandante dei Credenti. Quando lei è venuto da noi, abbiamo chiesto la salvaguardia per noi, i nostri figli, i nostri beni e i nostri correligionari, e ci siamo impegnati nei vostri confronti ad osservare le seguenti condizioni:
Non costruire più, nelle nostre città e dintorni, conventi, chiese, celle, eremi di monaci.
Non riparare, né di giorno né di notte, quegli tra questi edifici che cadranno in rovina o che saranno situati nei quartieri musulmani.
Tenere le nostre porte d’ingresso aperte ai passanti e ai viaggiatori. Accordare ospitalità a tutti i musulmani che passeranno e alloggiarli per tre giorni.
Non dare asilo, né nelle nostre chiese, né nelle nostre dimore, ad alcuna spia.
Non nascondere ai musulmani nulla che potrebbe loro nuocere.
Non insegnare il Corano ai nostri bambini.
Non manifestare pubblicamente il nostro culto e non predicarlo a nessuno. Non impedire ad alcuno dei nostri parenti di abbracciare l’Islam, se questa è la sua volontà.
Rispettare i musulmani, alzarci dalle sedie quando loro vorranno sedersi.
Non cercare di assomigliare loro nell’abbigliamento, che si tratti della qalansuwa (N.d.T. sorta di berretto che si copriva con il turbante), del turbante o dei sandali, o nel modo di pettinarci.
Non usare la loro parlata e non prendere i loro nomi (kunya).
Non utilizzare la cavalcatura con la sella e non cingere la spada. Non detenere e non portare con noi alcun tipo di arma.
Non fare incidere i nostri sigilli con caratteri arabi.
Non vendere bevande fermentate.
Rasarci la parte anteriore del capo. Vestirci sempre nello stesso modo, in qualunque luogo ci troviamo, stringendoci lo zunnâr in vita (N.d.T. cintura in seta e cotone indossata dai cristiani).
Non mostrare le nostre croci ed i nostri libri (sacri) sulle strade frequentate dai musulmani, né nei loro mercati.
Suonare il simandron solo piano nelle nostre chiese. Non alzare la voce nelle chiese per la lettura, in presenza di musulmani. Non fare le processioni pubbliche per le Palme e per Pasqua, non alzare la voce accompagnando i nostri morti. Non fare luminarie nelle strade frequentate dai musulmani, né nei loro mercati.
Non seppellire i nostri morti nelle vicinanze dei musulmani.
Non prendere gli schiavi che sono toccati in sorte ai musulmani.
Non costruire case più alte di quelle dei musulmani.
Quando io portai questo documento a ‘Umar, egli vi aggiunse:
Noi non colpiremo alcun musulmano”.
Queste sono le condizioni che noi abbiamo sottoscritto, noi e i nostri correligionari, e in cambio delle quali noi riceviamo la salvaguardia. Se dovessimo contravvenire ad uno di questi impegni presi, dei quali rispondiamo con la nostra persona, non avremo più diritto alla dhimma e saremo passibili di essere condannati alle pene riservate ai ribelli e ai sediziosi.
Umar b. al-Hattâb rispose (a ‘Abd al-Rahmâm b.Ganm):
Accetta la loro richiesta, ma aggiungi a ciò che hanno sottoscritto le due seguenti condizioni che impongo loro:
Non comprare nulla che faccia parte dei bottini di guerra dei musulmani.
Colui che avrà colpito deliberatamente un musulmano sarà privato della protezione garantita da questo patto”.

Così EI, II, 234, all’articolo Dhimma, ne da la definizione:

Dhimma è l’espressione araba che designa appunto una “sorta di contratto, indefinitamente rinnovato, per il quale la comunità musulmana accorda l’ospitalità-protezione ai membri delle altre religioni rivelate, a condizione che essi stessi rispettino la dominazione dell’Islam. Si chiamano dhimmīs i beneficiari della dhimma e ahl al-dhimma o semplicemente dhimma tutta la loro collettività[3].

B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.30, invita ad una cautela sull’origine storica del testo attribuito ad Omar:

La storia arcaica della dhimma, o più in generale la storia delle restrizioni imposte ai sudditi non musulmani tollerati dallo stato musulmano, è ben poco nota. La tradizione storiografica musulmana ascrive la prima formulazione di questi regolamenti al califfo ‘Umar I (634-644) e conserva quello che pare essere il testo di una lettera a lui indirizzata dai cristiani di Siria, indicante le condizioni in base alle quali essi erano disposti a sottomettersi – le limitazioni che erano pronti ad accettare e le punizioni delle quali si sarebbero resi passibili se avessero violato questi accordi. In base al racconto, quando la lettera fu mostrata al califfo, egli accettò le condizioni con due clausole aggiuntive. Benché il cosiddetto “patto di ‘Umar” sia stato spesso citato sia da autori musulmani che da autori dhimmī come la base legale delle relazioni fra le due parti, pare difficile che il documento sia autentico. Come A.S.Tritton ha fatto osservare, non è normale che i vinti propongano ai vincitori le condizioni della resa, e neppure è verosimile che i cristiani siriani del settimo secolo, che non conoscevano l’arabo e non praticavano lo studio del Corano, fossero in grado di riprodurne tanto fedelmente la lingua e le disposizioni. Alcune delle clausole riflettono chiaramente gli sviluppi di un periodo successivo, e non è improbabile che in questo, come in molti altri aspetti della più antica storia amministrativa musulmana, determinate misure che furono introdotte o messe in atto dal califfo omayyade ‘Umar II (717-720) siano stati ascritti da una pia tradizione al meno controverso e più venerabile ‘Umar I.

Di certo, comunque, il testo attribuito ad Omar diviene il riferimento costante della legislazione islamica sulle minoranze religiose nell’islam. Potremmo dire che esso, almeno fino al XIX secolo compreso, è il testo cui viene attribuito nei paesi islamici il ruolo di fornire la corretta interpretazione del testo fondatore della sura coranica IX, 29:

Nell’elaborazione successiva, la “Carta di Omar” gioca un po’ il ruolo di testo fondatore... Ogni volta che l’autorità interviene per far rispettare i doveri della dhimma, è a questa Carta che si farà riferimento, sia all’epoca degli Abbassidi, sia a quella dei Fatimidi o a quella dei mamelucchi. Ancora ai nostri giorni, alcuni assertpri di un Islam autentico non mancano di reclamarne l’applicazione (cfr. Yūsuf al-Qaradhāwī...).
Parallelamente alla Carta, l’altro testo fondatore concernete i rapporti con “gli uomini delle Scritture” è il versetto 29 della sura 9, che dona ai dhimmīs la scelta tra la guerra ed una condizione discretamente umiliante. Certo, se si tratta dei cristiani, il Corano contiene numerosi altri versetti più amabili a loro riguardo (2,62; 5,69 e 82, per esempio), ma essi sono generalmente considerati come abrogati da 9,29[4].

Incontriamo qui il problema decisivo dell’interpretazione del testo sacro, in particolare quando esso contiene sfumature diverse a riguardo degli stessi temi e problemi. La citazione di singoli versetti deve essere contestualizzata nei criteri di lettura della tradizione successiva che offre i parametri per la corretta interpretazione. Un approfondimento dei criteri di lettura può, eventualmente, condurre ad una differente interpretazione del senso profondo del testo coranico, pur salvando il testo stesso.
L’importante studio di B.Lewis, già citato, permette, attraverso l’analisi della storia della presenza ebraica sotto l’islam, di farci comprendere qualcosa della situazione della dhimma.

Due stereotipi dominano gran parte di ciò che è stato scritto a proposito della tolleranza e dell’intolleranza nel mondo islamico. Il primo è costituito dall’immagine di un guerriero fanatico, un cavaliere arabo che cavalca nel deserto tenendo la spada in una mano e il Corano nell’altra, e offre alle sue vittime la scelta fra le due cose. Questa immagine, resa famosa da Edward Gibbon nella sua opera Decline and Fall of the Roman Empire, non solo è falsa, ma addirittura non è realistica, a meno che non si voglia ammettere l’esistenza di una razza di guerrieri mancini. Secondo la norma musulmana, la mano sinistra è riservata agli scopi impuri, e nessun musulmano che si rispetti, allora o adesso, la userebbe mai per prendere il Corano. La seconda immagine, quasi altrettanto assurda, è quella di una utopia interreligiosa e interrazziale, in cui uomini e donne appartenenti a razze diverse, e professanti credi diversi, vivevano a fianco a fianco in una età dell’oro di perfetta armonia, godendo uguaglianza di diritti e di opportunità, e collaborando insieme per il progresso della civiltà... Per i cristiani come per i musulmani, la tolleranza è una virtù nuova, così come l’intolleranza è un crimine nuovo. Per la maggior parte della storia delle due comunità, la tolleranza non fu presa in considerazione, né l’intolleranza fu oggetto di condanna. Fino a tempi relativamente moderni, l’Europa cristiana non ha premiato né praticato la tolleranza, e non si è sentita offesa dalla mancanza di essa negli altri. L’accusa che veniva sempre imputata contro l’islam non era che le sue dottrine fossero imposte con la forza, cosa che era considerata normale e naturale, quanto che tali dottrine fossero false. Analogamente da parte musulmana, la pretesa di tolleranza, che oggi viene avanzata dagli apologeti musulmani, e più in particolare dagli apologeti dell’islam, è altrettanto recente e di origine estranea... Le società islamiche tradizionali non hanno mai concesso una simile parità, né hanno mai preteso di farlo. Senza dubbio, in base all’ordine sociale di quel tempo, questo sarebbe stato considerato non tanto un merito quanto un mancare al proprio dovere. Come sarebbe stato possibile dare lo stesso trattamento a coloro che seguono la vera fede e a coloro che ostinatamente la rigettano? Si sarebbe trattato di un controsenso teologico, oltre che logico[5].

Anche il problema dell’egalitarismo necessita di alcune sfumature. Da un lato gli studi – vedi ad esempio, la presentazione delle tesi della Marín sull’élite aristocratica della Granada nasride, negli appunti che presentiamo on-line – sottolineano la differenza fra le corti dei governanti ed il popolo dell’Islam andaluso, parallelamente ad ogni istituzione statale nella quale i governanti conducono un tenore di vita con privilegi ben differenti da quelli dei governati, dall’altro una disuguaglianza più strutturale attraversa le società islamiche del passato:

L’islam appare senza dubbio come una religione egalitaria in una società egalitaria. Per principio e per legge, esso non riconosce né caste né aristocrazia...
Tuttavia questa parità di status e di opportunità era limitata per alcuni importanti aspetti. Il rango di membro della società a tutti gli effetti era limitato ai soli musulmani maschi liberi. Coloro che erano privi di una di queste tre qualifiche essenziali, e cioè lo schiavo, la donna e l’infedele, non erano sullo stesso piano di parità. Le tre differenze fondamentali fra padrone e schiavo, uomo e donna, fedele e infedele, non erano semplicemente riconosciute; esse erano codificate e regolate dalla Santa Legge. I tre gruppi di inferiori erano considerati necessari, o per lo meno utili, e tutti avevano il loro posto e la loro funzione, anche se, riguardo agli appartenenti alla terza categoria, talvolta furono espressi dei dubbi. Benché vi fosse un generale accordo sulla necessità dell’esistenza degli schiavi e delle donne, fu a volte messa in questione la necessità dell’esistenza degli infedeli. L’opinione comune era tuttavia che essi servivano per una varietà di scopi utili, in gran parte economici. Una delle principali differenze fra le tre categorie è l’elemento della scelta. Una donna non può scegliere di diventare uomo. Uno schiavo può essere liberato, ma solo per scelta del padrone, non per sua scelta. Sia la donna che lo schiavo sono quindi in una condizione di involontaria, e per la donna anche immutabile, inferiorità. L’inferiorità dell’infedele, tuttavia è totalmente opzionale, e costui può in ogni momento porvi fine con un semplice atto di volontà. Adottando l’islam, egli diventa membro della comunità dominante, e il suo status di inferiorità legale ha fine...
Delle tre vittime dell’inferiorità sociale, era perciò l’infedele l’unico che rimaneva inferiore per propria scelta. Egli era anche quello le cui limitazioni erano, nel complesso, le meno onerose. Ferme restando le altre cose, era meno svantaggiata in una società musulmana la condizione di un uomo libero infedele che quella di una donna o di uno schiavo. Forse per questa stessa ragione era ritenuto più necessario nei confronti dell’infedele, che nei confronti della donna o dello schiavo, far valere o almeno visibilmente sottolineare lo status di inferiorità; di questo parleremo più a lungo in seguito[6].

La dhimma non era, comunque, una condizione personale, una specie di diritto/dovere individuale:

La dhimma era un accordo – sia esso visto come patto o concessione – conferito alla comunità, non all’individuo; il dhimmī aveva uno status e un ruolo solo in quanto membro di una comunità riconosciuta come tale[7].

La condizione degli ebrei e delle loro comunità

Proprio a motivo della legislazione detta della Dhimma, la situazione degli ebrei sotto governo islamico e, quindi, nell’islam andaluso, non prevedeva la morte:

La persecuzione, e cioè la repressione attiva e violenta, fu rara e atipica. Ebrei e cristiani sotto il dominio musulmano non furono di regola chiamati a subire il martirio a causa della loro fede[8].

Tale situazione si differenziava dalla condizione dei pagani:

Per i pagani la scelta era chiara: islam o morte. Per ebrei e cristiani, detentori di quelle che erano riconosciute come religioni rivelate, basate su autentiche anche se superate rivelazioni, la scelta includeva anche una terza possibilità: islam, morte o sottomissione. Sottomissione significava il pagamento di un tributo e l’accettazione della supremazia musulmana. La morte poteva essere commutata in schiavitù. In una fase iniziale della sua carriera come governatore di Medina, il Profeta entrò in conflitto con le tre tribù ebraiche là residenti. Tutte e tre furono sopraffatte e, secondo la tradizione musulmana, a due fu concessa la scelta fra conversione o esilio, e alla terza, i Banū Qurayza, fra la conversione e la morte. L’amarezza causata dall’opposizione delle tribù ebraiche a Maometto si riflette nei riferimenti agli ebrei, per lo più negativi, contenuti nel Corano, nella biografia e nelle tradizioni relative al Profeta. Una situazione diversa si verificò con la conquista nell’anno 7 dell’Hijra (corrispondente al 629 d.C.) dell’oasi di Khaybar, a circa novantacinque miglia da Medina. Questa oasi, abitata da ebrei, alcuni dei quali si erano insediati là dopo essere stati cacciati da Medina, fu il primo territorio conquistato dallo stato musulmano e posto sotto il suo governo. Gli ebrei di Khaybar si arresero al Profeta dopo un mese e mezzo circa di ostilità, e fu stipulato un accordo in base al quale era loro concesso di restare nell’oasi e di coltivare la loro terra; tuttavia avrebbero dovuto consegnare la metà del prodotto ai musulmani. Questo accordo divenne un locus classicus per le successive dispute legali intorno allo status dei sudditi non musulmani assoggettati allo stato musulmano. Il suo valore come precedente non fu inficiato dalla successiva espulsione degli ebrei di Khaybar al tempo del califfo ‘Umar I (634-644)[9].

Così commenta ulteriormente B.Lewis, ponendo la questione di una valutazione odierna di quei primi episodi:

L’analisi del destino dei Banū Qurayza, da parte degli studiosi moderni, sia musulmani che occidentali, può servire come pietra di paragone delle attitudini e delle preferenze. Un’osservazione importante è stata fatta dal Professor Rudi Paret, nella sua opera Mohammed und der Koran (Stoccarda, 1957, p.112): “Per quanto concerne il massacro dei Banū Qurayza, bisogna tenere a mente che gli usi della guerra erano a quel tempo più brutali di quelli a cui siamo abituati nell’era della Convenzione di Ginevra. Ma Muhammad deve essere misurato in base agli standard del suo tempo”[10].

La situazione dei non musulmani – e degli ebrei in particolare – si configurava così all’interno di una forbice che, da un lato, ne garantiva la legittimità e, dall’altro, ne segnava la differenza:

Così per esempio il verso la ikrāha fi’ldīn (II, 256), “non vi sia costrizione nella fede”, è stato generalmente inteso nel senso che le altre religioni devono essere tollerate, e che i loro seguaci non devono essere costretti ad adottare l’islam. Di recente uno studioso europeo ha espresso il parere che questa frase non sia un invito alla tolleranza, ma piuttosto un’espressione di rassegnazione, un’accettazione, alquanto riluttante, dell’ostinazione degli altri. Si può condividere o meno questa interpretazione del significato originale delle parole del Corano, ma anche se accettiamo questa versione, ciò non incide sul modo in cui il verso veniva normalmente e regolarmente interpretato nella tradizione legale e teologica islamica. Lo stesso può essere detto a proposito del ben noto verso lakum dīnukum walī dīnī (CIX, 6), “voi avete la vostra religione, io la mia”. Anche qui vi può essere qualche incertezza su ciò che queste parole significavano esattamente nel loro contesto originale, ma una comune interpretazione successiva era di usare questo verso come la prova testuale del pluralismo e della coesistenza. Un altro verso coranico (II, 62) sembra offrire un sostegno ancora più sorprendente: “Ma quelli che credono, siano essi ebrei, cristiani o sabei, quelli che credono cioè in Dio e nell’Ultimo Giorno e operano il bene, avranno la loro mercede presso il Signore, e nulla avran da temere né li coglierà tristezza”. A prima vista, questo verso sembra porre su un piano di parità le quattro religioni monoteistiche basate sulla Scrittura. Mentre una simile interpretazione viene esclusa da altri brani del Corano, questo verso nondimeno serviva a giustificare l’atteggiamento tollerante accordato ai seguaci delle tre religioni sotto il dominio musulmano. Un esempio spesso citato di un tipo di brano diverso e più negativo, compare in V, 51: “O voi che credete, non prendete i giudei e i cristiani come alleati [amici o alleati – la parola è awliyā’]; alleati essi sono gli uni con gli altri, e chi di voi si alleerà loro diverrà dei loro”. Questo e altri versi simili rispecchiano il periodo in cui il Profeta fu in conflitto con ambedue le religioni. Un ben noto verso dell’ultimo periodo tratta della necessità della guerra santa contro gli infedeli e dell’imposizione su di essi di un testatico (Corano IX, 29): “Combattete coloro che non credono in Dio e nell’Ultimo Giorno, e che non ritengono illecito quel che Dio e il Suo Messaggero hanno dichiarato illecito, e coloro, fra quelli cui fu data la Scrittura, che non s’attengono alla Religione della Verità. Combatteteli finché non paghino di loro mano la jizya [il testatico], essendone umiliati (‘an yadin wahum sāghirūn)”[11].

La tassazione segnava così una prima, grande differenza, attraverso una diversa condizione economica, detta appunto Jizya:

Jizya: imposta sulle persone prelevata sugli abitanti non-musulmani dei paesi musulmani. I giuristi l’hanno definita come una sorta di compensazione per la non–adozione dell’islam da parte di queste persone ed, in particolare, per la non partecipazione militare[12].

Tale aggravamento degli oneri fiscali, conservava, però, soprattutto un valore simbolico che poteva essere più o meno rimarcato:

A questo proposito non vi è alcun dubbio. Secondo l’interpretazione normale la jizya non era solo una tassa, ma anche una simbolica espressione di subordinazione. Il Corano e la tradizione usano spesso l’espressione dhull o dhilla (umiliazione o avvilimento) per indicare lo status che Dio ha assegnato a coloro che rifiutano Maometto, e in cui devono essere tenuti finché persistono in questo rifiuto. Così, in un brano sui figli di Israele leggiamo: “E li colpì l’abiezione e la miseria e incorsero nell’ira di Dio, e questo perché essi rifiutavano i Segni di Dio e uccidevano i Profeti ingiustamente, questo perché si ribellarono a Dio e passarono i limiti” (II, 61)...

Così per Mahmūd Ibn ‘Umar al-Zamakhsharī (1075-1144) autore di un commento classico al Corano, il significato di queste parole è che “la jizya dovrà essere presa da costoro con avvilimento ed umiliazione. Costui [il dhimmī, cioè il non musulmano suddito dello stato musulmano] dovrà venire di persona, a piedi e non a cavallo. Nell’atto di pagare, dovrà stare in piedi, mentre l’esattore starà seduto. L’esattore lo afferrerà per la collottola, lo scuoterà e dirà: ‘Paga la jizya’ e mentre paga, sarà picchiato sulla nuca. Altri autori aggiungono particolari simili, come ad esempio che il dhimmī deve comparire con la schiena curva e la testa china, che l’esattore lo deve trattare con disprezzo e perfino con violenza, tirandogli la barba, picchiandolo sulle gote e così via. Un elemento simbolico prescritto in molti testi legali è che la mano del dhimmī deve stare al di sotto, e la mano dell’esattore al di sopra, quando il denaro passa da una all’altra mano. Lo scopo di tutto questo viene spiegato da un giurista del quindicesimo secolo, della rigorosa scuola Hanbalī che, dopo aver prescritto questo ed altri gesti simili di umiliazione rituale da compiersi in pubblico “affinché tutti possano godersi lo spettacolo”, conclude: “Forse, alla fine, arriveranno a credere in Dio e nel Suo Profeta, e saranno così liberati da questo giogo vergognoso”. In contrasto con i commentatori e altri teologi, i giuristi sono meno feroci e si preoccupano più dell’aspetto fisico che di quello simbolico della jizya. Abū ‘Ubayd (770-838), autore di un trattato classico sulla tassazione, insite sul fatto che i dhimmī non devono essere oberati di tasse al di là delle loro possibilità, né devono essere fatti soffrire. Il grande giurista Abū Yūsuf (731?-808), il capo qādī del califfo Hārūn al-Rashīd, decreta esplicitamente contro simili trattamenti: “Nessuno del popolo della dhimma deve essere battuto allo scopo di esigere il pagamento della jizya, né essere obbligato a stare in piedi nel sole cocente, né alcunché di tal sorta. Piuttosto, devono essere trattati con indulgenza”. Abū Yūsuf non era tuttavia favorevole ad assecondare i contribuenti: “Essi devono essere imprigionati finché non pagano il dovuto. Non devono essere messi fuori di custodia finché la jizya non è stata riscossa da loro per intero. Nessun governatore può rilasciare un cristiano, un ebreo, uno zoroastriano, un sabeo o un samaritano a meno che la jizya non sia stata riscossa da lui. Non può ridurre il pagamento di nessuno, consentendo che una quota resti non pagata. Non si può permettere che una persona venga esentata e un’altra debba pagare. Questo non può essere fatto, perché le loro vite e i loro possessi hanno garantita la sicurezza solo dietro pagamento della jizya, che è paragonabile al pagamento di un tributo. Nel prendere in considerazione questo ed altri brani analoghi bisogna tener conto di numerosi fattori. In primo luogo i giuristi, con il loro atteggiamento più umano, oltre ché più pratico, appartengono al periodo arcaico dell’islam, quando esso era fiducioso e in espansione; i commentatori citati invece scrivevano in un periodo di contrazione e di repressione... In generale queste prescrizioni illustrano ancora una volta la necessità molto sentita, di rammentare all’infedele la sua condizione di inferiorità, che altrimenti egli sarebbe stato tentato, o gli sarebbe stato consentito, di dimenticare. Per la donna e per lo schiavo invece questa necessità non c’era[13].

Solo il cristianesimo e l’ebraismo erano tollerati, all’interno dei paesi musulmani. I giuristi disputavano sull’identità dei “Sabei” citati dal Coprano:

La successiva espansione dell’islam portò l’autorità dello stato musulmano al di là delle regioni centrali del Medio Oriente e del Nord Africa, che erano anche la patria del cristianesimo e dell’ebraismo, fino a nuove aree dove queste religioni avevano scarsa o nessuna importanza. Buddisti e indù in Asia, animasti in Africa a sud del Sahara e dell’Etiopia, entrarono nell’orbita del potere musulmano. Per i musulmani, questi erano politeisti e idolatri, e non avevano quindi alcun diritto alla tolleranza. Per loro la scelta era fra l’islam o la morte, che in seguito poteva essere commutata in schiavitù a discrezione dei conquistatori... Questo atteggiamento non era di parità, ma prevedeva piuttosto la predominanza di un gruppo e, in genere tutti gli altri gruppi erano disposti secondo una scala gerarchica. Benché questo ordine non concedesse la parità, esso garantiva la coesistenza pacifica... Il Corano riconosce l’ebraismo, il cristianesimo e una terza setta, piuttosto problematica, la religione dei sabei, come forme antiquate, incomplete e imperfette dell’islam stesso, e quindi contenenti una rivelazione divina genuina, anche se distorta. L’inclusione dei non meglio identificati sabei rese possibile, grazie all’interpretazione legale, di estendere il tipo di tolleranza accordato a ebrei e cristiani fino agli zoroastriani in Persia, e più tardi agli hindù dell’India e ad altri gruppi in altre regioni[14].

La penisola iberica era considerata, inizialmente, prima della conquista, come territorio non islamico, nel quale non vigevano le leggi dell’islam. Il suo statuto mutò, ovviamente, dopo il 711.
Anche per un non-musulmano che veniva in visita in terre islamiche, ad esempio l’Andalusia di allora, non vigevano le stesse regole che dovevano essere rispettate dalle minoranze religiose stabilmente residenti:

La seconda categoria di infedeli, secondo la classificazione politica, comprende coloro che non sono stati ancora conquistati e non sono soggetti al potere musulmano. Le terre in cui vigono il governo musulmano e la legge islamica sono note con il nome collettivo di Dār al-Islām, la Casa dell’Islam; il mondo circostante, abitato e governato dagli infedeli, costituisce la Dār al-Harb, la Casa della Guerra. Questo nome è giustificato dal fatto che fra il regno dell’islam e quello degli infedeli vi è un perpetuo stato di guerra, canonicamente obbligatorio, che durerà finché il mondo intero non avrà accettato il messaggio dell’islam o si sarà sottomesso al governo di coloro che lo esercitano. Il nome di questa guerra è jihād, normalmente tradotto con “guerra santa”, nonostante che il significato originale della parola sia sforzo o lotta, e quindi lotta per la causa di Dio. Vi sono alcuni parallelismi tra il concetto musulmano del jihād, e il concetto ebraico rabbinico della milhemet mitsva o milhemet hova, con la notevole differenza che la nozione ebraica è limitata a un solo paese, mentre il jihād islamico riguarda il mondo intero. Un non musulmano appartenente alla Dār al-Harb può essere autorizzato a visitare le terre musulmane e anche a risiedervi per un determinato periodo di tempo, per il quale riceve quello che nella legge musulmana è noto come un amān, una specie di concessione di salvacondotto. Il detentore di un amān è chiamato musta’min. Questo termine denota lo status legale del non musulmano straniero che viene in qualità di mercante o inviato e si trattiene per un certo tempo sotto l’egida musulmana. Costui non è un dhimmī e non è quindi soggetto al testatico né ad altre limitazioni[15].

Se, all’inizio sembrava non porsi il problema di una presenza islamica minoritaria, sotto un governo di un’altra religione, l’arresto dell’avanzata islamica divenne presto causa del sollevarsi della questione:

Sembrava non dovesse esserci alcun dubbio che l’avanzata dell’islam sarebbe continuata finché, in un futuro non troppo lontano, la guerra santa avrebbe raggiunto il suo scopo e il mondo intero sarebbe stato incorporato nella Casa dell’islam. La possibilità di una ritirata, della perdita di un territorio e di una popolazione a vantaggio di governi infedeli, semplicemente non sfiorava la mente degli uomini dell’epoca eroica. Verso la metà dell’ottavo secolo divenne chiaro che l’avanzata dell’islam era giunta a un arresto e cominciò ad essere accettata la nozione di una frontiera, e di rapporti con autorità più o meno stabili dall’altra parte di essa. Benché di tanto in tanto vi fosse un risorgere del jihād, e una nuova ondata di conquiste, la vittoria finale del jihād, fu posposta dall’epoca storica a un’epoca escatologica. Il peggio doveva ancora venire. Quella che era cominciata come una pausa si trasformò in una stasi e con il tempo la stasi cedette ad una ritirata... Vi erano opinioni diverse circa gli obblighi di quei musulmani che si trovavano sotto un governo non musulmano. Alcune autorità espressero un parere indulgente. Se un governo non musulmano era tollerante, e cioè, se permetteva ai musulmani di praticare la loro religione, ubbidire alle loro leggi e vivere quindi una degna vita da musulmani, essi potevano risiedere dove si trovavano ed essere sudditi fedeli alla legge di un tale governo. Alcune opinioni andavano perfino oltre e permettevano ai musulmani di restare anche sotto un governo intollerante, se necessario fingendo di adottare il cristianesimo ma mantenendo segretamente l’islam. L’opinione opposta e più rigida è formulata in un testo classico, una fatwā, o responso, scritto da un giurista marocchino dal nome Ahmad al-Wansharīsī e emesso poco tempo dopo la definitiva conquista della Spagna da parte dei cristiani. La fatwā pone la seguente questione: Possono i musulmani sottostare a un governo cristiano o devono andarsene? La sua risposta dice senza ombra di dubbio che se ne devono andare, uomini, donne e bambini. Se il governo cristiano da cui stanno fuggendo è tollerante, la loro partenza è ancora più urgente, dato che il pericolo di apostasia sotto un governo cristiano tollerante è maggiore. Al-Wansharīsī drammatizza la sua decisione nella frase: “Meglio una tirannide musulmana che la giustizia cristiana”[16].

Ma quali erano, in concreto, le norme che dovevano essere osservate dai non–musulmani sotto governo islamico e, quindi, anche in Andalusia? Innanzitutto alcune riguardavano l’abbigliamento esteriore, come segno di riconoscimento:

Tali restrizioni comprendevano alcune limitazioni negli abiti che i dhimmī potevano indossare, gli animali che potevano cavalcare, oltre alla proibizione di portare armi. Vi erano limiti riguardanti la costruzione e l’uso dei luoghi di culto. Questi non dovevano essere più elevati delle moschee; non era ammesso costruirne di nuovi, ma solo restaurare quelli già esistenti. Cristiani ed ebrei dovevano portare sugli abiti dei distintivi speciali. Questa, per inciso, è l’origine del distintivo giallo che fu introdotto per la prima volta da un califfo di Bagdad nel nono secolo e si diffuse in Occidente in epoca tardo-medievale. Perfino quando frequentavano i bagni pubblici, i non musulmani erano tenuti a indossare segni di distinzione appesi con una cordicella intorno al collo, in modo da non essere confusi con i musulmani quando si spogliavano nella casa da bagno. (Sotto il dominio sciita non erano autorizzati neppure ad usare gli stessi bagni). La necessità di distinguersi si manifestò soprattutto nel caso degli ebrei, che condividevano con i musulmani il rito della circoncisione. I non musulmani erano tenuti ad evitare rumore e sfarzo nelle loro cerimonie, e a mostrare in ogni momento rispetto per l’islam e deferenza ai musulmani. La maggior parte di queste limitazioni avevano un carattere sociale e simbolico piuttosto che un aspetto pratico e tangibile[17]...

Fino dai primordi dell’islam, le autorità musulmane sono di fatto unanimi nelle istruzioni per i fedeli: “Kālifūhum” differenziatevi da loro – cioè, gli infedeli – nell’abito, come nelle maniere e negli usi. E dal momento che i musulmani non potevano vestirsi come gli infedeli, ne consegue che gli infedeli a loro volta non dovevano adottare o imitare l’abbigliamento dei musulmani. Questo principio non veniva sempre applicato in modo rigoroso, ma la sua inosservanza era motivo di comuni lamentele da parte dell’ulema. Perfino Ebussuud Efendi, capo mufti dell’impero ottomano al tempo del sultano Solimano il Magnifico, normalmente pacifico e tollerante, fu spinto a una rara manifestazione di ira dalla violazione di questa regola ai suoi giorni, come dimostra un responso, che cita pareri autorevoli:

DOMANDA: Se un governante proibisce ai dhimmī che abitano in mezzo ai musulmani di costruire case elevate e sfarzose, di andare a cavallo nelle città, di abbigliarsi con abiti sontuosi e costosi, di indossare caffettani con colletti e fini mussole e pellicce e turbanti, e insomma di sminuire deliberatamente i musulmani e innalzare se stessi, un tale governante sarà premiato e ricompensato da Dio?

RISPOSTA: Sì. I dhimmī devono essere distinti dai musulmani nel loro abbigliamento, nella cavalcatura, nella sella e nel copricapo[18].

Tuttavia, il requisito che indossassero una toppa di colore diverso sugli abiti esterni è chiaramente concepito per umiliare quanto per differenziare. Lo stesso vale per la regola marocchina che imponeva agli ebrei di andare a piedi scalzi o di indossare pantofole di paglia quando camminavano fuori del ghetto[19].

La differenza di abito è denotata dal termine tradizionale di Ghihar:

Ghiyar: questo termine designa un marchio distintivo che i dhimmīs dovevano portare sui loro vestiti; questo marchio ha variato secondo i luoghi e le epoche (per esempio dei pezzi di stoffa cuciti). Qualche volta ghiyar designa lo stesso abito. Nel Maghreb si è utilizzato di preferenza il termine šakla. La prima codificazione del ghiyar sembra rimontare almeno al califfato di ‘Umar b. ‘Abd al-‘Aziz (99/717-101/720)[20].

Come già abbiamo accennato, una differenza si registrava in ambito economico, attraverso un diverso sistema di tassazione e diversi meccanismi ereditari:

La sola pena realmente economica imposta ai dhimmī era fiscale. Erano infatti tenuti a pagare tasse più alte, un sistema di discriminazione ereditato dai precedenti imperi dell’Iran e di Bisanzio. Vi sono opinioni discordanti fra gli studiosi riguardo alla questione di quanto il pagamento di queste tasse supplementari gravasse su di loro. Là dove abbiamo delle prove documentarie, come nel caso dei documenti della Geniza del Cairo, risalenti all’undicesimo secolo, parrebbe che almeno per le classi meno agiate il peso fosse oneroso...

In aggiunta alla tassa pro-capite, i dhimmī erano tenuti per principio, anche se non sempre nella pratica, a pagare una quota più alta rispetto ai musulmani nel caso di altre tasse, compresi, in certi periodi, anche i pedaggi e i dazi doganali.
A parte la tassazione, vi era un altro tipo di limitazione economica che spesso gravava molto pesantemente sui sudditi non musulmani; quello che derivava dalla legge sulle eredità. La regola generale della legge musulmana stabiliva che la differenza di religione costituiva un ostacolo all’eredità. Un musulmano non poteva ereditare da un dhimmī e questo, a sua volta, non poteva ereditare da un musulmano. Ne conseguiva che un convertito all’islam non poteva ereditare dai suoi parenti non convertiti, e alla sua morte solo gli eredi musulmani potevano ereditare da lui. Se, prima della morte, tornava alla sua religione precedente, era considerato un apostata e il suo patrimonio veniva confiscato[21].

Una differenza significativa era da registrarsi in ambito matrimoniale, nell’ambito del possesso degli schiavi e della testimonianza giuridica:

Un musulmano poteva sposare una donna dhimmī libera, mentre un dhimmī non poteva sposare una donna musulmana. Un musulmano poteva possedere uno schiavo dhimmī, mentre un dhimmī non poteva possedere uno schiavo musulmano...
Una clausola simile era contemplata dalle leggi dell’impero bizantino; in base ad essa un cristiano poteva sposare una donna ebrea, ma un ebreo non poteva sposare una donna cristiana sotto pena di morte. Analogamente, gli ebrei di Bisanzio non potevano per nessun motivo possedere schiavi cristiani. La legge dello stato musulmano assimilò la posizione dei sudditi cristiani ed ebrei a quella precedentemente destinata ai sudditi ebrei di Bisanzio, ma con alcune attenuazioni per entrambi i gruppi. La testimonianza di un dhimmī non era ammissibile davanti a una corte musulmana, e la maggior parte delle scuole – esclusi gli Hanafī – attribuivano minor valore ai dhimmī che ai musulmani nel caso di un compenso o di una pena capitale da far pagare per una ferita[22].

La differenza di condizione generava una disparità in relazione alle possibilità di evolvere in carriere significative:

Ben pochi dhimmī, sia in epoca antica che in epoca tarda, riuscirono a raggiungere posizioni di grande influenza e potere sotto i sovrani musulmani[23]...

L’atteggiamento dei dottori della legge nei riguardi dell’impiego dei dhimmī è inequivocabile, come dimostra, ad esempio, questo responso di un giurista del tredicesimo secolo:

DOMANDA: Un ebreo è stato nominato ispettore delle monete nel tesoro dei musulmani, affinché pesi i dirham che entrano ed escono e li verifichi, e si dà affidamento alla sua parola in proposito. La sua nomina è o non è permessa dalla Santa Legge? Dio ricompenserà il governatore se lo licenzierà e lo sostituirà con un musulmano competente? Chiunque contribuirà a provocare il suo licenziamento sarà ugualmente ricompensato da Dio?

RISPOSTA: Non è lecito nominare l’ebreo per una posizione del genere, non è lecito lasciarlo restare in questa posizione, e non è lecito fare affidamento sulla sua parola per nessuna questione ad essa attinente. Il governatore, possa Dio assicurargli il successo, sarà ricompensato per averlo licenziato e averlo sostituito con un musulmano competente, e chiunque collaborerà per provocare le sue dimissioni sarà ugualmente ricompensato. Dio disse: “O voi che credete! Non sceglietevi come intimi amici persone estranee alla Fede, che questi non mancheranno di mandarvi in rovina. Ad essi piacerebbe mettervi in imbarazzo, e l’odio sgorga loro dalla bocca, e quel che celano in cuore è ancora peggiore. Noi vi abbiamo dunque dichiarato i Segni, oh, se voi comprendeste!” (Corano, III, 118). Il significato di questo è che voi non dovete adottare estranei, cioè infedeli, e permettere a loro di penetrare nei vostri affari più segreti. “Non mancheranno di mandarvi alla rovina”. Questo significa che non si asterranno da alcun mezzo che sia in loro potere per farvi del male, dei danni o delle offese. “L’odio sgorga loro dalla bocca” poiché essi dicono “Noi siamo vostri nemici”. Malgrado tali regole e polemiche, tuttavia, l’uso di impiegare i non musulmani fu e rimase pressoché universale, e questo più per ragioni pratiche che per ragioni teoriche. Essi erano necessari, e questo bastava. I governanti musulmani e i loro portavoce non trovavano in genere necessario né opportuno giustificare questo uso. C’è però una storia interessante, conservata dalla tradizione scritturale, e attribuita al tempo del califfo ‘Umar I. Il califfo che si trovava nella moschea, chiese ad Abū Mūsa, il governatore di Kūfa, di mandargli il suo segretario nella moschea per leggere alcune lettere che erano giunte dalla Siria. Abū Mūsa rispose che il segretario non poteva entrare nella moschea. ‘Umar chiese: “Perché, si trova forse in stato di impurità rituale?”. “No”, rispose Abū Mūsa “ma è un cristiano”. Il califfo fu sconcertato, si batté la coscia per l’indignazione e disse a Abū Mūsa: “Come hai potuto fare una cosa simile? Possa Dio punirti! Non conosci le parole di Dio Onnipotente: ‘O voi che credete! Non prendete giudei e cristiani come alleati’ (V, 51). Perché non hai preso un vero musulmano?” Al che Abū Mūsa replicò: “La sua religione è sua, la sua abilità come segretario è mia”. Il senso delle parole di Abū Mūsa è chiaro: la religione di un uomo è una sua questione personale; la preoccupazione del suo datore di lavoro riguarda solo la sua abilità professionale. Il narratore della storia lascia tuttavia al califfo l’ultima parola: “Io non onorerò coloro che Dio ha degradato; non glorificherò coloro che Dio ha umiliato; non farò avvicinare a me coloro che Dio ha posto lontano”. Questa distinzione fra la religione di un uomo, che può essere disapprovata, e la sua competenza professionale, che può essere utile, fu raramente espressa ma fu spesso messa in pratica[24].

Se la conversione all’Islam era facilitata da tali norme che differenziavano la condizione dei non-musulmani, non di meno, altre considerazioni talvolta la frenavano:

La questione è ben chiarita in un antico trattato sulla tassazione che cita una lettera presumibilmente scritta dal califfo ‘Umar I a uno dei suoi governatori:
Né tu né i musulmani che sono sotto di te devono trattare gli infedeli come bottino e venderli [come schiavi]… se esigete da loro il testatico, non potete avere più alcuna pretesa né diritto su di loro. Hai considerato, se li prendiamo e li vendiamo, che cosa resterà ai musulmani che verranno dopo di noi? Per Dio, i musulmani non troveranno più un uomo con cui parlare o del cui lavoro trarre profitto. I musulmani dei giorni nostri mangeranno [dal lavoro di] queste persone fintanto che vivranno, e quando noi e loro moriremo, i nostri figli mangeranno [dai] loro figli per sempre, fintanto che essi resteranno, poiché sono schiavi del popolo della religione dell’islam fintanto che la religione dell’islam prevarrà. Perciò imponi su di loro un testatico e non renderli schiavi né permettere ai musulmani di opprimerli o di far loro del male o di dissipare le loro proprietà salvo nei limiti di quanto è consentito, ma attieniti fedelmente alle condizioni che ha concesso loro e a tutto ciò che hai loro permesso.

La differenziazione fiscale fra fedeli e infedeli rimase in vigore in tutto il mondo islamico fino al diciannovesimo secolo, e in nessun tempo e luogo fu mai lasciata cadere in disuso[25].

Secondo l’interpretazione di Lewis l’antica legislazione voleva esprimere non tanto odio, quanto disprezzo:

Nel complesso, contrariamente all’antisemitismo cristiano, l’atteggiamento musulmano verso i non musulmani non è di odio, di paura o di invidia, ma semplicemente di disprezzo. Ciò viene espresso in vari modi. Non mancano esempi di letteratura polemica contro i cristiani e, occasionalmente, anche contro gli ebrei. Gli attributi negativi imputati alle religioni assoggettate e ai loro seguaci vengono generalmente espressi in termini religiosi e sociali, molto raramente in termini etnici o razziali, nonostante anche questo aspetto ricorra talvolta. Il linguaggio dell’ingiuria è spesso molto forte. Gli epiteti convenzionali sono quello di “scimmie” per gli ebrei e di “maiali” per i cristiani[26]...

La stessa percezione si riflette in una comune formula di giuramento: “[Se quello che dico non è vero], possa io diventare ebreo…”[27].

Anche le formule di saluto ed i nomi propri esprimevano la differenza religiosa:

Le formule di saluto sono diverse quando ci si rivolge agli ebrei e ai cristiani rispetto a quelle usate quando ci si rivolge ai musulmani, sia nella conversazione che nella corrispondenza. Cristiani ed ebrei avevano la proibizione di dare ai loro figli nomi tipici musulmani e, in epoca ottomana, perfino quei nomi che erano comuni alle tre religioni, come Giuseppe o David, avevano una pronuncia diversa nei tre casi. I non musulmani imparavano a vivere con una serie di differenze di questo tipo; come le leggi sull’abbigliamento, esse facevano parte del simbolismo dell’inferiorità[28].

Un’altra differenza riguardava le cavalcature e, soprattutto, il porto d’armi, che allora aveva una importanza ben diversa da quella odierna:

Il dhimmī, deve cavalcare un asino, e non un cavallo; non deve sedersi sulla bestia a gambe divaricate, ma su una sella laterale, come le donne. Il punto più grave è che non deve portare armi, ed è quindi alla mercè di chiunque decida di assalirlo. Mentre aggressioni armate contro i dhimmī sono piuttosto rare, rimane comunque una sensazione di pericolo e di inferiorità per coloro che non possono portare armi in una società in cui è normale farlo. Il dhimmī non era il solo a subire questa limitazione, che colpiva anche altri gruppi sociali, in particolare nella penisola araba. Egli era tuttavia il più vulnerabile. Il dhimmī non è in grado e senza dubbio non ha la possibilità di difendersi neppure da futili anche se dolorose aggressioni come lanci di pietre, fatti per lo più da ragazzi, una forma di divertimento registrata in molti luoghi, dai tempi antichi fino ai giorni nostri. Il dhimmī doveva affidarsi alle autorità pubbliche affinché lo difendessero dalle aggressioni o da altri danni, e mentre questa protezione era spesso, o sempre, concessa, inevitabilmente era meno sicura in tempi di pericolo o di disordine. Il conseguente sentimento di pericolo, di precarietà è stato spesso manifestato nelle opere degli autori dhimmī.
Una simile espressione di inferiorità, questa volta più simbolica che sostanziale, è contenuta nelle norme riguardo all’abbigliamento delle donne dhimmī. Le regole che proibivano loro di indossare abiti lussuosi o gioielli costosi erano applicate solo sporadicamente e in ogni caso erano analoghe alle limitazioni imposte alle donne musulmane. Vi era però una differenza che è chiaramente un segno di inferiorità. Le donne musulmane libere avevano l’obbligo, uscendo fuori di casa, di tenere il volto coperto con un velo. Le donne dhimmī e le schiave avevano il permesso, e talvolta erano obbligate ad andare con il volto scoperto. Vi sono alcune serie di norme che in realtà proibiscono alle donne dei dhimmī di portare veli. E’ chiara l’associazione del volto scoperto con la donna schiava e del volto velato con la donna virtuosa e onesta[29].

Il rispetto era dovuto non solo all’Islam, nel suo complesso, come religione, ma anche ad ogni singolo musulmano in particolare:

Una considerazione di estrema importanza era il fatto che i dhimmī dovevano mostrare rispetto non solo all’islam in genere, ma ad ogni singolo musulmano. Le misure a questo riguardo erano in genere contenute nelle regole che di tempo in tempo venivano stese dalle autorità religiose o promulgate dai governanti musulmani per specificare e descrivere in dettaglio le restrizioni concesse con la dhimma. Talvolta i provvedimenti erano specificati in modo sorprendentemente dettagliato. Così in un’opera del dodicesimo secolo da Siviglia, in Spagna, intorno alle norme dei mercati, leggiamo:
Un musulmano non deve massaggiare un ebreo o un cristiano né gettare via i suoi rifiuti, né pulire le sue latrine. L’ebreo e il cristiano sono più adatti a questi lavori, dato che essi sono tipici degli uomini vili. Un musulmano non deve prendersi cura dell’animale di un ebreo o di un cristiano, né servirlo come mulattiere, né reggergli la staffa. Se si viene a sapere che un musulmano fa queste cose, deve essere denunciato[30]...

In generale, processi e condanne per queste offese non erano comuni, ma si verificarono, di tanto in tanto, fino al diciannovesimo secolo inoltrato, e la paura di una denuncia deve aver contribuito molto a tenere i dhimmī al loro posto. Edward Lane, che fu in Egitto dal 1833 al 1835, dopo aver osservato il miglioramento delle condizioni degli ebrei egiziani sotto il governo di Muhammad’Alī Pasha, osservava: “Attualmente, essi sono meno oppressi; ma tuttora non osano neppure pronunciare una parola di insulto quando vengono ingiuriati o battuti ingiustamente dai più potenti arabi o turchi; infatti molti ebrei sonno stati messi a morte dietro la falsa e maligna accusa di aver pronunciato parole irrispettose contro il Corano o il Profeta[31].

Le persecuzioni che, talvolta, si scatenarono avevano spesso, come origine il sentimento che i dhimmīs avessero elevato troppo la considerazione di sé:

Talvolta, quando si verificava una persecuzione, troviamo che gli istigatori si preoccupavano di giustificarla sulla base della Legge Santa. L’argomentazione più comune era che gli ebrei o i cristiani avevano violato il patto oltrepassando il ruolo per loro prefissato. Essi avevano quindi infranto le condizioni del contratto con l’islam, e lo stato e il popolo musulmano non erano più obbligati a rispettarlo. Questa preoccupazione si manifesta anche in una violenta letteratura anti- dhimmī. Particolarmente istruttivo a questo proposito è il poema antiebraico di Abū Ishāq, scritto a Granata nel 1066. Questo poema, che si dice sia stato lo strumento per provocare l’esplosione antiebraica di quell’anno, contiene questi significativi versi:

Non considerare una violazione della legge ucciderli
La violazione della legge sarebbe lasciarli stare.
Essi hanno violato il nostro patto con loro
Quindi come si può essere considerati colpevoli
Contro i violatori?
Come possono avere alcun patto
Quando noi siamo in ombra ed essi sono importanti?
Adesso noi siamo gli umili, dietro di loro
Come se noi avessimo torto, e loro ragione!
Non tollerate i loro misfatti contro di noi
Poiché voi siete una garanzia per quello che essi fanno
Dio veglia sul Suo popolo
E il popolo di Dio prevarrà.

L’oltraggio costituisce il tema dominante del poema. Ma in stridente contrasto con l’antisemitismo della cristianità (N.d.R. sic!), Abū Ishāq anche nella sua ingiuria non rifiuta agli ebrei il diritto alla vita, alla sussistenza e alla pratica della loro religione. In quanto giurista è consapevole che questi diritti sono garantiti dalla Legge Santa e fanno parte della dhimma, che è un contratto legale vincolante. Abū Ishāq non cerca di negare o di minimizzare il contratto. Al contrario, egli cerca con fatica di assicurare i suoi lettori, e senza dubbio anche se stesso, che nel derubare e uccidere gli ebrei essi non agirebbero illegalmente – cioè a dire, non si troverebbero a violare le disposizione di un contratto stabilito e santificato dalla Legge Santa dell’islam, e non metterebbero quindi in pericolo la loro anima nel mondo avvenire. Sono gli ebrei, egli argomenta, che hanno violato il contratto che quindi ha cessato di essere vincolante per i musulmani. I musulmani e i loro capi sono assolti dai loro obblighi in base alla dhimma, e sono quindi liberi di aggredire, uccidere, e espropriare gli ebrei senza commettere illegalità, cioè senza peccato. Diatribe del tipo di quella di Abū Ishāq e massacri come quello avvenuto a Granada nel 1066 sono rari nella storia islamica[32].

Qui Lewis fa riferimento all’episodio del quale diamo la descrizione secondo L.Poliakov, in Storia dell’antisemitismo, vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1991, pagg. 107-108:

Un Ebreo che è nello stesso tempo onnipotente ministro e comandante in capo è sicuramente un fatto eccezionale nella storia della diaspora. Un giorno, dopo essere sfuggito a un grosso pericolo, Ibn Nagrela giurò di scrivere, in segno di riconoscenza, un nuovo commento al Talmùd. Mantenne la promessa, e il trattato, Hilkata gibarvata, fece testo per molte generazioni. Un’altra sua opera, il Mebo ha-Talmùd, è ancor oggi inclusa fra le grandi edizioni del Talmùd babilonese. Ma in guerra e in battaglia, questo erudito dottore della Legge si dimostrava astuto e crudele quanto i suoi avversari. In un poema da lui destinato alla tradizionale lettura del sabato e all’edificazione dei fanciulli, egli esortava i becchini a scavare una tomba particolarmente profonda per il nemico appena abbattuto. In una lettera indirizzata ai suoi figli, consigliava

D’annunciare con voce gentile buone nuove al nemico,
Ma di diffidare sempre di lui,
D’inghiottire gli insulti che lancia
E di trafiggerlo al momento buono con un sol colpo di spada.

Era un uomo che, ritenendo indegno di sé il titolo di nassi, o capo degli Ebrei, lo sostituì con quello di naguid, o principe; e la cui autorità, unanimamente riconosciuta dagli Ebrei di Spagna, si estendeva anche oltre frontiera. Era in relazione epistolare con i saggi ebrei di Babilonia, e proteggeva i più stimati rabbini del suo tempo, come l’illustre filosofo Ibn Gebirol. Dopo la usa morte, avvenuta nel 1058, gli successe nella carica il figlio Giuseppe Ibn Nagrela. Ma la fortuna di questa famiglia ebraica suscitava da molto tempo lo scontento degli invidiosi. Emulo di Ibn Hazm, il poeta Abù Ishak di Elvira esclamava:

Il capo di queste scimmie ha arricchito il suo palazzo di incrostazioni di marmo; vi ha fatto costruire fontane da cui zampilla l’acqua più pura; e mentre ci fa aspettare davanti alla porta prende in giro noi e la nostra religione. Se dicessi che è ricco quanto voi, o mio re, direi la verità. Ah! Sbrigatevi a sgozzarlo e ad offrirlo in olocausto; sacrificatelo, è un grasso montone! Non risparmiate neanche i suoi parenti e i suoi alleati anche loro hanno accumulato immensi tesori.

Nel 1066, nel corso di una breve insurrezione popolare Giuseppe Ibn Nagrela fu crocifisso dalla folla scatenata, e un gran numero di Ebrei assassinati. Sembra che i sopravvissuti abbiano dovuto lasciare per qualche tempo Granata.

A momenti di crescita dell’importanza della presenza dei dhimmīs, facevano seguito periodi in cui la loro rilevanza veniva ridimensionata:

Il caso più comune è quello del governante pio e rigoroso che corregge gli errori dei suoi empi e negligenti predecessori, e riconduce la comunità sulla retta via dell’islam. Il paradigma di un governante simile è il califfo omayyade ‘Umar II, la cui biografia, secondo il resoconto di storici successivi, contiene tutti quelli che divennero i temi classici di una restaurazione islamica. A intervalli ricorrenti nella storia islamica, movimenti o singoli governanti inaugurarono periodi di rigida ortodossia militante. In tali periodi si manifesta una insistenza sulla purificazione dell’islam, la necessità di eliminare le escrescenze e le innovazioni che hanno corrotto e distorto la fede nel corso dei secoli, e la necessità di tornare al vero, autentico islam del Profeta e dei suoi seguaci. L’adeguata subordinazione dell’infedele e la rigorosa applicazione delle limitazioni a lui imposte sono parte integrante di questa pia restaurazione. Essa non esige la persecuzione dell’infedele; al contrario, biografi e storici di pii governanti insistono sulla correttezza e la giustizia con cui vengono trattati i dhimmī. Ma la giustizia esige che essi siano tenuti al posto che la legge assegna loro, e che non sia permesso loro di uscirne...

Le circostanze storiche delle riforme di ‘Umar II sono significative. Una grande spedizione navale e militare inviata a conquistare Costantinopoli era disastrosamente fallita, e l’impero omayyade si trovò ad affrontare un momento di crisi. La guerra impose nuovi e pesanti oneri economici; la distruzione dell’esercito arabo sotto le mura di Costantinopoli privò il governo dei mezzi per imporre il suo volere con la forza. Il governo omayyade, che in ogni epoca era stato sfidato da dissidenti musulmani pii, poteva correre il rischio di essere rovesciato. Quando il califfo Sulaymān (715-717), che aveva lanciato la spedizione, morì, la famiglia omayyade, che si era sempre distinta per il suo talento politico, scelse come suo successore il solo principe omayyade che avesse fama di uomo pio e la capacità di indirizzare l’opinione pubblica musulmana a sostenere la dinastia attraverso il perseguimento di una politica rispondente alle loro credenze...

In un decreto emesso nell’850, leggiamo:
E’ divenuto noto al Comandante dei Fedeli che uomini privi di giudizio o discernimento stanno cercando l’aiuto dei dhimmī per la loro impresa, adottandoli come confidenti preferibili ai musulmani, e dando loro autorità sopra ai sudditi. Ed essi li opprimono e stendono contro di loro le mani con tirannia, frode e inimicizia. Il Comandante del Fedele, attribuendo a questo fatto grande importanza, lo ha condannato e sconfessato. Desiderando trovare il favore di Dio nel prevenire e impedire questo fatto, ha deciso di scrivere ai suoi ufficiali nelle province e nelle città e ai governatori delle città e dei distretti di frontiera che essi cessino di impiegare i dhimmī in ogni loro lavoro o affare e di adottarli come soci nella fiducia e nell’autorità che è stata conferita loro dal Comandante dei Fedeli e affidata alla loro responsabilità…
Non cercate dunque aiuto da alcun politeista, e confinate il popolo delle religioni protette alla condizione che Dio ha loro assegnato. Fate in modo che la lettera del Comandante del Fedele sia letta a voce alta agli abitanti del vostro distretto e proclamata in mezzo a loro, e che non sia risaputo al Comandante del Fedele che voi o alcuno dei vostri ufficiali o aiutanti stanno impiegando qualche membro delle religioni protette per gli affari dell’islam.
Lo scopo principale di questa e altre misure simili pare sia stato quello di limitare l’intromissione dei non musulmani nello stato musulmano e il loro arrogarsi una autorità che sarebbe spettata di diritto solo ai musulmani. Nello stesso tempo al-Mutawakkil diede ordine che i cristiani e i dhimmī in generale fossero obbligati a portare cappucci e cinture color miele; a cavalcare su selle con staffe di legno e due palle attaccate sulla parte posteriore; ad attaccare due bottoni sul berretto di quelli che lo indossano e a indossare berretti di colore diverso da quelli dei musulmani; ad attaccare due toppe sugli abiti dei loro schiavi, di colore diverso da quello degli abiti su cui vengono applicate, una sul petto, l’altra sulla schiena, ogni toppa lunga quattro dita, e ciascuna di color miele. Coloro di essi che indossavano turbanti dovevano portare turbanti color miele. Se le loro donne uscivano e si mostravano in pubblico, dovevano mostrarsi solo con la testa avvolta in sciarpe color miele. Diede ordine che i loro schiavi indossassero cintole, e proibì loro di portare cinture. Diede ordine di distruggere la decima parte delle loro case. Se il luogo era grande abbastanza doveva essere trasformato in moschea: se non era adatto a una moschea, doveva essere trasformato in uno spazio aperto. Ordinò che immagini in legno di diavoli fossero appese alle porte delle loro case per distinguerle dalle case dei musulmani. Proibì il loro impiego in uffici governativi e in impieghi ufficiali dove avrebbero avuto autorità sopra ai musulmani. Proibì ai loro figli di frequentare le scuole musulmane o che un musulmano gli facesse da maestro. Proibì l’esibizione di croci nella loro domenica delle palme e riti ebraici nelle strade. Ordinò che le loro tombe fossero al livello del terreno, in modo da non somigliare alle tombe musulmane[33].

Tale prassi non si interruppe, ma continuò anche sotto l’Impero Ottomano:

Vi furono molti governanti successivi che seguirono l’esempio di ‘Umar II. Fra di loro vi fu il sultano ottomano Bayezid II (1481-1512), il cui regno segnò una specie di reazione contro la politica del suo padre e predecessore Mehmed il Conquistatore. Mehmed aveva aperto, per così dire, una finestra sull’Occidente, dimostrando favore sia verso i greci che verso gli ebrei, e allargando il suo patronato anche ad artisti e studiosi dell’Europa cristiana. Bayezid, ritenuto uomo di grande pietà e molto più esposto all’influenza dell’ulema, cambiò tutto ciò. Le pitture che suo padre aveva accumulato nel palazzo furono tolte e vendute, mentre i cortigiani e i funzionari cristiani ed ebrei furono rimandati ai loro affari. Secondo una fonte ebraica, il sultano diede ordine di chiudere le sinagoghe che erano state costruite a Istanbul dopo la sua cattura da parte dei Turchi e che erano quindi in contrasto con le norme della Legge Santa, che consentiva ai dhimmī di mantenere solo quei luoghi di culto che avevano posseduto prima della conquista e proibiva quindi di costruirne di nuovi...

E’ sorprendente tuttavia che fu lo stesso sultano Bayezid che, nel 1492, e in seguito permise e perfino incoraggiò un gran numero di ebrei della Spagna e del Portogallo a insediarsi nell’impero ottomano e ricostruire là la loro vita dopo l’espulsione dalla loro madrepatria...

Sotto il regno dei successori di Bayezid la posizione delle comunità sottomesse migliorò, ma un nuovo momento di pericolo si verificò durante il regno di Murad III (1574-1595)[34].

Diverso era il caso di gruppi più integralisti nell’osservanza della fede. Incontriamo qui il movimento degli Almohadi che, nato nell’Africa del Nord, si impossessò della Spagna musulmana ed ebbe così un ruolo decisivo nello sviluppo dell’Andalusia islamica:

Uno dei più fortunati fra questi movimenti fu quello degli Almohadi, fondato da un capo religioso berbero chiamato Muhammad ibn ‘Abdāllah ibn Tumart nella seconda e terza decade del dodicesimo secolo. Nel 1121 fu riconosciuto dai suoi seguaci come il Mahdī, il capo di elezione divina che dovrà ricondurre l’islam sulla vera via e inaugurare il regno del cielo sulla terra. Sotto i successori del Mahdī il potere degli Almohadi si diffuse dalla valle dell’Alto Atlante dove aveva avuto origine, e verso la fine del dodicesimo secolo essi dominavano la maggior parte del Nord Africa e della Spagna musulmana. Il fervore messianico degli Almohadi non poteva tollerare alcuna deviazione dalla loro particolare versione dell’islam. I musulmani che non vi si volevano sottomettere venivano puniti spietatamente, mentre agli ebrei, e ancor più ai cristiani, era negata la tolleranza prescritta dalla Sharī’a. Fu probabilmente in questo periodo che la cristianità fu estirpata dal Nord Africa. Anche gli ebrei soffrirono duramente sia nel Nord Africa che in Spagna e – fatto eccezionale nella storia musulmana a est dell’Iran – poterono scegliere soltanto fra la loro conversione, l’esilio e la morte. Gli Almohadi più tardi modificarono il loro atteggiamento e permisero ai dhimmī di praticare la loro religione in accordo con la legge. La loro condizione andò tuttavia continuamente peggiorando, specialmente nel Nord Africa, dove i cristiani scomparvero e gli ebrei furono soggetti alla più severa e rigida interpretazione della dhimma[35]...

In tutte queste situazioni la repressione viene avviata dal governante, talvolta per placare il sentimento popolare, più spesso in risposta alle sue esigenze morali o politiche. Talvolta, tuttavia, l’aggressione contro i dhimmī aveva origine in seno alla popolazione e era soprattutto in queste occasioni che si verificavano atti di violenza fisica. La ragione di gran lunga più comune di tali sommosse in tempi premoderni era che i dhimmī non stavano al loro posto, si comportavano in modo arrogante, e si stavano elevando al di sopra del ruolo ad essi assegnato. Questo ci riconduce a una delle concezioni fondamentali dell’Islam: il concetto o l’ideale di giustizia[36].

E’ estremamente significativo rilevare come non si prendessero mai in considerazione, con dispute ed approfondimenti, le differenze religiose. Esse non venivano fatte oggetto di discussioni. Il mondo cristiano, pur essendo molto rigoroso in questo campo, aveva il merito di spingere in direzione di una chiarificazione dottrinale, di un approfondimento dei problemi:

Nella storia delle chiese cristiane, l’eresia è stata oggetto di profonda preoccupazione. Eresia significava deviare dal credo giusto secondo la definizione dell’autorità. Nell’islam vi era meno preoccupazione sui dettagli della fede. Ciò che importava era quello che la gente faceva – l’ortoprassia piuttosto che l’ortodossia – e i musulmani nel complesso potevano credere a quello che volevano purché accettassero un minimo di base – l’unità di Dio e l’apostolato di Maometto – e si conformassero alle norme sociali. Anche alle eresie che deviavano notevolmente dalla corrente principale dell’islam era accordata la tolleranza. L’eresia veniva perseguitata solo quando era vista come una minaccia sostanziale all’ordine sociale e politico.
Le stesse considerazioni influenzavano per lo più l’atteggiamento musulmano nei confronti dei sudditi non musulmani. I problemi sorgevano quando ebrei o cristiani parevano acquistare troppa ricchezza o troppo potere, cioè a dire, più di quanto fosse ritenuto giusto e adeguato per loro, e, più in particolare, quando ne godevano troppo apertamente[37].

La mancanza di confronto religioso non impediva, però, uno scambio culturale a livello scientifico o nelle alte sfere degli intellettuali:

Questa cooperazione culturale è attestata in molti modi. Abbiamo, ad esempio, dizionari biografici di medici famosi. Queste opere, benché scritte da musulmani, includono senza distinzione medici musulmani, cristiani ed ebrei. Attraverso questo gran numero di biografie è addirittura possibile ricostruire una specie di prosopografia della professione medica – tracciando la curva vitale di alcune centinaia di medici professionisti nel mondo islamico. Da queste fonti ricaviamo l’impressione netta di un impegno comune. Negli ospedali e nella pratica privata, dottori delle tre fedi operavano insieme come colleghi o come assistenti, leggendo ognuno i libri degli altri e accettandosi l’un l’altro come allievi. Non vi era niente di simile alla separazione che era normale nella cristianità occidentale di quel tempo o nel mondo islamico in epoche successive...

Vi è un capitolo in una delle opere teologiche del grande teologo musulmano al-Ghazālī (1059-1111) che è pressoché identico a un capitolo di un’opera di un suo contemporaneo, il filosofo ebreo Bahye ibn Paquda. Il collegamento fra i due ha creato perplessità in molti studiosi. A un certo punto si pensò che Bahye doveva aver ripreso il contenuto del capitolo da al-Ghazālī, dato che, mentre Bahye era in grado di leggere l’arabo, al-Ghazālī non era in grado di leggere la scrittura ebraica in cui era composta l’opera di Bahye. Quando fu dimostrato che in nessun modo Bahye avrebbe potuto vedere o leggere l’opera di al-Ghazālī, il problema sembrò insolubile, finché il professor Baneth non ne trovò la soluzione. Un testo antico, precedentemente sconosciuto, era stato la fonte comune dei relativi capitoli sia di al-Ghazālī che di Bahye, ed era quindi la spiegazione delle sorprendente somiglianze fra i due. Ciò che rende il caso ancor più notevole è il fatto che questa opera antica era stata scritta da un cristiano. Abbiamo quindi un cristiano che scrive un’opera teologica, presumibilmente destinata a un pubblico cristiano, che viene poi studiata e, per così dire, presa in prestito da due teologi successivi, uno musulmano e l’altro ebreo, ciascuno impegnato a scrivere un’opera di istruzione religiosa destinata ai propri correligionari. Una società in cui è possibile il plagio fra teologi di tre religioni diverse ha senza dubbio raggiunto un alto livello di tolleranza e simbiosi[38].

Lo studio di B.Lewis si pone la questione se vi fosse un diverso statuto giuridico per ebrei e cristiani:

Una questione di una certa importanza è in che misura i musulmani, nel loro atteggiamento nei confronti degli infedeli, facessero distinzione fra cristiani ed ebrei. In principio, come abbiamo visto, le due distinzioni principali erano una teologica, fra monoteisti e politeisti, e l’altra politica, fra nemici non assoggettati e sudditi dhimmī. In generale i musulmani mostrarono scarso interesse nella suddivisione dei politeisti, e tendevano a considerare l’intero mondo esterno come un tutto indistinto, in accordo con la spesso citata massima secondo cui al-kufru millatun wahida, la miscredenza è una sola religione[39].

E’, inoltre da considerare il fatto che i cristiani potevano, comunque, appellarsi a stati cristiani con i quali i paesi musulmani dovevano misurarsi ed, eventualmente, la loro condizione, poteva trovare eco in Stati confinanti con quelli islamici[40]:

Gli ebrei non godevano di questo vantaggio o svantaggio, con una sola eccezione. Per alcuni secoli nel primo medioevo, il regno dei Kazari, una popolazione turca che viveva nelle terre fra i fiumi Don e Volga, si era convertito all’ebraismo. Per quanto si può accertare, il regno kazaro fu retto da una classe dominante relativamente esigua di convertiti all’ebraismo, che governavano sopra una vasta popolazione di pagani, cristiani e musulmani[41].

A livello del sentimento popolare si potevano talvolta rilevare differenze:

Secondo il grande autore del nono secolo al-Jāhiz, le masse musulmane preferivano i cristiani agli ebrei per diverse ragioni. La più importante, egli osserva, era il fatto che gli ebrei, diversamente dai cristiani, si erano attivamente opposti al Profeta a Medina:

Quella lotta contro di loro fu protratta, spossante e venne sempre più in superficie. Si andò formando il rancore, l’odio si raddoppiò e il risentimento mise solide radici. I cristiani invece, dato che vivevano lontano dal luogo in cui il Profeta - possa Allah benedirlo e concedergli la pace – ricevette la sua chiamata e dal luogo dove emigrò, non cominciarono a calunniare l’islam, e non ebbero la possibilità di ordire trame, né di unirsi per far guerra. Questa, pertanto è la prima ragione per cui il cuore dei musulmani si è indurito nei confronti degli ebrei, mentre è divenuto favorevole ai cristiani.

In aggiunta a questa motivazione storica, dovuta, come al-Jāhiz osserva, a circostanze fortuite, egli ne adduce altre: i cristiani occupano posizioni importanti come funzionari del governo, cortigiani, medici dei nobili, profumieri e banchieri, mentre gli ebrei sono in genere tintori, conciatori, salassatori, macellai o stagnini “così quando le masse vedevano gli ebrei e i cristiani in questa luce, immaginavano che la religione degli ebrei occupasse fra le altre religioni lo stesso posto che le loro professioni occupano in mezzo alle altre”. Un’altra ragione della preferenza popolare dei musulmani è che i cristiani, per quanto brutti, non sono mai brutti quanto gli ebrei la cui bruttezza è accentuata dal fatto che si accoppiano fra consanguinei:

La ragione per cui i cristiani sono meno ripugnanti – benché siano senza dubbio brutti – è che gli israeliti sposano solo una israelita, e tutte le loro deformità vengono conservate e confinate tra di loro... essi non si sono quindi distinti né per l’intelligenza, né per il fisico, né per la bravura. Come il lettore certo saprà, lo stesso accade ai cavalli, ai cammelli, agli asini e ai piccioni quando si sposano tra di loro.

Al-Jāhiz è famoso come umorista, autore satirico e parodista ed è spesso difficile sapere se parla sul serio o per scherzo[42].

E’ soprattutto nel sentire popolare che, talvolta, troviamo lo stereotipo dispregiativo dell’ebreo:

Qualche indicazione sulla percezione musulmana degli ebrei e dell’ebraismo può essere dedotta dal modo in cui questi appaiono in certi temi comuni del discorso musulmano. Uno di essi, riscontrato di frequente nell’epoca classica, è l’attribuzione dell’origine o della discendenza ebraica al fine di gettare discredito su un individuo, un gruppo, un uso, un concetto...

Più grave è la ricorrente tendenza di attribuire un’origine o un’istigazione ebraica a dottrine sovversive ed estremiste. Così ad esempio, l’emergere della Shī’a e di qui lo scisma all’interno dell’islam, e più in particolare l’affiorare di una esagerata esaltazione di ‘Alī e degli ultimi imam, è attribuita alla figura demoniaca di ‘Abdallāh ibn Sabā, ritenuto un ebreo yemenita che si era convertito all’islam. Nella tradizione sunnita, costui è l’istigatore della Shī’a;nella tradizione sciita, egli figura talvolta come l’ideatore di alcune dottrine estremiste del tipo di quelle che furono condannate dalla più moderata Shī’a duodecimana. La critica moderna ha successivamente sollevato molti dubbi sul ruolo di ‘Abdallāh ibn Sabā, sulla sua ebraicità e perfino sulla sua realtà storica...

Un terzo e più famoso esempio è ‘Abdallāh ibn Maymūn al Qaddāh, che compare in scritti polemici anti-ismā’īlī e antifatimidi come il fondatore della fede ismā’īlī e l’antenato dei califfi fatimidi. Abdallāh ibn Maymūn è una figura ambigua e anche nel suo caso vi sono numerose versioni della sua biografia. In diverse versioni risulta che fosse ebreo di nascita, con l’implicazione che l’ismailismo era una eresia giudaizzante e che i fatimidi erano usurpatoris di estrazione ebraica...

Un esempio sconvolgente è la pericolosa rivoluzione derviscia che all’inizio del quindicesimo secolo giunse quasi a distruggere il nascente stato ottomano. Il capo dei dervisci, che viene accusato dalla tradizione storiografica di aver predicato il sincretismo religioso e il comunismo, era figlio del qādī di Simavna, Bedreddin. Suo compagno era un certo Torkal Hu Kemal, del quale alcuni sostenevano che fosse un convertito all’ebraismo e avesse avuto un ruolo particolarmente funesto...

Oltre che come sovversivo demiurgo, l’ebreo appare nel folklore musulmano anche in un altro ruolo, cioè come un prototipo dell’umile e dell’oppresso...

Nella versione ottomana, si narra che quando il Sultano Solimano il Magnifico si accingeva a far costruire la grande moschea süleymaniye, i suoi progetti furono ostacolati da un ebreo ostinato che possedeva un piccolo pezzo di terra nella località predestinata e respingeva tutte le offerte che gli venivano fatte per acquistarlo. I consiglieri esortarono il sultano a espropriare il terreno, o almeno ad acquistarlo con la forza dal recalcitrante infedele; ma egli rifiutò di farlo, dato che questo sarebbe stato contrario alla legge di Dio. La stessa storia viene narrata dai Sunniti a proposito del califfo ‘Umar, dagli Sciiti a proposito del califfo ‘Alī, come pure a proposito di molti altri capi, ed è un mito classico per definire il governante giusto. Lo stesso argomento ricorre talvolta in un contesto più esplicitamente storico. Così l’emiro Zangi, che governò in Mesopotamia e nella Siria settentrionale nel dodicesimo secolo, è lodato dagli storici per la sua pietà e per aver ripristinato le norme legali islamiche; ecco un esempio: “Anche se il querelante è un ebreo e l’accusato è il suo proprio figlio, egli farebbe comunque giustizia per il querelante”[43].

Le differenze di status simbolico di musulmani ed ebrei avevano conseguenze nel campo dei lavori e delle professioni:

Mentre gli ebrei dell’islam non erano soggetti, come in Europa, a restrizioni nel campo delle professioni, vi era una tendenza, per vari motivi, da parte degli ebrei a preferire alcune professioni ed evitarne altre. Vi erano ovvii impedimenti alle carriere militari e burocratiche; gli ebrei di talento e di cultura cercavano quindi altre professioni, in cui svolsero talvolta un ruolo importante, ancorché non preponderante. C’è un vecchio detto arabo secondo cui l’ebreo assurge alla grandezza con un flacone di medicine o con la borsa del denaro in mano. Questo detto esprimeva una verità storica generalmente verificabile, e cioè che le due sole vie al successo aperte agli ebrei ambiziosi erano quelle della pratica della medicina e il maneggiare il denaro[44].

La professione di medico era quella che permetteva le maggiori fortune, legata all’oggettività delle capacità terapeutiche:

Anche la pratica della medicina aveva i suoi vantaggi. Quando gli uomini sono gravemente ammalati, il desiderio di ricevere il migliore trattamento medico è in grado di far superare perfino i più forti pregiudizi religiosi. Nell’islam medievale, come in altri tempi e luoghi, i medici ebrei, non dipendendo da incarichi pubblici, ma solo dalla pratica privata, erano capaci di salire tanto in alto quanto lo consentiva il loro talento. La possibilità di accedere ad altre lingue e quindi ad altre opere di letteratura medica diede loro talvolta un vantaggio rispetto ai colleghi musulmani . Un medico di successo poteva annoverare fra i suoi pazienti alti ufficiali e perfino uomini di governo. Tramite lo stretto e immediato accesso ai centri del potere che questo fatto gli conferiva, egli poteva ottenere alcuni vantaggi per la comunità ebraica di cui faceva parte e ovviamente anche per se stesso, la sua famiglia e i suoi amici. Occasionalmente, troviamo medici ebrei che svolgono un ruolo politico di qualche importanza, anche se questo fenomeno è raro in epoca medievale e in genere, ad alcuni livelli, richiede la conversione all’islam prima che il medico possa sfruttare in pieno la sua posizione. In una società dominata da un potere autocratico personale, l’accesso al governante costituiva un’importante via, spesso l’unica, verso posizioni di potere e di influenza. Ma questo genere di potere, come l’autorità da cui derivava, era sempre precario. Poteva avere fine in modo brusco e doloroso in seguito alla morte o all’espulsione del governante; o se il favorito perdeva il favore, o ancora per un semplice mutamento delle circostanze politiche. Una tale caduta, dopo una tale ascesa, poteva essere spesso disastrosa per la famiglia e la comunità dell’interessato, che saliva e cadeva insieme a lui[45].

Il solo modo che rimaneva, per chi volesse ascendere in cima alla gerarchia sociale, era il passaggio all’islam, la conversione. Le fonti in nostro possesso, però, ci rendono difficile l’analisi di questo fenomeno:

Vi era un solo modo in cui l’ebreo poteva sempre superare tutte queste difficoltà, ed era la conversione all’Islam.
Nel corso dei secoli in cui le comunità ebraiche vissero sotto il dominio musulmano, un notevole numero di ebrei abbracciò, per una ragione o per l’altra, l’islam. Le nostre informazioni circa tali conversioni sono, in genere, assai scarse[46].

E’ possibile che, in un primissimo momento, la conquista araba fosse vista dagli ebrei addirittura come un segno della vicina liberazione dei tempi messianici. In un poema troviamo l’esultanza dello scrittore, all’arrivo dei conquistatori arabi in terra d’Israele. Queste voci scompaiono presto:

Un piyyūt (poema liturgico), composto probabilmente dopo le prime vittorie arabe in Palestina ma prima della presa o di Gerusalemme, o della capitale della provincia romana, Cesarea, può servire da esempio:
Nel giorno in cui il Messia, figlio di David, verrà
da un popolo oppresso
Questi segni saranno visti nel mondo, e si manifesteranno:
Cielo e terra perderanno vigore,
e il sole e la luna saranno macchiati,
e gli abitanti della terra saranno ridotti al silenzio.
Il re dell’Occidente e il re dell’Oriente
staranno armati l’uno contro l’altro
e gli eserciti del re di Occidente terranno salda la Terra.
E un re uscirà dalla terra di Yoqtan
e i suoi eserciti si impadroniranno della Terra,
Gli abitanti del mondo saranno giudicati
e i cieli faranno piovere polvere sulla terra,
e venti si spargeranno sulla Terra.
Gog e Magog si inciteranno l’un l’altro
e accenderanno la paura nei cuori dei Gentili
e Israele sarà liberato da tutti i suoi peccati
e non sarà più tenuto lontano dalla casa di preghiera.
Benedizioni e consolazioni si diffonderanno su di loro
e saranno iscritti nel Libro della Vita.
I Re della terra di Edom non esisteranno più
e il popolo di Antiochia si ribellerà e farà pace
e Ma’uziya e Samaria saranno consolate
e Acri e Galilea otterranno misericordia.
Edomiti e Ismaele combatteranno nella vallata di Acri
finché i cavalli sprofonderanno nel sangue e nel panico.
Gaza e le sue sorelle saranno lapidate
e Ascalon e Ashod saranno colpite dal terrore[47].

Possiamo ipotizzare che, nei primissimi momenti, ci fossero alcune conversioni dall’ebraismo all’islam, visto da ebrei in difficili condizioni a motivo della diaspora come possibile compimento delle promesse bibliche. Ma ben presto le conversioni successive, stando ai dati in nostro possesso, assumono altri contorni:

Tali movimenti divennero sempre più rari. Nei secoli seguenti le ragioni più comuni per le conversioni su vasta scala, o di massa, furono la costrizione o la repressione. Talvolta un governante musulmano, in aperta sfida sia della legge che della tradizione musulmana, decretava e metteva in atto la forzata islamizzazione dei suoi sudditi ebrei, che rispondevano con la conversione, il marranesimo o l’emigrazione. Conversioni forzate di questo tipo furono relativamente rare; più comune, specialmente nel Nord Africa e nell’Iran, fu una situazione in cui gli ebrei, sottoposti a una crescente umiliazione e degradazione e senza la speranza di un mutamento, cercarono di sfuggire dai loro problemi unendosi alla maggioranza. Questo mezzo di fuga fu sempre a disposizione e facile da conseguire, eppure quello che ci sorprende non è tanto la sua frequenza, quanto la sua rarità. Il poeta e filosofo Jehuda Ha-Levi, nel suo Kuzari, parla con orgoglio di “illustri uomini fra i nostri che avrebbero potuto evitare questa degradazione con una sola parola detta chiaramente, divenire uomini liberi, e rivolgersi contro i loro oppressori, eppure non lo hanno fatto per devozione alla loro fede”...
Per un musulmano era naturale supporre che un nuovo adepto si era sentito attratto dall’evidente verità della sua fede, del resto il termine che indica un nuovo musulmano è muhtadī, letteralmente uno che ha trovato la strada per la via giusta. Per i vecchi correligionari del convertito, che lo consideravano un apostata o un rinnegato, era altrettanto naturale supporre l’esistenza di motivazioni più meschine. Le motivazioni non religiose che potevano spingere un ebreo ad adottare l’islam sono elencate dal filosofo ebreo del tredicesimo secolo Ibn Kammūna: “Costui è mosso dalla paura o dall’ambizione; o perché è costretto a pagare forti tasse, o desidera sfuggire all’umiliazione, o viene fatto prigioniero, o si innamora di una donna musulmana, o altri motivi del genere”[48].

Deve essere posto nella giusta luce l’importanza del fattore matrimoniale che è stato – ed è – sovente motivo di passaggi religiosi:

Il matrimonio, nella società medievale come in quella moderna, può essere la ragione più comune di un cambiamento di religione. Secondo la legge musulmana, un uomo musulmano può sposare una donna cristiana o ebrea; essa non ha l’obbligo di farsi musulmana, ma i suoi figli devono essere allevati secondo la religione del padre. Un non musulmano, invece, non può in nessun modo sposare una donna musulmana. La pena per un matrimonio, o per una relazione sessuale simile, è la morte. Solo attraverso la conversione un non musulmano può evitare le conseguenze di una tale relazione avvenuta nel passato, o renderne possibile una nel futuro[49].

La memoria, però, dell’origine ebraica, non era de facto cancellata con il passaggio all’Islam:

In Iran e Nord Africa, al contrario, la memoria della stirpe ebraica veniva mantenuta per molte generazioni sia dai discendenti del convertito che, più particolarmente, dai suoi vicini. Il fatto notevole è che quelli erano due territori in cui era in uso la conversione forzata[50]...
Vedi, ad esempio, il bando imposto alla associazione dei mercanti di Fez a proposito degli artigiani e mercanti musulmani discendenti da ebrei islamizzati... in L.Massignon. Alcuni governanti almohadi sottoposero perfino gli ebrei convertiti e i loro discendenti ad alcune restrizioni nell’abbigliamento e nel matrimonio misto con antiche famiglie musulmane (cfr.Hirshberg, A History of the Jews in North Africa)[51].

L’anno che segna, almeno ad un livello formale, la svolta, con l’introduzione di una legislazione che non accoglie più le differenze religiose come norma dello Stato, è, nell’Impero Ottomano, il 1856. Non bisogna mai dimenticare che il mondo arabo perse la sua indipendenza politica con il formarsi e l’espandersi dell’Islam turco, che dominò tutta la compagine araba, fino alla fine della I guerra mondiale. Di fatto, dal XVI al XIX secolo, parlare nell’area mediterranea di legislazione ed atteggiamenti interreligiosi islamici equivale a considerare le posizioni dell’Impero turco su tali questioni:

Infine, nel grande firmano di riforma del febbraio 1856, le antiche restrizioni imposte ai non musulmani furono abrogate e i sudditi dello stato ottomano, senza distinzione di religione, furono dichiarati formalmente uguali[52].

Molto è stato scritto sui reciproci influssi fra le tradizioni islamiche, cristiane ed ebraiche, nel periodo della Spagna islamica, ma lo stesso discorso vale per le maggioranze – poi minoranze cristiane - nelle aree via via occupate dagli eserciti islamici:

Tutta la questione dell’influenza ebraica o, in questo senso, cristiana o di altre influenze estranee sull’islam è ovviamente un problema per gli studiosi ebrei ed altri studiosi non musulmani; non è un problema per gli studiosi musulmani, per i quali una simile questione semplicemente non si pone. Secondo l’ottica musulmana, Maometto è il Profeta di Dio, e il Corano è un libro divino in senso più letterale e più preciso di quanto lo siano nella percezione ebraica e cristiana il Vecchio e il Nuovo Testamento. Secondo quella che è divenuta la dottrina sunnita accettata, il Corano è eterno e non creato, coesistente con Dio da un’eternità all’altra. Il testo coranico ha quindi una letterale santità divina che non ha paralleli nelle normali forme dell’ebraismo e del cristianesimo. Suggerire l’esistenza di prestiti o di influenze è quindi, dal punto di vista musulmano, una blasfema assurdità. Può forse Dio prendere in prestito?[53]

Questo è vero fin dall’origine dello stabilirsi dell’islam al di fuori della penisola arabica:

In generale, quando un’influenza o un elemento ebraico viene riconosciuto come tale, per questa ragione viene subito rifiutato. Se viene accettato come parte del vero islam, allora per definizione non è ebraico, ma di origine divina. Se gli ebrei hanno qualcosa di simile, questo è perché anch’essi furono in antico i destinatari della rivelazione divina...

Una storia narrata dal grande storico del nono secolo Tabarī, che descrive una visita del califfo ‘Umar alla città di Gerusalemme conquistata di recente, illustra bene questo punto:
Quando ‘Umar giunse... a Aelia... disse, “Portatemi Ka’b”. Ka’b fu portato da lui, e ‘Umar gli chiese, “Dove pensi che dovremmo porre il luogo di preghiera?”.
Sulla Rocca” rispose Ka’b.
Per Dio, Ka’b” disse ‘Umar “stai andando dietro l’ebraismo. Ho visto che ti sei tolto i sandali”. “Desideravo sentire la terra con i piedi nudi” disse Ka’b. “Ti ho visto” disse ‘Umar, “Ma no... noi non siamo stati comandati intorno alla Rocca, ma siamo stati comandati intorno alla Ka’ba [alla Mecca].
Ka’b al-Ahbār era un ben noto convertito all’islam e una figura importante spesso citata in relazione a quante sono viste come infiltrazioni giudaizzanti nella vera dottrina islamica. Il nucleo della storia è evidentemente il fatto che la santità di Gerusalemme è una credenza ebraica, non musulmana, che Ka’b manteneva erroneamente nonostante la sua conversione, e che solo la Mecca è la direzione della preghiera e il luogo di pellegrinaggio per i musulmani...

Un altro esempio è l’istituzione del venerdì come giorno di riposo musulmano, chiaramente una copia del sabato ebraico e della domenica cristiana. Come i cristiani vollero distinguersi dai loro predecessori ebrei spostando il giorno di riposo dal sabato alla domenica, così anche i musulmani vollero distinguersi da ambedue i loro predecessori scegliendo il venerdì. Ma essi si distinsero anche sotto un altro importante aspetto. Non solo scelsero un giorno diverso della settimana; trasformarono anche l’intero concetto della natura del giorno festivo. Il “giorno di riposo” musulmano è in primo luogo un giorno di preghiera pubblica, come indica il nome arabo dato al venerdì, yawm al-jum’a (il giorno di riunione). In epoca classica, il venerdì non era un giorno di riposo, e l’idea che potesse essere considerato tale, benché spesso avanzata, era condannata dalla maggior parte delle autorità musulmane come una blasfema imitazione delle pratiche ebraiche e cristiane. Con l’andar del tempo, l’attrazione del giorno di riposo prevalse sui dubbi teologici circa la sua origine, e al giorno d’oggi la maggior parte degli stati musulmani ha adottato quella che è ormai una consuetudine universale e istituito un giorno settimanale di riposo[54].

Nondimeno, la vita è sempre più complessa e viva delle impostazioni teoriche. Una osmosi non poté non realizzarsi, consentendo la creazione di scambi molteplici, nelle diverse direzioni:

La simbiosi medievale fra ebrei ed arabi è, sotto questo aspetto, di gran lunga più simile al tipo di vita della moderna Europa occidentale e dell’America, che alla situazione degli imperi romano, ottomano e russo. Come Goitein ha rilevato, questa simbiosi ha prodotto qualcosa che non era semplicemente una cultura ebraica in lingua araba. Si trattava piuttosto di una cultura giudeo-araba, o meglio giudeo-islamica[55].

Vogliamo ancora considerare alcune attitudini relative al concetto di martirio. Si misurarono, infatti, dei confronti fra le diverse concezioni della testimonianza della fede, fino all’effusione del sangue, nell’incontro fra le tre grandi religioni. L’Islam si orientò a prevedere la possibilità di dissimulare la propria fede, se una pubblica professione avesse comportato il pericolo della vita:

Tuttavia anche l’islam conosce la nozione di martirio, che è connotata da una parola dello stesso significato. Il termine islamico che denota il martire è shahīd, da una radice araba che significa “testimoniare”, che corrisponde quindi al greco martyros. La parola araba normale per indicare un testimone nel senso legale del termine è shahīd, dalla stessa radice. Ma uno shahīd musulmano è qualcosa di diverso da un martire ebreo o cristiano. Lo shahīd è qualcuno che muore in battaglia, combattendo la guerra santa in difesa dell’islam. Dato che la guerra santa è un dovere religioso che incombe sui credenti, coloro che adempiono a tale dovere e vengono uccisi nel farlo, sono considerati martiri nel senso tecnico islamico del termine, e diventano degni della ricompensa del martirio. La nozione giudeo-cristiana del martirio – soffrire e testimoniare in nome della propria fede piuttosto che rinunciarvi – è del tutto sconosciuta all’islam. Il destino della tribù ebraica dei Banū Qurayza di Medina, che preferirono la morte all’abiura della loro fede, fa parte della biografia semi-sacra del Profeta, ed è narrata con un rispetto che a momenti sconfina nell’ammirazione. Ma questo episodio non era visto dai musulmani come un esempio da seguire, se non per un’altra ragione, perché nei primi secoli della formazione della storia islamica la questione non si presentò mai e i musulmani non furono quindi messi alla prova. Nelle rare occasioni in cui i musulmani furono soggetti a limitazioni religiose, ciò accadde all’interno e non all’esterno della fede, e fu causato dal tentativo di una o dell’altra scuola di dottrina musulmana di imporre la propria via alle altre. In una situazione simile era naturale assumere una posizione più moderata di condiscendenza, e così nacque e fu ampiamente accettata la dottrina secondo la quale era permesso celare la propria vera fede a patto di conservarla nel proprio cuore e nella propria mente, che era ragionevole adeguarsi alla dottrina prevalente al fine di sopravvivere, in modo che al momento opportuno, quando le circostanze fossero divenute più favorevoli, ognuno potesse riprendere e proclamare la propria fede[56].

Estremamente interessante risulta il confronto con altre aree del mondo di allora, dove, così ci appare, il confronto delle idee era ritenuto un’esigenza di fede da entrambe le parti in conflitto:

Questa risposta alla persecuzione è ovviamente nota nella storia ebraica ed è conosciuta come marranesimo, la pratica dei marrani spagnoli e portoghesi, che finsero di convertirsi al cattolicesimo ma mantennero la loro fede ebraica e, in qualche misura, praticarono il culto in segreto fino a che, con il passare degli anni e il mutamento della loro sede, trovarono le condizioni che resero loro possibile tornare apertamente alla loro fede. Il fenomeno del marranesimo è limitato, fatto questo molto significativo, ai paesi di cultura o influenza islamica. L’esempio più noto è quello degli ebrei della Spagna e del Portogallo dopo l’espulsione. Altri casi si sono manifestati in paesi islamici dal Nord Africa all’Iran e all’Asia Centrale. Il fenomeno è del tutto sconosciuto fra gli ebrei dei paesi cristiani, che subirono una persecuzione incomparabilmente superiore, eppure – in strano accordo con i loro persecutori – alla sottomissione preferirono la morte o l’esilio.
Alcuni autori medievali, fra cui il grande Maimonide, tentarono anche di fornire una giustificazione teorica a questo contrasto e argomentarono, su basi teologiche, che mentre un ebreo deve piuttosto subire la tortura e la morte che pronunciare un atto di fede cristiana, egli può fingere di convertirsi all’islam al fine di sopravvivere. La differenza significativa era che, mentre gli ebrei riconoscevano l’islam come una religione strettamente monoteista dello stesso tipo della loro, avevano alcuni dubbi, condivisi dai musulmani, circa il cristianesimo. Per uno che non credeva in nessuna delle due fedi, era meno grave testimoniare che Maometto era il Profeta di Dio piuttosto che affermare che Gesù era il Figlio di Dio. Queste distinzioni, pur essendo basate senza dubbio su una imperfetta comprensione della dottrina cristiana, erano nondimeno importanti nella formazione dell’atteggiamento interreligioso[57].

Globalmente non ci fu un grande interesse del mondo islamico medioevale, nei confronti delle posizioni ebraiche:

In genere i polemisti musulmani prestano scarsa attenzione alla presenza ebraica, relativamente poco significativa. Nella misura in cui si degnano di mettere in discussione le religioni superate, si preoccupano molto di più dei cristiani che, in quanto portatori di una religione che compete nel proselitismo e dominatori di un impero universale rivale, offrivano una seria alternativa e quindi una potenziale minaccia all’ordinamento musulmano e all’ecumene islamica. Gli ebrei non costituivano una minaccia politica per l’ordine del mondo islamico, né tanto meno una sfida religiosa alla fede islamica; inoltre, diversamente dai cristiani, gli ebrei non rivaleggiavano con i musulmani per conquistare la fedeltà dei pagani ancora non convertiti. Nonostante la condanna degli ebrei e dell’ebraismo contenuta nel Corano, oltre che nel commento e nel hadīt, la polemica antiebraica fu rara, e quando si manifestò fu in genere opera di ebrei convertiti all’islam desiderosi di giustificare la loro conversione, e di fornire ai loro nuovi correligionari fatti e argomenti da usare contro i loro vecchi confratelli[58].

Vi sono delle eccezioni. Ad esempio, il teologo del decimo secolo al-Bāqillānī, da Bagdad, in un’opera che difende la causa musulmana contro altre religioni e filosofie, inserisce una discussione sull’ebraismo. La sua trattazione delle Scritture e delle credenze ebraiche è succinta ma bene informata. Essa è ugualmente scevra da invettive, e al contrario di tono cortese, perfino rispettoso. In un’epoca in cui le differenze teologiche all’interno di una religione e fra religioni diverse davano in genere adito a forti passioni, espresse in un linguaggio acceso, una simile moderazione è ammirevole. Quello che forse è ancora più notevole è che in epoca classica vi è un solo attacco grave contro l’ebraismo, scritto da un autore importante, che sia giunto fino a noi. E’ il trattato di uno studioso, l’eresiologo e letterato Ibn Hazm (994-1064), una figura dominante nella storia intellettuale della Spagna musulmana, noto sia per una graziosa operetta sull’amore cortese e poetico, che per un imponente trattato sulle religioni del mondo. Quest’ultimo mostra un atteggiamento duro e intollerante non solo nei confronti delle religioni non musulmane, ma anche verso quelle forme dell’islam che differivano dalla sua. In aggiunta, Ibn Hazm scrisse un trattato antiebraico, come refutazione a un pamphlet scritto presumibilmente da Samuel Ibn Nagrella, in cui l’autore attaccava l’islam. Ibn Hazm non aveva visto il trattato di Samuel, se mai esso era esistito, e quindi lo refutava sulla base di una refutazione musulmana precedente. Il libro è di contenuto e di tono fortemente ostile e certamente non era estraneo al risentimento di Ibn Hazm nei confronti di Samuel Ibn Nagrella (993-1056), che ebbe una carriera di grande successo come uomo politico e generale al servizio di un governante musulmano, oltre che come studioso, poeta, e capo della comunità ebraica. E’ difficile dire quanta influenza la diatriba di Ibn Hazm abbia avuto sull’opinione medievale musulmana. E’ certamente significativo che questa sia l’unica opera del genere a noi nota[59].

Solo presso alcune posizioni minoritarie islamiche, come quelle scettiche o quelle sufiche, possiamo rilevare una diversa considerazione dell’ebraismo:

Là dove troviamo un atteggiamento più positivo fra gli autori musulmani che discutono di ebrei o di ebraismo, è nel contesto del pensiero razionalista o addirittura scettico, talvolta in quello del misticismo sufico. Sia per lo scettico che per il mistico, la differenza fra le religioni non era molto importante. Per il primo, erano tutte parimenti false, per l’altro pressappoco ugualmente vere. Più in generale, in mezzo alla classe media urbana, in epoche e luoghi di elevata civiltà, prevalse un atteggiamento più tollerante e liberale, che trova espressione nelle fonti letterarie. La diffusione del relativismo razionalista e del panteismo mistico senza dubbio contribuirono entrambe a questo risultato[60].

Poca attenzione troviamo nel mondo islamico medioevale, e così anche in quello andaluso, nei riguardi dell’approfondimenti della storia e della teologia ebraica, sia essa biblica che post-biblica. L’apparente paradosso – non sono, infatti, i profeti precedenti a Maometto descritti ben più ampiamente nelle Sacre Scritture di quanto lo siano nel Corano? – si scioglie a partire dalla considerazione che, per la posizione islamica, i testi biblici sono testi corrotti, che non contengono testimonianze utili ad approfondire la vera fede e, perciò, non meritano considerazione. Tutto ciò che era importante sapere su Abramo e sugli altri profeti era contenuto nel Corano, secondo la corrente ortodossia islamica. Solo rari autori islamici medioevali, dedicarono così la loro attenzione al mondo biblico:

Gli antichi eroi e profeti ebrei ottennero, per così dire, il diritto di entrare a far parte del patrimonio islamico attraverso il Corano, e alcuni studiosi musulmani si spinsero tanto oltre da ricercare maggiori informazioni da altre fonti, incluse quelle ebraiche, per integrare le brevi e talvolta oscure allusioni coraniche. Una simile ricerca, che comprendeva lo studio di Scritture abrogate e di religioni superate, richiese un certo coraggio intellettuale, e furono quindi pochi coloro che osarono intraprenderla. Furono tuttavia in numero tale da introdurre una certa quantità di informazioni bibliche e rabbiniche nel corpus della cultura islamica.
Mentre le antiche storie universali comprendevano generalmente qualche racconto dei profeti precedenti a Maometto, bisogna giungere fino al tardo medioevo per trovare resoconti comparati di storia ebraica. Fra le numerose storie universali prodotte da autori arabi e persiani nel tardo medioevo, due opere sono particolarmente importanti. Rashīd al-Dīn (1247-1318), anch’egli un ebreo convertito all’islam, incluse nella sua storia universale un resoconto della “storia dei figli di Israele”, basato sul Vecchio Testamento e integrato, per il periodo post-biblico, da materiale apocrifo non identificato. Diversamente da molti altri autori musulmani di storia ebraica antica, Rashīd al-Dīn non conclude il suo racconto con la distruzione del Secondo Tempio nell’anno 70 d.C., ma allude brevemente alla rivolta di Bar Kokhba e alla sua repressione: “Poi venne Adriano e distrusse questo luogo e prese prigioniera la popolazione con tutti i suoi beni”. Termina quindi il racconto con una enumerazione degli imperatori bizantini e romani che dominarono la Palestina fino alla conquista araba. Un altro grande storico islamico, Ibn Khaldūn (1332-1406), inserisce un racconto sul popolo di Israele nel suo resoconto di storia generale; esso è tratto da una traduzione araba, fatta da un ebreo yemenita, della Cronaca ebraica di Josippon, quest’ultima basata liberamente sull’opera di Giuseppe Flavio. Alcuni dei manoscritti della cronaca di Rashīd al-Dīn contengono illustrazioni, che hanno lo scopo di rappresentare visivamente alcuni episodi della storia degli antichi ebrei. Rappresentazioni pittoriche degli ebrei, come pure di altri elementi etnici e religiosi specifici, sono estremamente rare. In generale, tuttavia, gli ebrei ricevono scarsa attenzione da parte degli autori musulmani, sia storici che teologi, e se i commenti positivi sono scarsi, altrettanto rari sono gli attacchi[61].

B.Lewis sintetizza la sua articolata esposizione, mostrando come una seria analisi storica deve distinguere i differenti periodi dell’Islam arabo e differenziarli, comunque, dal successivo dominio turco ed ottomano:

Le semplificate e idealizzate narrazioni del diciannovesimo secolo sulla storia degli ebrei in Spagna presentano un’immagine in bianco e nero dell’intolleranza cristiana e della tolleranza musulmana, con gli ebrei che fuggono dalla prima per rifugiarsi nella seconda. Non fu sempre così. Durante i secoli in cui nella penisola iberica furono presenti sia il potere musulmano che quello cristiano, vi furono tempi e luoghi in cui, come nel luogo di nascita di Maimonide, furono i musulmani a perseguitare gli ebrei e i cristiani a offrire asilo. Nel Nord Africa da una parte, e in Iran e Asia Centrale dall’altra, il livello della vita ebraica dal tardo medioevo in poi fu caratterizzato da una crescente povertà, miseria e degradazione. Solo nelle terre centrali del Medio Oriente, sotto il dominio dei sultani mamelucchi e ancor di più sotto il dominio dell’impero Ottomano, gli ebrei furono in grado di conservare una posizione e una certa dignità, e perfino di incamminarsi verso una nuova era di progresso[62].

6. Splendore e censura degli uomini di cultura del mondo andaluso

Il mondo andaluso, in costante dialogo con quello abbasside di Baghdad e con quello del delta del Nilo, conobbe una grande fecondità intellettuale. Il suo vigore culturale fu spento non solo per le pressioni dei regni spagnoli che operarono la reconquista, ma anche dal predominio turco sul mondo arabo, che depauperò in maniera decisiva la ricerca scientifica e letteraria araba. I cinque secoli di dominio ottomano su tutte le coste del Mediterraneo, ad eccezione di quelle europee, fecero sì che il mondo arabo si presentasse, agli inizi del ‘900, con un notevole ritardo di sviluppo culturale rispetto alle altre nazioni del bacino del Mediterraneo.

Da Henry Corbin[63], Storia della filosofia islamica, Adelphi, 1991, pagg. 250-251, ecco una breve sintesi della vita del grande filosofo Averroè:

Pronunciando il nome di Averroè, si evoca certo una potente personalità e un autentico filosofo, di cui tutti in Occidente hanno, bene o male, sentito parlare. Il guaio è stato che l’ottica occidentale abbia, in questo caso, mancato di prospettiva. Come abbiamo già deplorato, è stato detto e stradetto che Averroè era il più grande nome, il più eminente rappresentante della cosiddetta “filosofia araba”, che con lui essa aveva toccato il suo apogeo e la sua fine. Si perdeva in tal modo di vista quello che avveniva intanto in Oriente, dove l’opera di Averroè passò invece pressoché inosservata. Né Nasîr Tûsî, né Mîr Dâmâd, né Mollâ Sadrâ, né Hâdî Sabzavârî hanno certo mai sospettato l’importanza e il significato che i nostri manuali avrebbero attribuito alla polemica Averroè-Ghazâlî. E se questo fosse stato spiegato loro, avrebbe certamente suscitato il loro stupore, come oggi suscita lo stupore dei loro successori. Abû’l Walîd Mohammad ibn Ahmad ibn Mohammad ibn Roshd (Aven Roshd, diventato Averroës per i Latini) nacque a Cordova nel 520/1126. Suo padre, come il suo bisnonno, era stato un giurista celebre, investito della dignità di giudice supremo (qâdî al-qodât), oltre che personaggio politico influente. Il giovane Averroè ricevette, naturalmente, una formazione completa: teologia e diritto (fiqh), poesia, medicina, matematica, astronomia e filosofia. Nel 548/1153 è in Marocco; nel 565/1169-70 lo ritroviamo qâdî a Siviglia. In quell’anno egli porta a termine il suo Commento al Trattato degli animali e il Commento medio alla Fisica; fu un periodo della sua vita di intensa produttività. Nel 570/1174 termina i Commenti medi alla Retorica e alla Metafisica e cade gravemente malato. Guarito, riprende i viaggi cui lo obbligava la sua funzione. Nel 574/1178 si trova in Marocco, donde è datato il trattato che venne poi tradotto in latino con il titolo di De substantia orbis, e nel 578/1182 il sovrano almohade Abû Ya’qûb Yûsof (al quale egli era stato presentato da Ibn Tofayl) lo nomina suo medico, e gli conferisce in seguito la dignità di qâdî di Cordova. Averroè gode dello stesso favore anche presso il successore del sovrano, Abû Yûsof Ya’ qûb al-Mansûr. Ma già a quell’epoca, benché egli osservi esteriormente tutte le prescrizioni della sharî’at, le sue opinioni filosofiche gli attirano i sospetti dei dottori della Legge. Sembra che avanzando negli anni Averroè si sia ritirato dagli affari pubblici per dedicarsi interamente ai suoi studi filosofici. I suoi nemici riuscirono tuttavia a rovinarlo agli occhi di al-Mansûr, che pure, quando egli era passato per Cordova nel 1195, lo aveva colmato di onori. Egli venne relegato sotto sorveglianza a Lucena (Elisâna), vicino a Cordova, dove dovette subire gli affronti, le satire, gli attacchi degli ‘ortodossi’, tanto tra i teologi che fra il popolino. Se è vero che al-Mansûr lo richiamò in Marocco non fu certo per rendergli un favore, poiché fu più o meno in stato di reclusione che il filosofo morì, senza aver rivisto l’Andalusia, il 9 Safar 595/10 dicembre 1198 all’età di settantadue anni. I suoi resti mortali furono trasferiti a Cordova. Ibn’Arabî, che giovanissimo aveva conosciuto Averroè, assisté ai suoi funerali, e ce ne ha lasciato una descrizione commovente.

Henry Corbin (Storia della filosofia islamica, pagg. 250-251) rileva come la conoscenza reciproca che i grandi pensatori - arabi, ebrei, latini - del tempo avevano l’uno dell’altro permise la sopravvivenza delle loro opere, anche quando i diversi governi censuravano i propri pensatori:

Osserveremo con S.Munk che, se buona parte delle opere di Averroè ci sono pervenute, lo dobbiamo ai filosofi ebrei. Le copie arabe ne furono sempre assai rare, poiché l’accanimento con cui gli Almohadi perseguitarono la filosofia e i filosofi fu tale da impedirne la moltiplicazione e la diffusione. Invece i dotti rabbini della Spagna cristiana e della Provenza le raccolsero, ne redassero versioni in ebraico, anzi copie dell’originale arabo in caratteri ebraici. Quanto alle origini dell’averroismo latino, esse risalgono alle traduzioni latine dei commenti di Averroè ad Aristotele redatte da Michele Scoto, probabilmente durante il suo soggiorno a Palermo (1228-1235) in qualità di astrologo alla corte dell’imperatore Federico II di Hohenstaufen.

Fernand Van Steenberghen, ne La filosofia nel XIII secolo, Vita e pensiero, Milano, 1972, pag. 31, mostra come la “dottrina della doppia verità” che fu rimproverata ad Averroé non mirava a dichiarare falsa la teologia – ovviamente islamica – in favore della filosofia, ma piuttosto ad affermare diversi approcci convergenti alla verità, determinati da una riflessione sulle diverse possibilità culturali degli uomini: filosofi, teologi, semplici fedeli. Certo il suo approccio mirava ad affermare la dignità ed il rispetto dovuto alla ricerca filosofica:

Ibn Roschd (Averroè), morto nel 1198, consacra il trionfo di Aristotele presso gli arabi. Egli professa per il filosofo un’ammirazione vicina al culto. Oltre ai suoi scritti originali, egli ha lasciato tre serie di commenti sui libri di Aristotele, commenti che eserciteranno un influsso profondo sull’esegesi peripatetica presso i latini e che gli varranno il titolo di Commentator.
Bisogna ricordare in primo luogo gli sforzi compiuti da Averroè per enunciare in termini precisi i rapporti tra la filosofia e la religione. Il problema si era posto da lungo tempo per i filosofi arabi, perché i teologi dell’Islam non avevano assistito senza reagire ai progressi della speculazione razionale. Averroè distingue tre specie di uomini: gli uomini di dimostrazione o gli spiriti scientifici: sono i filosofi; gli uomini di dialettica, che si contentano di argomenti probabili: sono i teologi; gli uomini di esortazione, che vivono d’immagini e di sentimenti: sono i semplici fedeli. Il Corano, che è la verità stessa poiché viene da Dio, si rivolge a tutti gli uomini, ma ogni categoria di anime deve comprenderlo e interpretarlo al suo proprio livello; i filosofi soli vanno al di là del senso esteriore, superficiale e simbolico, per penetrare il senso interiore e nascosto del testo. Bisogna mantenere la distinzione rigorosa di questi tre ordini e non mischiarli con metodi d’insegnamento ibridi. Averroè riesce così ad assicurare l’autonomia della filosofia, che rappresenta la verità assoluta e l’interpretazione sapiente del Corano; essa è indipendente dalla teologia, sapere nel quale domina l’interpretazione verosimile, e dalla fede popolare, che è al livello dei semplici. Si vede come i dottori cristiani potranno denunciare in Averroè il padre del razionalismo antireligioso.

E’ evidente nel suo pensiero la dipendenza da Aristotele. Vogliamo qui accennare all’interessantissima questione delle fonti della filosofia medioevale, che ci porta a misurarci con l’evidente attenzione che i filosofi arabi di allora prestavano alla cultura greca classica.
Fernand Van Steenberghen, ne La filosofia nel XIII secolo, pagg. 29-30, riflette sulla relazione che viene ad intrecciarsi fra l’aspetto rivelativo religioso ed il portato culturale del passato. Inoltre, per un errore di attribuzione dei testi antichi, gli influssi platonici ed aristotelici vengono a mescolarsi:

Nel mondo musulmano e nel mondo ebraico, il pensiero filosofico si sviluppa in seno ad una civiltà profondamente religiosa, e i filosofi devono tener conto, molto più che non presso i greci, del fatto che esiste una religione che comporta una rivelazione, un’autorità ed un’ortodossia. Questa situazione, quasi sconosciuta ai greci ed ai romani, determina fatti nuovi: influenze reciproche del pensiero razionale e delle credenza religiose, conflitti dottrinali, ricerca di un equilibrio, d’un atteggiamento conciliante: in breve, il problema dei rapporti tra la ragione e la fede, e di conseguenza quello dei rapporti tra il sapere filosofico e la scienza religiosa, si pongono nell’islamismo e nel giudaismo così come si pongono nel cristianesimo. La filosofia araba è dominata da due grandi figure: Avicenna e Averroè. Il sistema d’Ibn Sina (in latino Avicenna), morto nel 1037, è una combinazione dell’aristotelismo e del neoplatonismo: la logica e la fisica d’Aristotele inquadrate in una metafisica plotiniana. Questo miscuglio di due filosofie tanto opposte nella loro ispirazione e nel loro metodo è uno dei caratteri comuni a quasi tutti i pensatori arabi ed ebrei. Si spiega con la necessità in cui ci si è trovati di colmare, con l’aiuto del neoplatonismo, le lacune della metafisica d’Aristotele e della sua teologia; ma è stato singolarmente facilitato da un fatto apparentemente banale di storia letteraria: due scritti neoplatonici, di cui il primo è tratto da Plotino e il secondo da Proclo, si erano infiltrati, presso gli arabi, nel catalogo delle opere d’Aristotele: il primo è conosciuto sotto il nome di Teologia di Aristotele e il secondo è il celebre Liber de causis; i filosofi arabi ed ebrei furono così indotti ad attribuire ad Aristotele i temi più originali del neoplatonismo. L’origine di quelle due pseudoepigrafi è ancora molto oscura e tale resterà forse per sempre; se si considera l’interesse dottrinale dell’operazione e la curiosa convergenza delle due false attribuzioni, è permesso dubitare che si tratti d’un incidente di trasmissione letteraria: si penserà piuttosto ad una manovra cosciente, destinata a guadagnare più sicuramente alle idee neoplatoniche dei discepoli ferventi dello Stagirita.

Il regista egiziano Youssef Chahine, con il suo film Il destino (Al Massir) sulla vicenda di Averroé ha voluto presentarlo come un testimone ante litteram della libera ricerca intellettuale, pur fedele all’Islam, che si oppone all’Islam integralista.

Giuseppe Laras, nel suo volume Mosè Maimonide, Morcelliana, 1998, p.11-12, ci presenta, invece, la storia del filosofo ebreo Maimonide, originario di Cordoba, ma costretto dal potere politico e religioso ad allontanarsi dalla città:

Mosè figlio di Maimon (in ebraico: Moshè ben Maimon; in arabo: Abu Amram ibn Maimun ibn Abd-Allah), noto, più comunemente, come RaMBaM (dalle iniziali delle parole: Rabbi Moshè ben Maimon) e Maimonide, nacque a Cordova nel 1138.
Dal padre Maimon, giudice del tribunale rabbinico, matematico e astronomo, fu iniziato allo studio della Bibbia, del Talmud e dell’astronomia, mentre, da maestri arabi apprese la storia naturale, la medicina e la filosofia.
Caduta Cordova, nel 1148, nelle mani degli Almohadi, la famiglia, per sfuggire alla persecuzione religiosa che ne era seguita e che poneva, come alternativa, l’accettazione dell’Islam o l’esilio, dovette abbandonare la città, iniziando così una lunga peregrinazione attraverso numerosi centri della Spagna, anche cristiana, fino a che, intorno al 1160, riparò a Fez, in Marocco, nonostante che anche in quei luoghi dominassero gli Almohadi, fautori di una politica repressiva verso ebrei e cristiani. Il periodo di Fez, anche se operoso dal punto di vista degli studi per il giovane Mosè, non fu caratterizzato da serenità: dato il clima intollerante e persecutorio che vi dominava, stando ad una fonte araba, la famiglia dovette affrontare un’esperienza di cripto-Giudaismo. Trascorsi pochi anni, Maimone i suoi familiari, caduti in sospetto delle autorità musulmane, dovettero abbandonare in fretta il Marocco. Imbarcatisi, nel 1165, per la Palestina, giunsero, dopo un mese di navigazione, ad Acri. Trascorsi alcuni mesi in Palestina, dove la condizione degli ebrei si rivelava difficile e precaria, anche in conseguenza della II Crociata, dopo aver visitato Gerusalemme e Hebron, si diressero in Egitto, stabilendosi a Fostat, antico quartiere del Cairo.
Poco dopo l’arrivo in Egitto, due disgrazie colpirono Mosè: la morte del padre e quella del fratello Davide, perito in un naufragio lungo le coste dell’India. Venuta meno, con la morte del fratello, mercante in pietre preziose, l’unica fonte di sostentamento della famiglia, Mosè si vide costretto a mettere a profitto, dopo averli ripresi e perfezionati, gli studi di medicina, iniziati in anni giovanili.
Dopo un periodo iniziale difficile, riuscì a poco a poco ad affermarsi come medico e a guadagnarsi fama crescente, fino a divenire, nel 1185, uno dei medici ufficiali della famiglia di Saladino e dei successivi principi. Nominato, per la prima volta, nel 1171, Naghid (Capo degli ebrei d’Egitto), riottenne successivamente tale carica, detenendola fino alla morte. Sposatosi due volte, ebbe, dalla seconda unione, l’unico figlio maschio: Abramo.
La sua morte, avvenuta nel dicembre del 1204, fu seguita da imponenti manifestazioni di cordoglio in tutto il mondo ebraico.

B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pp.102-105, ci fornisce ulteriori indicazioni sulla visione dell’Islam di Maimonide, segnata dalla conversione forzata che dovette subire in giovane età. Il problema dei conversos e dei moriscos ha qui i suoi precedenti. La decisione di un convertito all’islam dall’ebraismo o dal cristianesimo, che decidesse di tornare poi alla sua fede precedente, era punita con la morte:

Occasionalmente furono fatte eccezioni alla regola per cui la pena per l’apostasia era la morte. Un caso famoso fu quello di Maimonide, che fu costretto a convertirsi all’islam nel paese di nascita, in Spagna, e tornò all’ebraismo quando fu in grado di fuggire a oriente. Un giorno, quando era all’apice del potere e della notorietà al Cairo, Maimonide fu riconosciuto da un compatriota musulmano che sapeva della sua precedente conversione e lo denunciò per apostasia dall’Islam, richiedendo la pena di morte. Fortunatamente per Maimonide, il fatto fu risaputo dal qādī al-Fādil, suo amico e padrone. Il qādī sentenziò che, dato che la conversione di Maimonide all’islam, avvenuta a Cordova, era stata ottenuta con la forza, non era valida dal punto di vista legale e religioso, e il suo ritorno all’ebraismo non costituiva quindi apostasia.
Non tutti gli apostati riconosciuti tali furono altrettanto fortunati. Come i marrani spagnoli che fuggirono dalla Spagna cristiana verso la Turchia o il Marocco musulmano per poter tornare all’ebraismo, così gli ebrei convertiti sotto il dominio musulmano, se cambiavano idea, dovevano abbandonare i paesi dell’islam e recarsi in paesi cristiani. Evidentemente né i musulmani né i cristiani avevano nulla da obiettare nel caso in cui gli ebrei abiuravano la religione rivale...

Per coloro che restavano ebrei, c’era un lato oscuro e un lato luminoso nella vita del dhimmī sotto il dominio dell’islam. “E li colpì l’abiezione e la miseria e incorsero nell’ira di Dio” dice il Corano (II, 61) parlando degli ebrei. Di tanto in tanto i capi musulmani, e più spesso la popolazione musulmana, ritenne necessario rimettere in vigore questa condizione, quando pareva che gli ebrei se ne stessero liberando. In generale ciò che dovevano temere non era la violenza, né la persecuzione o l’espulsione, ma piccole molestie, umiliazioni meschine, invettive e insulti, oltre che una insicurezza cronica. All’epoca delle Crociate e dopo, vi fu un notevole peggioramento nella condizione degli ebrei, come in quella di altre minoranze religiose. Il medico e filosofo Maimonide, le cui opere scientifiche in arabo e le cui opere di cultura religiosa ebraica in arabo e in ebraico sono fra i maggiori prodotti della simbiosi arabo-ebraica, era stato lui stesso vittima della nuova intolleranza. Fu quindi basandosi sull’esperienza personale, oltre che per motivi di preoccupazione religiosa, che ritenne opportuno inviare una lettera di consigli agli ebrei dello Yemen nel 1172, quando anch’essi stavano affrontando il problema della conversione forzata. Vi è uno stridente contrasto fra la lettera inviata da Maimonide al suo traduttore dall’ebraico in Europa, in cui parla della ricchezza della lingua araba e della superiorità della scienza araba, e la lettera inviata agli ebrei perseguitati nello Yemen, in cui esprime amaro rincrescimento per la condizione di avvilimento degli ebrei sotto il dominio musulmano: “Voi sapete, fratelli miei, che a causa dei nostri peccati Dio ci ha gettati in mezzo a questo popolo, la nazione di Ismaele, che ci perseguita duramente, e che escogita tutti i modi per farci del male e avvilirci… Nessuna nazione ha mai fatto tanto male a Israele. Nessuna l’ha superata nell’avvilirci e umiliarci. Nessuna è stata capace di ridurci nel modo in cui questa ha fatto”. Queste critiche, scritte senza dubbio sotto la spinta delle sue stesse esperienze in Spagna e in Marocco, risvegliate dalle recenti notizie provenienti dall’Arabia meridionale, non possono essere accettate come un’esatta immagine della situazione generale. La posizione stessa di Maimonide, il suo orgoglio e il suo successo come medico di corte e capo comunitario al Cairo, attestano il contrario. Ma le sue osservazioni contengono certamente qualche elemento di verità.

7. Traduzioni dal greco, all’arabo, all’ebraico, al latino, degli antichi testi classici

Da numerosi specialisti è stata affrontata la questione del passaggio dei testi classici dal mondo greco all’Occidente medioevale, per la mediazione del mondo culturale andaluso. Questa vicenda indica, da un lato, il grande interesse di uomini di cultura araba di quel tempo per l’antichità greca, e per la filosofia in specie, e, dall’altro, mostra l’apertura simmetrica del mondo medioevale europeo ai portati della cultura araba ed ebraica del tempo.

Fernand Van Steenberghen, ne La filosofia nel XIII secolo, Vita e pensiero, Milano, 1972, pagg. 67-69, uno dei grandi studiosi delle fonti della filosofia medioevale, così afferma:

Una buona parte dei Libri naturales è stata tradotta dall’arabo da Gerardo di Cremona († 1187): la Fisica, il Trattato della generazione, il Trattato del cielo, i libri I-II-III del Trattato delle meteore...
Bisogna ancora menzionare qui la pseudoepigrafe aristotelica conosciuta sotto il nome di Liber de causis e chiamata anche Liber Aristotelis de expositione bonitatis purae. Questo opuscolo è formato di tesi estratte dalla Institutio theologiae di Proclo e accompagnate da dimostrazioni come i teoremi di Euclide. Secondo il padre Bédoret, l’autore di quel piccolo trattato è probabilmente il filosofo arabo Alfarabi, morto nel 949 o 950. Appoggiandosi sulla testimonianza di Alberto Magno e di due manoscritti, il padre Théry ed il padre Alonso hanno attribuito l’opuscolo ad un traduttore ebreo di Toledo, David, il collaboratore di Domenico Gundisalvi. Il padre Saffrey ritiene che questi autori esagerino la parte di David, al quale si dovrebbe solamente un lavoro di compilazione: David avrebbe estratto gli assiomi dalla traduzione araba di Proclo e vi avrebbe aggiunto i commenti ispirandosi ad Alfarabi, Avicenna ed altri autori arabi. Ma tutto ciò rimane ipotetico: “Non si sa nulla di sicuro a proposito delle origini e dell’autore del Liber de causis”. L’opuscolo arabo è stato tradotto in latino da Gerardo di Cremona, dunque prima del 1187...
Per completare la nostra descrizione della biblioteca filosofica di cui dispongono i latini all’inizio del secolo XIII, dobbiamo menzionare la letteratura araba. Oltre a diversi scritti di matematica, astronomia, scienze naturali e medicina, tradotti nel corso dei secoli XI e XII, l’Occidente latino deve ai traduttori di Toledo una serie importante di opere filosofiche. Alle traduzioni già citate d’Aristotele e del Liber de causis, bisogna aggiungere: diversi scritti di Alkindi, tra cui il De intellectu; il De differentia inter animam et spiritum di Costa ben Luca; il De scientiis, il De ortu scientiarum e il De intellectu di Alfarabi, così come la sua Distinctio super librum Aristotelis de naturali auditu; il Liber definitionum e il De elementis dell’ebreo Isaac Israeli; il Fons vitae dell’ebreo Avecebron; infine e soprattutto parti considerevoli della grande enciclopedia filosofica di Avicenna, chiamata in arabo Libro della guarigione e conosciuta presso i latini sotto il nome di Sufficientia; parafrasi di Aristotele, questa enciclopedia ha largamente contribuito alla diffusione delle sue dottrine alla fine del secolo XII.

Così ancora, in maniera sintetica, nel manuale di Ugo e Annamaria Perone–Giovanni Ferretti–Claudio Ciancio, Storia del pensiero filosofico, SEI 1983, pag.277:

All’inizio del XIII secolo la maggior parte delle opere di Aristotele erano ormai divenute accessibili ai latini. Dai tempi di Boezio si possedeva la cosiddetta logica vetus (Categorie, Interpretazione, Isagoge di Porfirio). La logica nova (Analitici, Topici, Confutazioni sofistiche) era divenuta accessibile solo nel XII secolo, assieme alla maggior parte dei cosiddetti Libri naturales (comprendenti la Fisica, le opere di scienze naturali, come Il Cielo, La Metereologia, ecc., il trat­tato Sull’anima). La Metafisica e l’Etica a Nicomaco, conosciute almeno in parte già verso la fine del XII secolo, saranno conosciute integralmente più tardi nel corso del XIII secolo.
Oltre le opere di Aristotele, all’inizio del secolo si conosceva anche la mag­gior parte della letteratura araba ed ebraica sopra ricordata, fra cui soprattutto l’enciclopedia filosofica di Avicenna, che presentandosi come una parafrasi delle dottrine di Aristotele, doveva particolarmente favorirne la conoscenza. I commenti ad Aristotele di Averroè saranno conosciuti dopo il 1230.
La conoscenza delle opere di Aristotele e della letteratura aristotelica era stata resa tecnicamente possibile grazie ad una intensa opera di traduzioni sia dal greco che dall’arabo. Come già si è accennato nel capitolo precedente, in Spagna l’arcivescovo Raimondo di Toledo (1126-1151) aveva organizzato nella sua diocesi un vero e proprio collegio di traduttori dall’arabo, fra cui particolar­mente famosi furono Domenico Gundisalvi e Giovanni Ispano. In Sicilia, un importante centro di traduzioni dal greco fu Catania, ove operò Enrico Aristippo (m. 1162). Alla corte di Federico Il, sempre in Sicilia, lavorerà Michele Scoto (1180-1235), già traduttore a Toledo e a cui si deve in gran parte la traduzione dall’Arabo di Averroè. Numerose traduzioni greco-latine sono inoltre dovute all’iniziativa di Roberto Grossatesta, vescovo di Lincoln dal 1235 al 1253 e pro­fessore ad Oxford. Da ricordare infine Guglielmo di Moerbeke che, alla corte di Urbano IV, riprenderà, verso il 1260, la traduzione dal greco, o la revisione delle traduzioni esistenti, delle opere di Aristotele (fra cui la traduzione della Metafisica di cui si servirà San Tommaso per il suo commento).

In particolare si distingue, nel medioevo cattolico, la scuola della cattedrale di Toledo, per il suo lavoro di traduzione di testi arabi ed ebraici. Vedi su questo:

8. Martiri cristiani nel periodo andaluso

Una analisi del martirio cristiano in territori a maggioranza islamica è stato compiuto recentemente dal libanese Camille Eid, con il volume A morte in nome di Allah. I martiri cristiani dalle origini dell’Islam a oggi, Piemme, 2004. Egli afferma che è importante

esaminare due tra le maggiori accuse mosse contro i martiri cristiani: l’apostasia e la lesa religione. Decine tra i martiri evocati in questo libro sono stati condannati a morte per apostasia dall’islam, in arabo ridda o irtidad. Una vera risposta a chi, ancora oggi, considera i musulmani “impermeabili” alla conversione alle altre religioni. Molto più numerose sono le condanne per apostasia pronunciate contro cristiani che hanno abbracciato per un certo tempo l’islam e poi deciso di abbandonarlo. I contingenti di “rinnegati” si riscontravano, d’altronde, dappertutto; in Armenia, in Grecia, in Egitto e ovunque le conversioni all’Islam rappresentava un trampolino di promozione sociale. In altri casi, come nel Nord Africa, la conversione era semplicemente conseguenza di un’inutile attesa di un riscatto dopo una cattura in mare o in terraferma da parte dei corsari barbareschi... Il ritorno al cristianesimo di uno di questi convertiti significava morte sicura. In verità, sui 14 versetti del Corano che sanzionano l’apostasia, 13 prevedono una “punizione molto dolorosa nell’aldilà”, mentre uno solo parla di “punizione in questo mondo e nell’altro”. Nonostante il vago riferimento, nella storia dell’islam si è da subito imposta l’interpretazione radicale in base ad un famoso hadith in cui Maometto afferma: “Chi cambia religione, uccidetelo”...
Una seconda categoria comprende coloro che sono stati condannati per lesa religione, in arabo istikhfaf. Il concetto è alquanto elastico: confutare nel corso di un dibattito un precetto islamico è lesa religione? Disapprovare una norma o un comportamento ammesso nell’islam, come la poligamia, è lesa religione? Il problema si pone ancora oggi nel Pakistan dove i cristiani denunciano la cosiddetta “legge sulla blasfemia” che punisce di morte chiunque sia accusato di offendere Maometto e condanna all’ergastolo chi offende il Corano... Molti teologi islamici ritengono lecito spargere il sangue di chi biasima, critica o attribuisce un pur minimo difetto fisico o morale a Maometto (in arabo sabb al-rasul) e a qualsiasi profeta.

C.Eid, si sofferma sulle vicende di Eurosia, uccisa nel 714 a Jaca, nei Pirenei aragonesi, dei fratelli Valentino ed Engrazia, uccisi a Sepulveda in Castiglia, del vescovo Vittore, martirizzato nel 743 a Baeza insieme ad Alessandro e Mariano, dell’eremita Daniele ucciso a Gerona all’inizio del IX secolo, dei fratelli Adolfo e Giovanni di Siviglia, nati dal matrimonio tra un musulmano ed una cristiana, uccisi nel 822.
Ampio spazio dedica ai cosiddetti “martiri volontari” di Cordoba, tra l’851 e l’859. Siamo molto ben informati su questa vicenda dalle fonti antiche, in particolare gli scritti di Sant’Eulogio, che fu uno degli ultimi di questa schiera di martiri, e di Paolo Alvaro.
Dinanzi al lento recedere della presenza cristiana, che era sì tollerata, ma a condizione che fosse interdetta ogni diffusione del vangelo, si affermò presso una schiera di monaci, sacerdoti, vergini e laici la convinzione che fosse necessario tornare ad annunciare Cristo. Alcuni di loro, cristiani che mai avevano defezionato, entrarono nella Mezqita di Cordoba e proclamarono la verità del cristianesimo e l’errore dell’Islam – lo storico al-Razi ricorda che i musulmani, durante la conquista, si appropriarono della metà della basilica cristiana visigota di San Vincenzo per adoperarla come moschea e che, successivamente, acquistarono l’altra metà per denaro e per la promessa di ricostruire una delle chiese extramurarie distrutte al momento della conquista (tuttora, all’interno della Mezqita-Cattedrale è possibile rendersi conto del reimpiego del materiale della primitiva basilica cristiana nell’edificazione della nuova moschea).
Altri, invece, che si erano convertiti formalmente all’islam, ma avevano continuato a vivere un cripto-cristianesimo, per convenienza o paura, si presentarono nella stessa moschea o alla presenza delle autorità, dichiarando di essere cristiani.
Una cinquantina di persone, nel corso di quegli anni, furono così decapitate ed i loro corpi bruciati e le ceneri disperse nel fiume Guadalquivir, per evitare che i cristiani venerassero le loro reliquie. L’accusa fu sempre quella di apostasia o lesa religione. Ciò Avvenne sotto gli emiri ‘Abdul-Rahman II e Muhammad I. Nell’onomastica odierna di Cordoba il nome del Campo de los martires ricorda il luogo di martirio dei cristiani cordobensi. All’interno della Mezquita-Cattedrale, intagliati in pietra grezza da Pedro Duque Cornejo sono le figure dei 46 martiri mozarabi di Cordoba.

Sotto ‘Abdul-Rahman III incontriamo nel 923 il martirio di Eugenia, nel 925 di Pelagio, tredicenne, nel 931, di Argentea, figlia di Bin Hafsun, e di Vulfura.
Nel 953 vengono martirizzati i duecento benedettini del monastero di San Pietro di Cardena, vicino Burgos.
S.Antonio da Padova decide di passare dall’ordine agostiniano a quello francescano nel giorno in cui vengono riportati in Portogallo i corpi dei primi cinque martiri francescano in Marocco (siamo nel 1220 a Coimbra).
L’esempio di questi martiri spinse, nel 1227, altri 7 francescani in Marocco che subirono il martirio. Nel 1228 altri due francescani furono martirizzati a Valencia. Siamo nel difficile periodo successivo alla presa del potere della dinastia degli Almohadi (dall’arabo al-Muwahhidun, gli “unitari”) che dichiararono eretici e usurpatori i califfi di Baghdad. Essi soppiantarono così l’altra dinastia berbera, ugualmente fondamentalista, degli Almoravidi. E’ in questi anni della dinastia Almohade che assistiamo alla scomparsa di un cristianesimo autoctono in Africa del Nord. Le ultime testimonianze di una gerarchia locale risalgono al 1049 per la Libia, al 1091 per la Tunisia, al 1150 per l’Algeria. Nel 1159 gli Almohadi costrinsero gli ultimi cristiani all’esilio o all’apostasia. Così Al-Ghazali commenta questo modo di procedere:

Certamente non è bene che si eserciti una pressione in materia di religione, ma bisogna riconoscere che la spada o la frusta sono talvolta più utili della filosofia o della convinzione. E, se la prima generazione non aderisce all’Islam che con la lingua, la seconda aderisce anche con il cuore e la terza si considererà come musulmana da sempre.

Uccisi con l’accusa di apostasia furono poi Bernardo di Alzira con le sorelle Zoraida e Zaida, il mercedario Pietro Pascal nel 1300, i francecani Giovanni di Cetina e Pietro di Duenas, uccisi nel patio dell’Alhambra di Granada, appena costruito, nel 1397.
Anche il catalano Raimondo Lullo, originario di Maiorca, figlio di uno dei capi militari che strapparono l’isola ai musulmani, entrato nel Terz’Ordine francescano ed avendo dedicato la sua vita agli studi islamici per prepararsi all’evangelizzazione in terra islamica, fu lapidato al suo secondo viaggio a Bougie, nell’attuale Algeria, e morì in seguito alle ferite, mentre veniva ricondotto a Maiorca.

9. La cultura mozarabica

La voce “Mozarabo” scritta da Gabriel Martinez per il Dizionario enciclopedico del Medioevo, diretto da A.Vauchez, edizione italiana a cura di C.Leonardi, Città Nuova-Cerf-James Clarke & Co., vol II, pp.1249-1251, ci introduce ai problemi della storia dei cristiani detti “mozarabi” nella Spagna musulmana.

MOZARABO
Vengono chiamati m. i cristiani rimasti nei territori della Penisola iberica sottomessi ai musulmani dopo la conquista del 711. Il termine - trascrizione della parola araba mustarab («arabizzato»)- è tuttavia più recente della realtà che designa. Apparve solo all'inizio del XII secolo, dopo la conquista di Toledo, negli atti del potere regio della Castiglia che riconoscevano l'originalità giuridica di questa minoranza cristiana, erede dei Visigoti e influenzata dall'Oriente grazie al contatto secolare con l'islam. Fin dall'inizio legata a quella della Riconquista, la storia dei m. ne ha condiviso le vicissitudini. Dalla fine del XIX secolo almeno, la cristianità mozarabica appare uno degli elementi costitutivi del voluminoso dossier dell'«identità» e dello «smacco storico» della Spagna, che la generazione del 1898, dopo la perdita di Cuba, ha voluto porre al centro della propria riflessione. In effetti, se si volesse insistere sulla mai smentita unità e cattolicità della Spagna, basterebbe prendere ad esempio, come fa Francisco Simonet, la vittoriosa resistenza opposta dai m. ai secoli di occupazione musulmana, fino a che la Riconquista liberatrice, i fraterni incontri con i cristiani del Nord, restaurarono l'unità fisica di una Spagna la cui integrità spirituale non sarebbe mai stata infranta. Altri, invece, hanno voluto vedere nella storia della Spagna soltanto le sue scissioni, le brutali conquiste e i crudeli esili. Per costoro i cristiani vittoriosi dall’XI al XIII secolo, come gli arabi nel 711, avrebbero preso d'assalto un paese radicalmente straniero per scacciarne o assimilarne con la forza le popolazioni. In questo caso il ruolo esercitato dai m. nella storia viene avaramente misurato, almeno quanto nel caso opposto viene deliberatamente ingigantito. Non si esiterà ad affermare, ad esempio, contro l'evidenza delle testimonianze, che il cristianesimo mozarabico si fosse estinto praticamente nel X secolo, e che quindi non fosse sopravvissuto fino alla Riconquista; e ancora, che i m., assolutamente devoti, come indica il loro stesso nome, alla cultura dei loro benevoli conquistatori orientali, avessero vissuto l'occupazione dei cristiani del Nord con lo stesso dispiacere mostrato dai musulmani, e che subirono perciò una uguale oppressione. In realtà, pur mitigandone gli eccessi, risulterebbe inopportuno scartare del tutto le sollecitazioni insite in queste due opposte tesi, indissociabili matrici della storiografia moderna della questione mozarabica. Sembrerebbe ovvio constatare che la presenza mozarabica è meglio attestata nei secoli VIII e IX, i primi della dominazione musulmana. La rapida conquista (l'occupazione della penisola fu compiuta in soli dieci anni) e le guerre civili musulmane in Oriente e nel Maghreb, non fecero giungere più di un centinaio di migliaia di immigrati arabi o berberi, ampiamente dominati, quanto al numero, dai milioni di abitanti cristiani. Questi vinti godettero dei diritti che l'Islam concedeva ai popoli seguaci del Libro, in particolare della libertà del loro culto in cambio di un tributo dal quale i musulmani erano esenti. Mantennero inoltre i loro notabili (conte, censor, exceptor) che regolavano i conflitti interni alla comunità cristiana, vi assicuravano l'ordine e raccoglievano le imposte per conto dell'emiro musulmano. Talune regioni, come la Murcia, protetta da una convenzione di capitolazione firmata all'epoca della conquista, restarono per lungo tempo semi-autonome. Infine la Chiesa mozarabica conservò sia il proprio prestigio sia la propria gerarchia episcopale, che era convocata, a quanto pare, in sinodi regolari.Talvolta si è voluto spiegare la crisi adozianista, che colpì la Chiesa di Spagna alla fine dell'VIII secolo, con l’attrazione che il dogma musulmano avrebbe esercitato sui cristiani sottomessi.
Questa eresia adozionista, che separava le due nature di Cristo e dispensava il Padre dall'aver generato l'umanità del Figlio, si avvicinava senza dubbio alle concezioni musulmane. La maggior parte degli specialisti, tuttavia, esclude l'ipotesi di un'influenza diretta. L'Islam, del quale l'Occidente impiegherà secoli per discernere le credenze, non appariva affatto nella polemica suscitata da questa crisi dottrinale, non essendo stato chiamato in causa neanche dai difensori dell'ortodossia, franchi o iberici. D'altronde è poco probabile che i musulmani andalusi, la cui teologia si ritiene che fosse ancora rudimentale nell'VIII secolo, abbiano potuto fare delle riflessioni sul dibattito accesosi tra i cristiani. In ben altri termini si sarebbero scontrati, alcuni decenni dopo, verso la metà del X secolo, l'Islam e la Mozarabia. In dieci anni (850-860), una cinquantina di monaci e di vergini subirono il martirio per aver pubblicamente affermato che la profezia di Maometto era un'impostura o per aver abiurato l'Islam che la famiglia aveva loro imposto. Si è discusso molto su questi martiri di Cordova. L’umanista spagnolo Ambrogio de Morales aveva appena riesumato il loro ricordo, alla fine del XVI secolo, in omaggio alle virtù della sua patria che l’ugonotto Turquet de Mayerne denunciò il fanatismo di quei monaci e di quelle giovani ribelli, facendo rilevare la (troppo?) lunga pazienza dimostrata dal potere musulmano nei loro confronti. Seguendo quest’ultimo, molti altri, basandosi sulle riserve espresse dalle autorità mozarabiche (conte e vescovo) nei confronti del movimento, l'hanno ridotto ad una reazione marginale di alcuni «estremisti» che si sarebbero opposti invano alla corrente «naturale» di conversione dei m. all'Islam. È certamente vero che il movimento dei martiri voleva lottare contro il progredire della lingua araba e della fede musulmana tra i cristiani, un fenomeno che spesso divideva le famiglie e che talvolta obbligava le giovani a convertirsi alla nuova religione solo perché i genitori o fratelli di queste si erano convertiti. Non sembra vero, invece, che il movimento sia rimasto un fenomeno marginale. Ne è prova la forte corrente migratoria mozarabica verso i regni cristiani del Nord, che contribuì notevolmente al ripopolamento del bacino del Duero durante il regno di Ordono I (850-866) e di Alfonso III (866-910); e soprattutto il Calendario di Cordova, redatto in arabo dal vescovo Recemundo nel 961, dimostra che molti dei martiri erano ancora festeggiati nella comunità mozarabica un secolo dopo il loro sacrificio. Senza dubbio il movimento dei martiri va messo in relazione con la rivolta quasi generale contro il potere arabo suscitata verso la fine del IX secolo e all'inizio del X dai loro antichi correligionari passati all'Islam, i muwalladūn. Il personaggio simbolo di quel sollevamento, Umar ibn Hafsun, sarebbe morto cristiano, riconvertito alla fede dei suoi padri. Tale gesto, se fosse accertato, sottolineerebbe il legame tra cristianesimo e identità indigena, ancora vivamente avvertito due secoli dopo la conquista araba. Quando la rivolta fu sedata, invece, l'Islam e l'arabizzazione sembrarono progredire rapidamente. Quanto ai m., nel X ed XI secolo erano a servizio del principe musulmano come soldati e collettori d'imposta, come lo era stato già il conte Rabi nel IX secolo, e soprattutto come interpreti (traduttori dal latino all'arabo) o ambasciatori in paesi cristiani, come il già citato vescovo Recemundo (Rabi ibn Zayd nei testi arabi). Dal 929, infatti, gli emiri omayyadi di Cordova divennero califfi, un titolo di portata universale e religiosa che li spinse a raccogliere intorno al loro trono e alla loro fede tutti i messaggi di Dio e tutte le nazioni del mondo. L'ordine altezzoso del califfato diede l'illusione di un trionfo dell'Islam tale da misconoscere la Riconquista già in atto. Fu un m., il conte Sisnando Davidiz che diresse i primi passi della Riconquista sotto il regno di Alfonso VI (1065-1109), grazie all'abile attività diplomatica che poté svolgere con la sua conoscenza dell'arabo. Nel 1065 Ferdinando I di Castiglia, dopo aver occupato Coimbra, espulse i musulmani dal centro del Portogallo, a riprova del loro esiguo numero e della probabile predominanza della popolazione cristiana. L'avanzata castigliana incontrò territori a forte densità musulmana soltanto dopo aver raggiunto il Tago (Toledo e Talavera). Ma molto più a sud, nel 1125, il re d'Aragona Alfonso I dovette riportarsi indietro diverse migliaia di cristiani da un audace incursione compiuta a Granada, facendoli poi insediare nella valle dell'Ebro. Decine di migliaia di altri cristiani furono allora deportati in Marocco dagli Almoravidi, nel tentativo di difendersi. Accentuando questa politica, gli Almohadi (in Spagna dal 1147 al 1224) verso la metà del XII secolo decisero di cacciare tutti gli infedeli dai territori rimasti ancora musulmani (la parte meridionale e orientale della penisola), ove le minoranze cristiane ed ebraiche ormai erano poco numerose.
Prima di estinguersi, la comunità mozarabica in senso stretto (i cristiani che vivevano sotto la legge islamica) ebbe un ultimo slancio vitale in terra riconquistata. Gli espulsi affluirono a Toledo, frontiera attiva della cristianità, ove i m. occuparono un posto di rilievo fino alla metà del XIII secolo. In proposito si conservano diverse decine di documenti, spesso redatti in arabo dialettale. Tuttavia la loro integrazione nella società casigliana fu un successo, secondo J.-P.Molénat tanto è vero che da un notabile m. sono discesi gli Alvarez di Toledo, duchi di Alba.

Il volume di J.Fontaine, Mozarabico. L’arte. Cristiani e musulmani nell’alto medioevo, Jaca Book, Milano, 1983, con fotografie di Zodiaque, presenta l’insieme dei monumenti architettonici superstiti dell’arte mozarabica. L’autore presenta subito

un aspetto paradossale del problema: tra i manoscritti e le opere d’arte, che costituiscono per noi la testimonianza di una cultura mozarabica, la maggior parte, se non la totalità, si trovano oggi conservati in province che, al momento in cui gli edifici religiosi furono costruiti e i manoscritti copiati o miniati, si trovavano al di fuori delle regioni della penisola ancora sottomesse al potere islamico.

Pochissimo è rimasto degli edifici ecclesiali mozarabi nelle zone sotto la dominazione dell’Islam andaluso. In particolare si sono conservati la Chiesa di S.Maria di Melque vicino a Puebla de Montalban, in provincia di Toledo, e la Chiesa rupestre di Bobastro, Mesas de Villaverde, nelle montagne vicino Malaga. Gli edifici nei territori della Reconquista possono essere, invece, suddivisi in quattro differenti zone (così J.-F. Rollan Ortiz, Iglesias mozarabes leonesas, Everest, León, 1992): la mozarabia leonese (nella quale spicca il famoso complesso di San Miguel de Escalada oltre a Santiago de Penalba, San Cebrian de Mazote e Santa Maria di Wamba), quella galiziana e lusitana (con San Miguel de Celanova e San Pedro de Laurosa) la zona aragonese-catalana (con la cripta di San Juan de la Pena, le chiese di santa Maria de Marquet e di Sant Julia de Boada ed il monastero di Sant Miquel de Cuixá), la zona centrale o Castigliana.(con San Baudel de Berlanga, con la Torre di dona Urraca.
A titolo esemplificativo riportiamo il testo dell’iscrizione di rifondazione della chiesa di San Niguel de Escalada, iscrizione attualmente scomparsa, ma ancora leggibile nel 1784 quando fu trascritta da Manuel Risco, che così recitava:

Questo luogo, dedicato fin dall’antichità all’arcangelo Michele e eretto come piccolo edificio, prossimo a cadere in rovina, rimase a lungo in condizioni disastrose, finché l’abate Alfonso, venendo con i suoi compagni da Cordova, loro patria, sollevò la casa che era in rovina ai tempi del potente e serenissimo principe Alfonso. Crescendo il numero dei monaci, eresse di nuovo questo bel tempio, con lavoro ammirabile... Senza opposizione di alcuna autorità e senza oppressione del popolo, ma per la costante vigilanza dell’abate Alfonso e dei fratelli, questi lavori furono conclusi in dodici mesi, quando già regnava Garcia e la regina Mumadona. Nell’anno 951 (N.d.T. con gli adattamenti al nostro calendario, l’anno di consacrazione è così il 913). Fu consacrato per mano del vescovo Genadio il dodici delle calende di dicembre.

L’iscrizione permette di intravedere la condizione di fuggitivi da Cordova dei costruttori della Chiesa di San Miguel de Escalada. San Miguel è noto per essere stato la sede di uno degli scriptorium più importanti della cultura mozarabica, quello nel quale Magius, nell’anno 950, illustrò il famoso Beato (cioè una copia dei Commentarii dell’Apocalisse di S.Giovanni, scritto dall’autore noto come Beato di Liebana, nel 786).
Un capitolo del volume di J.Fontaine è dedicato a ricostruire i passaggi storici che hanno portato i cristiani arabizzati ad esprimersi artisticamente nelle zone non più controllate dall’Islam:

Indebolito dalle lotte delle fazioni nobiliari, paralizzato dalla crescente impotenza dello stato, devastato dalle esazioni dei nobili e da un violento antisemitismo, il regno visigotico di Toledo crollò come un castello di carta subito dopo la disfatta inflitta all’armata spagnola nel 711, sulle rive del Guadalete, dalle truppe arabe guidate da Tarik e Muza. Nel corso di qualche anno queste sarebbero giunte sino ai Pirenei cantabrici, incontrando inizialmente la resistenza congiunta delle forze asturo-gotiche. Rimasti sul posto, nelle loro città o campagne, la maggior parte degli otto milioni di abitanti del regno di Toledo, come prima reazione, cominciarono a respirare sotto il dominio di padroni più tolleranti. Come prima i Romani, e ancor più di loro, gli Arabi intesero non abusare inizialmente delle loro conquiste. A loro modo, applicarono il criterio virgiliano: “parcere subiectis et debellare superbos”. Gli Spagnoli che si affrettarono a fare atto di sottomissione, come gli abitanti di Mérida, ebbero effettivamente non solo salva la vita, ma conservarono anche le loro libertà e i loro possedimenti, mediante il pagamento di un’imposta fondiaria e di un testatico. Anche i privilegiati non perdettero tutti i loro privilegi. Soddisfatti - con scarsa lungimiranza - dalla sconfitta di Rodrigo, i figli di re Witiza, che aveva fatto appello agli Arabi, come già il re Atanagildo ai Bizantini, conservarono il loro titolo di principe e un vasto patrimonio fondiario. Dal VII secolo dell’epoca visigotica il processo di “feudalizzazione”, messo bene in luce dagli studi di Claudio Sànchez Albornoz, era per certi aspetti così avanzato che alcuni nobili si fecero vassalli dei nuovi signori, conservando il dominio personale e le rendite di una vasta regione. L’esempio più illustre rimane quello di Théodomir che riunì sotto di sé nella zona orientale un “regno di taifa”, ante litteram, da Valenza a Orihuela.
Ma c’è di più. Come nei confronti degli Ebrei, i credenti dell’Islam si sentirono dapprima tenuti verso i cristiani al medesimo rispetto che il Profeta aveva espresso nel versetto 5,73 del Corano: “nessun timore e nessuna tristezza vi sarà per i cristiani – coloro che credono in Dio e nel Giorno del Giudizio - e che compiono opere pie”. I primi patti stipulati in Oriente nel VII secolo fra Maometto e alcune popolazioni cristiane avevano assicurato a queste ultime la protezione delle persone e dei beni religiosi. Malgrado le successive affermazioni dei cronisti cristiani e arabi, gli esordi della conquista araba in Spagna non furono né più idilliaci né più disastrosi di quanto non lo fossero state la situazione di insicurezza e le distruzioni causate dagli interminabili disordini delle invasioni del VII secolo, di cui vediamo un quadro desolante nella Cronaca di Idazio. Lotte senza fine, ribellioni e regolamenti di conti tra Arabi, Berberi, Yemeniti e Quaisiti non lasciarono affatto ai primi invasori islamici il tempo di porsi molti problemi sui loro nuovi sudditi in Spagna, né soprattutto di pensare con determinatezza alla diffusione della fede islamica fra la popolazione della penisola. Proprio a causa di questo disordine endemico, il primo mezzo secolo dell’Islam in Spagna permise agli antichi sudditi del regno visigotico di mantenere le proprie strutture amministrative e religiose, se non addirittura di consolidarle in una situazione politica più incerta, sì, ma paradossalmente più liberale di quella in cui erano vissuti negli ultimi decenni della dominazione visigotica.
Le cose cominciarono a cambiare quando l’Omaiade Abd-er-Rahman, rifugiatosi dalla Siria in Spagna, nel 756 fu proclamato emiro dell’Andalusia nella moschea di Cordova. Questo discendente della prima dinastia dei califfi di Damasco è il vero fondatore dell’emirato occidentale. Con lui, l’Islam in Spagna diviene una salda monarchia, la cui autorità si va affermando di pari passo con l’intolleranza. Abd-er-Rahman I soffocò le rivolte di Mérida e Béja, Toledo e Saragozza. Egli organizzò l’amministrazione islamica della Spagna araba e distrusse numerosi edifici cristiani al passaggio della sua armata. Espropriò la seconda metà della chiesa di San Vincenzo di Cordova, che non era ancora stata trasformata in moschea; fece quindi costruire, lungo il Cortile degli aranci, la prima parte della moschea che noi conosciamo. Confiscò anche i feudi cristiani, come quelli di Ardabasto e Atanagildo, favorendo i matrimoni misti nei quali i figli di padre musulmano dovevano essere allevati nell’Islam. A partire dalla seconda metà dell’VIII secolo si verificano da parte degli Spagnoli del sud conversioni in massa, spontanee o forzate, alla religione dei dominatori. Questi rinnegati del cristianesimo, i muladìes (dall’arabo mowlad: gli “adottati”) saranno gli autori delle grandi rivolte del IX secolo. Visti con la stessa diffidenza dai cristiani e dai musulmani di ceppo islamico, finiranno per aggravare l’ostilità nei confronti dei cristiani da parte dei teologi ortodossi dell’Islam andaluso: i faqihs, la cui importanza andrà crescendo con i successori di Abd-er-Rahman I. Questa tendenza è rafforzata, durante il regno del suo successore Hisham I (796-822) dall’ortodossia rigorista e, per così dire, integralista, della dottrina malikita, diffusa precedentemente dal signore di Medina, Malik ben Anas, morto nel 796.
Nuovi fattori contribuiscono allora a rendere teso il clima delle relazioni fra Arabi e Spagnoli –rinnegati o cristiani. In primo luogo la repressione sanguinosa delle rivolte, dove in misura crescente muladìes e cristiani si trovavano uniti implicitamente o dichiaratamente; repressione contro l’insurrezione, come quella che mise a ferro e a fuoco un intero sobborgo di Cordova nell’818; vedasi anche le repressioni preventive, come la tremenda “giornata del fossato”, nella quale un muladì, nominato dall’emiro governatore di Toledo, convocò e fece giustiziare per tradimento decine di notabili dell’antica capitale visigotica, che si era spesso ribellata. A queste endemiche guerre civili si aggiunse l’accresciuto pericolo di una riconquista cristiana. Questa veniva incoraggiata dagli interventi carolingi nel bacino dell’Ebro e in Catalogna e dalle relazioni intercorse fra Carlo Magno e Alfonso II il Casto, la cui pressione per la riconquista si esercitò già in Galizia e fino all’Ebro: il re di Oviedo saccheggia Lisbona nel 798, un anno prima della rivolta dei Guasconi di Navarra, e tre anni prima della riconquista cristiana di Barcellona nell’801.
In un clima teso, i mozarabi non riescono a mantenere neppure le loro chiese e i monasteri, perfino nella capitale Cordova, dove la corte e la popolazione araba li respingono verso la periferia. Dispongono di uno statuto particolare; le loro questioni giudiziarie sono decise non da un cadì, ma da un censor o iudex; i carichi fiscali vengono gestiti per l’emiro da un exceptor che raccoglie i tributi (jarach); infine il “conte di Cordova” tratta direttamente con il califfo, ma non è dato di sapere, se non istituendo una probabile analogia, se simili istituzioni siano esistite nelle altre città del califfato. La gerarchia ecclesiastica mantiene la sua posizione in numerose città: nel IX secolo si riuniscono a Cordova molti concili, sotto la tutela del califfo – in ciò successore degli imperatori cristiani e dei re visigoti. Ma le defezioni si fanno numerose. La fede cristiana si indebolisce di fronte alle lusinghe materiali, ed anche intellettuali, della nuova e brillante civiltà islamica dell’Andalusia. Una minoranza di cristiani si ribella nella stessa capitale, e di questo piccolo gruppo si fà appassionato interprete, alla metà del secolo, il letterato laico Alvaro di Cordova. A volergli prestar fede, i cristiani nelle funzioni pubbliche “si astengono dal proclamare il Cristo Dio, accontentandosi di parole evasive” davanti ai musulmani, senza fare il segno della croce né pregare. Adottano il lusso del vestiario e i profumi dei loro dominatori arabi e si preoccupano soprattutto di arricchire la propria famiglia. Un ottantenne, di nome Romanus, denunciato dall’abate Samson, arriva perfino ad adottare la poligamia e, “non curandosi dei precetti del Vangelo, colleziona concubine per soddisfare la sua lussuria (…)”. Mentre dunque i costumi si arabizzano, l’ignoranza dottrinale indebolisce la fede: “qual è oggi il laico colto, fra noi fedeli?”, si domanda Alvaro con amarezza, “chi presta attenzione ai libri delle Sacre Scritture, o agli scritti latini di qualsiasi dei nostri dottori? Perfino i chierici devono essere richiamati al significato del loro costume clericale, per evitare che, ignorando il senso spirituale del loro abito, non possano assumere le sembianze degli empi, e imitare i costumi degli infedeli, in cui non vi è alcuna saggezza”.
Reazione contro questa secolarizzazione e arabizzazione, che porta i mozarabi a farsi muladìes, o per lo meno a lasciare intiepidire nell’indifferenza la propria fede; attrazione per la vita monastica e per un cristianesimo esigente, ascetico e mistico; lettura delle Passioni dei martiri del passato –spagnoli in particolare-; contatto con i monaci venuti dall’Oriente che portavano notizie delle appassionate dispute teologiche tra cristiani e musulmani, e della resistenza spirituale di questi cristiani lontani; infine, incitamento da parte dei cristiani liberi del nord alla resistenza contro l’oppressione che assumeva forme molto più concrete, come nella bizzarra lettera indirizzata nell’826 da Ludovico il Pio ai mozarabi di Mérida: tutti questi diversi fattori spiegano il movimento spirituale dei martiri volontari di Cordova. Ciò spinse alla testimonizanza di una pubblica professione di fede e ad un sanguinoso martirio una cinquantina di Cordovani mozarabici, nel corso del decennio che va dall’esecuzione del prete Perfectus, nell’851, a quella di Eulogio, prete della basilica di San Zoilò, già eletto arcivescovo di Toledo, nell’859. Ma vi sono anche stati, tra questi martiri, monaci come l’orientale Georgios, venuto dalla lavra di San Saba in Palestina; giovani laici come le vergini Leocrizia e Flora; sposi obbligati dalla famiglia come Aurelio e Sabigohra: entrambi christiani occulti, condannati a professare l’Islam dalla loro nascita, avendo genitori musulmani lei, padre musulmano e madre cristiana lui. I matrimoni misti furono come una spada affilata che divise spiritualmente la mozarabia: elemento il più delle volte di islamizzazione, hanno però giocato anche un ruolo determinante nelle vocazioni e in un cristianesimo eroico (l’apostasia dell’Islam prevedeva infatti la condanna a morte) come quello di questi due sposi.
Questa divisione appariva a Cordova agli inizi del movimento nel Concilio dell’851 convocato da Abd-er-Rahman II che si fece rappresentare da un exceptor mozarabico. I vescovi si inchinano di fronte alle pressioni delle autorità e condannano il martirio volontario. Essi non fermeranno tuttavia il movimento, culminante con la morte di Eulogio che combatteva per la fede cristiana. I fatti sono pochi, i testimoni morti per la fede piuttosto scarsi, ma l’eco suscitata notevole. Nell’858 i monaci Usuardo e Odilardo trasportano a Parigi i preziosi corpi del monaco Georgios, di Aurelio e Sabigohra, nella loro abbazia di Saint-Germain des Près. Il 9 gennaio 884, il re Alfonso III il Grande accoglie solennemente a Oviedo le spoglie mortali di Eulogio e Leocrizia, trasportate da Cordova per l’interessamento del monaco Ducidio. Vi saranno ancora alcuni martiri isolati a Cordova nel X secolo come il giovane prigioniero galiziano Pelagio (nel 925), per il quale la monaca tedesca Hrotsvitha scriverà la Passione in versi… I martiri di Cordova diventano subito simboli pericolosi, perché esemplari, della resistenza cristiana dei mozarabi. Essi infatti spingono i cristiani della mozarabia a un esame di coscienza che li costringe a correre i pericoli più gravi –materiali e spirituali-, o a capitolare nell’apostasia. La maggioranza finirà per sprofondare nel compromesso inevitabile con un califfato oppressivo ma flessibile, con una civiltà affascinante nella quale sarà sempre più difficile salvaguardare fedelmente la morale e la fede cristiana. Riusciranno a mantenerla alcuni all’interno di certe comunità, in modo particolare nelle campagne più isolate: quei testimoni che troverà Alfonso VI a Toledo dopo la riconquista, e più ancora nella provincia che nella capitale, alla fine dell’XI secolo. Questi erano riusciti a sopravvivere alle persecuzioni e alle repressioni, in buona parte grazie alla loro privilegiata posizione geografica fra i regni cristiani a nord e l’Islam a sud.
Ma altri mozarabi sceglieranno, con maggiore eroismo e imprudenza al tempo stesso, la strada della ribellione aperta a fianco dei muladìes che simpatizzano con i cristiani. Così Omar-ben-Hafsun che, tra la fine del IX secolo e l’inizio del X, terrà in scacco per cinquant’anni le armate dell’emiro nelle serranìas di Ronda e Màlaga. Altri, e questi ci interessano particolarmente, hanno scelto l’esodo nelle terre cristiane: in Catalogna, in Navarra e nella futura Castiglia, ma soprattutto nel regno delle Asturie, diventato regno di Léon nell’880, dopo che Alfonso III trasferì la capitale da Oviedo nell’antica Legionem (riconquistata nell’856). E’ soprattutto in questa direzione che si rivolgono gli abitanti di Cordova, dopo e insieme a quelli di Toledo. Esodo nel vero senso della parola: questa partenza verso il nord infatti non fà altro che seguire e concludere, per parecchi monaci in particolare, l’esodo dal mondo che essi avevano iniziato lasciando Cordova per uno dei numerosi monasteri fondati –senza dubbio per la maggior parte nell’epoca visigotica- nelle sierras circostanti, soprattutto a nord della capitale, nei recessi della sierra Morena. A dire il vero, questo esodo era cominciato alle origini del regno delle Asturie; l’afflusso dei profughi aveva fatto molto presto di Oviedo “la città dei vescovi”, e si è constatato che la presenza di artisti mozarabici si colloca nel cuore stesso della provincia, negli ultimi monumenti dell’arte asturiana: a Tunon alla fine del IX secolo, a Valdedios all’inizio del X. Ciò dimostra, per forza di cose, l’importanza dell’immigrazione mozarabica nelle regioni del bacino del Duero, che il re Alfonso I aveva in gran parte spopolato per creare una no man’s land fra sé e gli invasori, verso la fine dell’VIII secolo. Il problema inverso, quello cioè del ripopolamento di quelle terre, si pose dunque ai suoi successori riconquistatori. Durante il medesimo decennio nel quale morirono i martiri di Cordova, il re Ordono I ricostruì Tuy e Astorga nell’854, fortificò Amaya, massacrò un’armata araba ad Albelda, aprendosi così la strada verso l’alto Ebro attraverso la Rioja. E soprattutto, per lasciar parlare qui la cronaca di Alfonso III, “riempì le città ricostruite, a partire dalla futura capitale Léon”, -dall’856 in poi- “con una popolazione giunta in parte dai suoi territori, e in parte dalla Spagna”: vale a dire, in termini espliciti, di emigrati dalle Asturie e dalla Galizia, ma anche di mozarabi.
Alfonso III il Grande estese questa politica di ripopolamento alle regioni riconquistate dai suoi eserciti, fra i Pirenei Cantabrici e il Duero. Sulle sue rive, egli costruì le città fortificate di Simancas, Toro e Zamora –ripopolate nell’893 con mozarabi di Toledo. Questa forte immigrazione ha un riscontro nei patronimici arabi dei documenti e nella più antica toponomastica di Léon. Occorre soffermarci particolarmente sulla categoria dei monaci immigrati; infatti è all’interno e per opera di queste comunità che sono stati creati, prima che altrove nel territorio Leonese, i capolavori dell’arte mozarabica, dall’architettura alla miniatura.
Bisogna qui citare qualche dato e qualche data esemplare. Nell’862 tre religiosi mozarabici, l’abate Ofilon, il prete Vincenzo e la monaca Maria, vennero installati dal re Ordono nell’antico monastero di Samos in Galizia, con l’incarico di ricostruire e ristabilire la vita religiosa. Lo stesso fece Alfonso III nel 904 per l’abate Alfonso e i suoi monaci, giunti dal monastero di San Cristoforo fuori le mura a Cordova, alla città di Zacharia, situata sull’antica strada romana da Pamplona a Léon che allora stava per diventare il camino de Santiago. Non lontano da lì la chiesa dei santi Facondo e Primitivo, distrutta da una correrìa de Moros nell’883, sarebbe diventata il famoso monastero di Sahagùn. Non senza una tragedia, che dimostra come l’esodo verso le terre cristiane non sia stato una soluzione di comodo per i monaci e i laici mozarabi, bensì una vita pericolosa sulla frontera, paragonabile a quella dei kibbutz di frontiera di Israele: a più riprese, e particolarmente alla fine del X secolo, nel corso delle spedizioni devastatrici di Almanzor, questo monastero, situato su un percorso comodo per le invasioni, sarà distrutto, e i suoi abitatnti massacrati. Sempre nella prima metà del X secolo vennero fondati (o rifondati) i monasteri di Mazote, Penalba, Wamba, alla fine del IX secolo quello di Tàbara, poco dopo la metà del X secolo quello di Castaneda alle porte meridionali della Galizia. Ovunque, in questi edifici, i documenti e le opere d’arte testimoniano un’emigrazione mozarabica, il più delle volte dal momento della fondazione, e talora, si è visto, un’immigrazione precisamente da Cordova. Ed è proprio in queste isole mozarabiche, mantenutesi nel cuore dei regni cristiani dalla precaria libertà, che si è andata in maggior misura diffondendo l’arte che noi chiamiamo mozarabica. E’ una fedeltà paragonabile al loro modo di vivere da cristiani, e di costruire, cesellare e dipingere per Dio, che i mozarabi di Toledo manifesteranno dopo la riconquista cristiana nel 1085, ma anche tutti coloro che avranno conservavato la propria identità culturale e la fedeltà alle comunità mozarabiche del sud, man mano che ad esse si andrà estendendo la riconquista –tant’è vero che molte sono sopravvissute alla successiva dominazione degli Almoravidi e degli Almoadi…
Così, la sola traccia della loro storia consente di capire meglio come si è formato il contenuto di ciò che noi intendiamo con il sostantivo “mozarabico”. Tre elementi distinti hanno portato i mozarabi a recepire e a far capire meglio come si è formato il contenuto di ciò che noi intendiamo con il sostantivo o l’aggettivo “mozarabico”. Tre elementi distinti hanno portato i mozarabi a recepire e a far capire la propria originalità nei tipi di società dove in tempi successivi sono sopravvissuti in quanto mozarabi. In primo luogo il contatto con l’Islam, nella Spagna meridionale e centrale soprattutto, occupate e sempe più profondamente influenzate dai conquistatori arabi. Inoltre la loro condizione di “persone trasferite” all’interno o alla “frontiera” dei regni conquistatori del nord, dove lentamente e progressivamente si sono amalgamati nel crogiolo leonese e castigliano, ma anche navarrino, aragonese e catalano: processo, questo, accelerato, se non forzato, dall’opera di romanizzazione del monachesimo e della liturgia, realizzatasi sotto l’influenza dei cluniacensi dalla fine dell’XI secolo in poi. Infine, occorre lasciare uno spazio a parte agli irriducibili, a coloro che hanno incessantemente tentato di riconquistare la propria indipendenza politica sin dai primi decenni dell’invasione, e che vi sono sovente riusciti tra il 711 e il 1085. Sono i mozarabi della “urbs regia”, coloro che hanno strappato ai principi riconquistatori il mantenimento dei loro privilegi religiosi, e che sono, ancora oggi, fieri di poter ricevere i sacramenti secondo l’antico rito ispanico e di essere così riconosciuti come “mozarabi”: un nome che sono stati i primi, almeno allo stato delle nostre ricerche, a portare nei documenti ufficiali.

Un capitolo certamente importante della storia dei cristiani mozarabi è quello della loro liturgia. Riproduciamo, come introduzione alla questione, l’articolo “Liturgia mozarabica” di Luigi Casanas Guasch, dell’Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1952, vol.VIII, coll.1496-1498.
La liturgia mozarabica sopravvisse, nel momento in cui la Chiesa cattolica latina uniformò differenti riti occidentali nella liturgia romana, grazie all’opera intelligente del card. Francisco Ximenes de Cisneros che volle preservarla nella cappella del Corpus Christi della cattedrale primaziale di Toledo:

LITURGIA MOZARABICA
Liturgia usata ufficialmente nella Spagna fino alla seconda metà del sec. XI, in cui si impose la liturgia romana, ma conservata nei secoli seguenti, dal XII al XV, in alcune parrocchie di Toledo e, dal sec. XVI ai nostri giorni, nella cappella del “Corpus Christi” della primaziale di Toledo.

ORIGINE
Si può affermare sicuramente che la liturgia m. nel suo insieme non è di origine orientale, ma occidentale, e in essa il carattere generale e i numerosi riti furono importati dall’Italia, probabilmente da Roma, dai primi predicatori del Vangelo in Spagna: il resto è opera dei vescovi, dottori, letterati, musici della penisola (cf. M.Férotin, Liber ordinum... ). Liturgia quindi nettamente di origine latina, precisamente romana nei suoi inizi, però sviluppata specialmente dal sec. VI (in cui l’unità politica, attuata dal re Leovigildo diede impulso all’unità liturgica, con la conversione di suo figlio Recaredo alla fede cattolica [587]) fino all’inizio del sec. VII nell’ambiente patrio senza altre influenze straniere. A plasmare questa unità furono i padri dell’epoca visigotica, fra cui maggiormente benemeriti: Pietro di Lerida (secc. V-VI), s.Leandro di Siviglia (m. nel 599), Giovanni, vescovo di Saragozza (m. nel 631). Meritano speciale menzione gli arcivescovi di Toledo che con grande impegno lavorarono non solo nel restaurare la liturgia, ma anche nell’arricchirla di nuovi elementi: Eugenio (m. nel 657), che ebbe un interesse speciale per il canto che da lui si chiamò canto eugeniano; s.Ildefonso (m. nel 669), autore di molte messe e di alcuni cantici in onore di s.Leocadia di Toledo; s.Giuliano (m. nel 690), che compose inni ed un Messale.

ABOLIZIONE
Nel sec. XI si ha l’abolizione ufficiale della liturgia m. in Spagna per lo meno in Castiglia, Aragona e Navarra, nonostante restino indizi che in alcuni luoghi, anche dopo, la celebrazione della liturgia m. era unita a quella romana, e quest’ultima subì non poco l’influenza di quella fino all’unificazione nella Messa e nell’Ufficio divino con l’edizione del Messale e Breviario di s.Pio V. Causa di questa abolizione fu in primo luogo l’uso dei testi m. fatto da Elipando di Toledo e Felice di Urgel a conferma del loro errore adozianista che determinò forte avversione e un’aperta ostilità verso il rito m. e indusse le legazioni pontificie, inviate per esaminare i riti, ad abolirlo. A quanto sembra, la celebrazione della Messa e dell’Ufficio Romano in sostituzione di quello m., si iniziò nel monastero di S.Salvador de Leyre (Navarra) nel 1067, sotto il Regno del re Sancho. Lo stesso avvenne nel marzo del 1071, nel monastero aragonese di S.Juan de la Pena. Mancano dati sicuri sulla introduzione del rito romano nel territorio catalano, ma si può con assai probabilità affermare che nei sec. VIII e XI vi fu una coesistenza dei due riti o una influenza del rito romano sul rito m., specialmente nel canto. I codici che si conservano nelle cattedrali di Vich e di Gerona sembrano confermare queste asserzioni. Gregorio VII continuò l’opera dei suoi predecessori, rivolgendosi al re di Spagna, all’abate di Cluny e al vescovo Simeone, facendo intravvedere il suo intento di conservare l’unità nella Chiesa attraverso l’unità liturgica. Conseguenza ne fu lo stabilirsi nei Regni di Castiglia e di León del rito romano, secondo la decisione del Concilio di Burgos nel 1080; buona parte in questo mutamento ebbero i monaci di Cluny ed anche la stessa regina Ines, prima moglie di Alfonso VI. L’esito ottenuto dal Papa non fu però completo. Toledo, ancora soggetta ai Mori, ritenne il suo rito proprio; ma caduta la città nelle mani di Alfonso VI (25 maggio 1085), questi e l’arcivescovo, con l’approvazione pontificia, imposero il rito romano; il rito m. sarebbe tuttavia rimasto nelle sei parrocchie esistenti, di S.Giusta e Rufina, S.Marco, S.Eulalia, S.Sebastiano, S.Luca e S.Torquato, come difatti si continuò a fare fino agli inizi del sec. XVI. Altra causa che determinò il decadimento del rito m. fu il fatto che non esisteva né il Messale plenario né il Breviario, ma soltanto i libri particolari per coloro che intervenivano alla celebrazione degli Uffici liturgici. Vi fu pure il grave inconveniente che questi libri erano scritti con caratteri visigotici la cui lettura si fece sempre più difficile per la maggioranza dei lettori. Dimenticandosi a poco a poco l’Ufficio m. da parte di quelli che dovevano conservarlo, esso sarebbe inevitabilmente caduto in rovina se l’intelligenza e lo zelo del card. Francisco Ximenes de Cisneros non avesse disposto (1495) l’edizione del Messale (1500) e Breviario (1502) plenari e costituito la cappella m. del “Corpus Christi” nella Cattedrale primaziale di Toledo, nella quale ormai oggi unicamente sopravvive la liturgia m. Non si può dire con ciò che la liturgia che si trova nel Messale e nel Breviario del Cisneros sia in tutta la sua purezza la liturgia m., perché è indubbio che, malgrado l’opera immensa della commissione di parroci presieduta dal canonico Ortiz, non si poté giungere a formulare la Messa e l’Ufficio secondo la vera liturgia ispanica.

CODICI LITURGICI MOZARABICI
Le fonti letterarie del rito m. si trovano attualmente nei codici della cattedrale di Toledo, della Biblioteca nazionale di Madrid, dell’Accademia di Storia, della Biblioteca privata del Re di Spagna, di quella dell’abbazia di Silos, della cattedrale di León ecc., oltre che in varie biblioteche straniere, come la Biblioteca nazionale di Parigi, la Capitolare di Verona e il British Museum di Londra. I più importanti sono: il Sacramentario di Toledo (cod.35.3), della seconda metà del sec. XI; l’Orazionale di Verona della fine del sec. VII o principio del sec. VIII, il più antico dei codici m. proveniente dalla chiesa di Tarragona (cod. LXXXIX: ed.J.Vives, Barcellona 1946); il Liber Ordinum dell’abbazia di Silos del sec. XI; l’Antifonario di León della fine del sec. IX o principio del sec. X (cod. 8 della cattedrale di León). Tutti i codici che attualmente si conoscono, eccettuato l’Orazionale di Verona e l’Antifonario di León, sono del sec. X o XI, però è certo che sono copie di codici più antichi andati perduti, e dunque logicamente la liturgia che ci offrono è quella vivente in Spagna nei secoli anteriori.

10. S.Giovanni della Croce e la composizione del “Cantico spirituale A” a Granada

S.Giovanni della Croce trascorse alcuni anni della sua vita a Granada (siamo chiaramente nella Granada immediatamente successiva alla Reconquista). Il “Cantico spirituale A” reca come parole di introduzione: “Spiegazione delle strofe che trattano dell’amore tra l’anima e Cristo suo Sposo, in cui si toccano e si spiegano alcuni punti ed effetti dell’orazione, scritta a richiesta della Madre Anna di Gesù, priora delle Scalze di S.Giuseppe in Granada. Anno 1584”.
Il Carmelo maschile, nel quale Giovanni della Croce abitò oggi non esiste più. Sorgeva dove ora sono i giardini pubblici detti del Carmen de los Martyres, non lontano dal Museo De Falla, vicino all’Alhambra. E’ possibile passeggiare in essi e giungere fino al cedro che la tradizione vuole piantato dallo stesso S.Giovanni della Croce, dove una targa ricorda la sua presenza granadina. A più riprese le strofe ed il commento del “Cantico spirituale A” fanno riferimento alle acque correnti che ammiriamo nel giardino ed alla vegetazione che ne nasce.


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Note

[1] Traduzione di Giulia Balzerani dalla versione francese in Etudes Arabes.Dossiers, Al-Dhimma. L’Islam et les minorités religieuses, n.80-81, 1991/1-2, Pontificio Istituto di studi arabi e d’islamistica (PISAI), Roma, pp.8-11.

[2] (N.d.R.) ‘Abd al-Rahmâm b.Ganm, figlio di un compagno di Maometto. Era stato inviato in Siria dal califfo Omar. Sarebbe morto nell’anno 78 dell’egira.

[3] Etudes Arabes.Dossiers, Al-Dhimma. L’Islam et les minorités religieuses, n.80-81, 1991/1-2, Pontificio Istituto di studi arabi e d’islamistica (PISAI), Roma, p.5.

[4] Etudes Arabes.Dossiers, Al-Dhimma. L’Islam et les minorités religieuses, n.80-81, 1991/1-2, Pontificio Istituto di studi arabi e d’islamistica (PISAI), Roma, p.1.

[5] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg. 9-10.

[6] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg. 14-16.

[7] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.108.

[8] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.14.

[9] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg. 16-17.

[10] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg. 205-206.

[11] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.19-20.

[12] Etudes Arabes.Dossiers, Al-Dhimma. L’Islam et les minorités religieuses, n.80-81, 1991/1-2, Pontificio Istituto di studi arabi e d’islamistica (PISAI), Roma, p.5.

[13] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.20-22.

[14] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg. 24-26.

[15] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.26-27.

[16] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.28-29.

[17] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.31.

[18] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.40.

[19] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.41.

[20] Etudes Arabes.Dossiers, Al-Dhimma. L’Islam et les minorités religieuses, n.80-81, 1991/1-2, Pontificio Istituto di studi arabi e d’islamistica (PISAI), Roma, p.5.

[21] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.31-32.

[22] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.32-33.

[23] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.34.

[24] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.34-36.

[25] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.36-37.

[26] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.38.

[27] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.46.

[28] Secondo l’uso ottomano il nome Giuseppe veniva pronunciato Yūsuf per i musulmani, Yūsūf per i cristiani e Yāsif (o Yāsef) per gli ebrei. David, Giacobbe, Abramo e altri nomi biblici erano analogamente pronunciati in modo diverso (B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.199).

[29] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.41-42.

[30] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.43-44.

[31] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.45.

[32] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.49-50.

[33] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.51-54.

[34] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.54-55.

[35] B.Lewis fa riferimento agli studi di H.Z. (J.W.) Hirschberg, A History of the Jews in North Africa, J.F.P. Hopkins, Medieval Muslim Government in Barbary e R. le Toureau, The Almohad Movement in North Africa in the Twelfth and Thirteenth Centuries. La dominazione degli Almohadi nella Spagna islamica si colloca negli anni 1121–1269.

[36] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.56-57.

[37] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.58.

[38] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.60-61.

[39] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.63.

[40] Il rapporto delle minoranze cristiane con potenze non islamiche era sfruttato in caso di conquista da parte di queste ultime. Gli eserciti si appoggiavano così, talvolta, sui cristiani locali. Ma, se la situazione si rovesciava nuovamente, una reazione era da aspettarsi poi nei loro confronti. Esemplare è, a questo proposito, il caso della presenza napoleonica in Egitto, in un periodo cronologico, però, ben successivo, ovviamente, a quello che stiamo analizzando:

Più a sud, in un caso meglio noto al mondo occidentale, la spedizione di Bonaparte in Egitto fece ampio ricorso ai servigi dei copti e di altri cristiani nella sua amministrazione. I sentimenti di un egiziano, al-Jabartī, forse l’ultimo dei grandi storici islamici di stampo classico. Membro dell’ulema per nascita ed educazione, al-Jabartī non era un cieco fanatico, né un indiscriminato avversario delle cose non musulmane. Egli riconobbe alcuni dei meriti del dominio francese, e espresse un particolare apprezzamento per l’impegno francese verso la giustizia, una delle qualità maggiormente stimate nella scala musulmana dei valori politici. Non apprezzò invece la loro emancipazione degli abitanti non musulmani dell’Egitto, in quello che significò la fine della dhimma. Al-Jabartī commenta ripetutamente con amarezza l’impiego dei copti e di altri dhimmī da parte dei francesi. Si sentiva in particolare offeso dal fatto che essi indossassero abiti raffinati, portassero armi, contrariamente all’uso tradizionale, esercitassero la loro autorità sugli affari e le persone stesse dei musulmani, e in generale si comportassero in un modo che gli pareva l’opposto del giusto ordine delle cose, secondo quanto era stato stabilito dalla Legge di Dio. Al-Jabartī era un osservatore equanime che trovava molto da ammirare nei francesi e molto da criticare negli ottomani. Nondimeno diede un caldo benvenuto al ritorno dell’autorità ottomana e, con essa, dell’ordine tradizionale che comprendeva, in particolare, la restaurazione della dhimma e le limitazioni imposte ai suoi compatrioti copti. Quella di al-Jabartī non è l’unica reazione musulmana negativa davanti ai concetti egalitari della Rivoluzione Francese. Dal 1798, quando ebbero inizio le ostilità fra la repubblica francese e l’impero ottomano, i documenti ottomani fanno spesso riferimento alle “assurde e insensate” idee di uguaglianza fra l’umanità.

[41] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.65.

[42] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.63-64.

[43] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.105-107.

[44] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.93.

[45] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.94.

[46] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.95.

[47] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.96-97.

[48] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.97-98.

[49] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.98.

[50] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.140.

[51] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.208.

[52] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.69.

[53] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.73.

[54] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.74-76.

[55] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.81.

[56] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.86-87.

[57] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.87.

[58] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.88.

[59] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.90.

[60] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, p.91.

[61] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.92-93.

[62] B.Lewis in Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze, 1991, pagg.108-109.

[63] L’opera di Corbin, che ha insegnato a Parigi e Teheran, rivendica una maggior originalità dei pensatori islamici d’Oriente, in particolare di area persiana, rispetto a quelli d’Occidente. La filosofia islamica, secondo la sua riflessione, ha caratteri peculiari per i quali non si deve pretendere di ritrovare nell’Islam “l’esatto equivalente di quello che in Occidente, da alcuni secoli, chiamiamo filosofia”. In particolare “la netta distinzione fra filosofia e teologia risale, in Occidente, alla Scolastica medioevale. Essa presuppone una secolarizzazione di cui l’Islam non poteva avere idea, per la semplice ragione che l’Islam non ha conosciuto il fenomeno Chiesa, con tutte le sue implicazioni e conseguenze” (pag. 15).


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