Giuseppe Pontiggia: tracce di un cammino di preghiera (tpfs*)

Un capitolo dell’ultimo romanzo dello scrittore Giuseppe Pontiggia, Nati due volte, ha per titolo: “Preghiere”. Nati due volte racconta il rapporto di un padre, giovane insegnante, con il figlio disabile Paolo. La vita di Pontiggia e del figlio Andrea è adombrata nel romanzo. Nel capitolo che mettiamo a disposizione on-line la preghiera ci appare come cammino che modifica le impostazioni di partenza, proprio per aderire alla vita da cui sgorga. E’ la preghiera di un padre a trasformarsi, è la presenza di un figlio a rinnovare la vita di un padre, è il distendersi della vita dinanzi alla crescente consapevolezza del tempo e dell’eternità, è la consistenza della vita umana dinanzi al mistero.
Ci tornano in mente le parole di André Godin, nell’opera Il desiderio e la realtà. Psicologia delle esperienze religiose: “ Secondo lo psicanalista T.Reik,l’evoluzione dell’uomo verso la sua maturità religiosa presenterebbe tre mutazioni di desiderio:
a) Sia fatta la mia volontà.
b) Sia fatta la mia volontà con l’aiuto di Dio.
c) Sia fatta la tua volontà.
Tali mutazioni sarebbero, in tal modo, parallele o omologhe a quelle della vita affettiva del bambino, nel contesto delle relazioni familiari”.
Non si prega per restare gli stessi, come non si ama se si desidera essere impassibili.
Nati due volte è pubblicato da Mondadori, Milano, 2000, ed il capitolo Preghiere è alle pagine 182-188. Segue il testo di Pontiggia, in questa pagina web, un articolo di mons.Gianfranco Ravasi dal titolo Il segreto di Pontiggia, testimonianza ulteriore della presenza del mistero nella vita del nostro autore. Tale articolo è tratto da Avvenire del giovedì 6 maggio 2004, Agorà V. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione, se la messa a disposizione di questi due brani sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

d.Andrea Lonardo


Indice:


Preghiere
da Nati due volte
di Giuseppe Pontiggia

La guarigione, finché Paolo ha avuto due anni, doveva essere completa . Era la mia richiesta quando pregavo, la domenica, durante la messa. Avevo ripreso ad assistervi dopo anni di distacco e, supponevo, di congedo. Ero convinto da una voce interiore (la udivo distintamente, direi fisicamente, e non mi sembrava la mia) che sarei stato esaudito.
In seguito ho diminuito la richiesta. Ho abolito l’aggettivo completa . Mi bastava che la guarigione fosse parziale. Ero disposto, in quella trattativa appassionata quanto squilibrata con chi può tutto, ad accettare qualche minorazione in Paolo. Concessioni (non so se a me o all’Onnipotente) che una volta mi sarebbero parse atroci; ma che ora – poiché le sue condizioni si rivelavano più gravi, almeno rispetto alle nostre aspettative – mi sembravano accettabili. Sentivo la voce, dopo un silenzio prolungato, che mi rispondeva sì, lo otterrai.

Uscivo da quell’appuntamento rinfrancato. E anche confortato dalla mia accortezza nella trattativa. Non promettevo cose che non avrei saputo mantenere. No, non avrei lasciato lei, questo non lo promettevo. Non potevo perderla per una mia decisione, né ero pronto per una amputazione cui non avrei saputo rassegnarmi. Neanche l’Onnipotente del resto me lo chiedeva. Mi sentivo abbastanza sicuro della sua tolleranza, anche se preferivo non sottoporlo – e sottopormi – alla prova del sì. Che cosa avrei fatto se mi avesse risposto di no? Mi rendo conto che quel modo di pregare può apparire assurdo o irresponsabile. Posso solo rispondere che era il mio. Taccio però il trasporto, il fervore e il rapimento con cui pregavo. Lo lascio – come dicevano una volta i narratori quando volevano sottrarsi al rischio di una caduta – immaginare al lettore. Altri invece, oggi soprattutto, lo raccontano, ma non so se il lettore ci guadagna. L’emozione è insidiata dalla commozione, che vela gli occhi e ostacola la voce. Basta che il lettore attinga alla sua esperienza e non avrà difficoltà a capire. E’ certo che nessuno prega l’Onnipotente con le mani in tasca. Facevo invece concessioni sugli incontri con lei. L’avrei vista una volta in meno alla settimana, benché questo comportasse trattative anche con lei, che ignorava le mie trattative con l’Onnipotente. E promettevo inoltre sacrifici della gola, non privi di ricadute positive sulla dieta, che da sola non sarebbe bastata a impormeli. Forse contavo, per questo compromesso utilitario, sulla longanimità e l’indulgenza del mio Interlocutore. Non sulla sua distrazione, data l’onniscienza.

Questa bilancia paranoica del dare e dell’avere non so dove io l’abbia appresa. Può darsi da bambino nelle scuole religiose, dove una giustizia finalmente divina garantisce la remunerazione dei fioretti. Era comunque un progresso rispetto ai comandanti romani, che per non vedere, prima di una battaglia, segnali sfavorevoli degli dèi, chiudevano le tende della portantina, sperando di indurli a un cambiamento di programma. Io forse, ammaestrato dai secoli, non seguivo un legalismo formale, ma una linea più morbida. Chiedevo una guarigione miracolosa, ricordando che nei Vangeli la fede l’aveva spesso ottenuta. Ma com’era la mia fede? Intermittente e ondulatoria: alta nelle occasioni del bisogno, tenue e circospetta nelle altre. Quando ci chiediamo se gli antichi credevano veramente, dovremmo chiederci come crediamo noi.
C’era però qualcosa di invincibile nel bisogno di pregare, una necessità non meno ineluttabile di quella in cui mi dibattevo. E che la ragione la considerasse irriducibile a sé non mi inquietava, perché la sua evidenza era maggiore. Vivevo questa percezione solo quando pregavo, come la luce abbagliante di un falò a pochi metri di distanza. A mano a mano che mi allontanavo, il chiarore diminuiva nella notte e si dissolveva nella luce del giorno. La frase che nei Vangeli congeda chi crede alla guarigione, “Va’, la tua fede ti ha salvato”, io la sentivo quando ero vicino al fuoco. Ma non mi accompagnava più mentre rientravo a casa, trasformata in una palestra nevrotica per progressi troppo lenti. Solo adesso, trent’anni dopo, comincio a capire: ovvero ad acquistare, almeno retrospettivamente, più pazienza. Da giovani chiediamo a Dio tutto e subito, perché Dio è giovane come noi. Poi invecchiamo e anche Dio diventa più lento. Del resto ci ha lasciato il tempo per maturare. In questi giorni sono stato visitato, per un mio disturbo, da un giovane omeopata, cui ho chiesto incautamente: “Guarirò?”. Mi ha guardato perplesso e mi ha risposto: “Lei parla di guarire? Se pensa alla morte vedrà che il verbo guarire non può più avere il senso che lei gli attribuisce”. Ho annuito, stupito a mia volta che un giovane, di trent’anni minore di me, avesse riflettuto così proficuamente sul tema della guarigione. Comunque ho cambiato medico.
La sua frase mi ha per altro aiutato a capire che neanche dalla stupidità guariamo completamente. E sulla preghiera ho cambiato idea, come sulla guarigione. Forse preghiera e guarigione convergono, la preghiera è guarigione: non dal male, ma dalla disperazione. Perfino nel momento in cui si è soli, la preghiera spezza la solitudine del morente. Ancora oggi mi mette in contatto con una voce che risponde. Non so quale sia. Ma è più durevole e fonda della voce di chi la nega. Tante volte l’ho negata anch’io, per riscoprirla nei momenti più difficili. E non era un’eco.
Lo so che prega chi sopravvive e chi muore, chi vince e chi va incontro alla sconfitta. Ma ho rinunciato da tempo alla contabilità celeste, al bilancio del dare e dell’avere, alle aspettative fiscali del divino. Mi accontenterò (mai verbo più malinconico e più lucido) di un ultimo appuntamento con la voce. Quando tutto mi mancherà, lei non mi mancherà.

Un disabile crede per compensazione. Questo almeno è ciò che credono gli altri. L’interpretazione, astuta e caritatevole, non manca di una sua coerenza. Se ci si rivolge all’Onnipotente quando se ne ha bisogno (la cosa accade anche nei rapporti tra gli uomini), chi, più del disabile, che vive nel bisogno di assistenza, ha bisogno di Lui? Questo confermerebbe tra l’altro che i miei rapporti con l’Onnipotente non sono poi così anomali rispetto alla media.
“Che fortuna!” dicono della fede di Paolo. “Altrimenti, nelle sue condizioni...” aggiungono i più sensibili, senza finire, per delicatezza, la frase. “Che aiuto formidabile!”, commentano i più euforici. I più cinici, che si sentono anche i più lucidi, riprendono Voltaire: “Se non ci fosse, bisognerebbe inventarla”. Non pensano a se stessi, pensano a lui. E’ l’utilità marginale dei disabili, come direbbe un economista del dolore sociale. Hanno una delega collettiva a soffrire per gli altri. E il loro carico si ingigantisce perché vi si occulta quello universale. La realtà però è lievemente diversa. Abituati a convivere con la minorazione – e a sopportarla -, i disabili non ne hanno l’immagine insopportabile di chi è sano. E la fede non è una fuga, ma una conquista.
I poveri avranno il regno dei cieli, non è un cambio sfavorevole. Chi ha il regno della terra, ovvero di una sua particella, non ha di che commiserarli, ma lo fa ogni volta. E’ l’aspetto grottesco di un rapporto dove chi commisera è il primo che dovrebbe essere commiserato. Guai però a dirglielo. Chi ostenta pietà non sospetta di ispirarla negli altri. E’ anzi il suo modo di esorcizzarla e di tenerla lontana. Mentre è la via più breve per meritarla.

So che Paolo ha una attrazione particolare per le cerimonie. Preferisce quelle festose, come battesimi, cresime e matrimoni, ma anche quelle funerarie lo riempiono di gratificata compunzione. Glielo ho fatto notare cercando di essere lieve e ironico, ma non ha gradito. E’ bravo – mi riferiscono voci di quartiere – anche nelle consolazioni per la perdita di parenti e amici, un genere classico che sembra caduto in disuso. Lui invece impiega le risorse di un linguaggio lento e roco per dire parole che sembrano arrivare da lontano ed emozionano chi le ascolta. La cosa mi fa piacere e mi turba. Non vorrei ne sopravvalutassero la forza perché espressa dalla debolezza. Decido di essere sincero con lui (ossia ho bisogno di lui ) e gli confesso che resto, a queste notizie, sia contento sia sconcertato. Lui mi guarda, a sua volta, tra rassegnato e deluso. Mi dice con la sua voce affaticata:
“Sei stupito, vero?”
Una volta mi ha detto, con una gravità sorridente, una frase di assonanza evangelica:
”Non sei solo tu il maestro”.

Mi capita di ricorrere a lui come intermediario. Si vede che condivido, a mia insaputa, l’idea che la minorazione abbia un accesso speciale presso l’Onnipotente. E che l’Onnipotente sia a sua volta sensibile alle raccomandazioni. Sono talmente colpito dalla assurdità di questa prospettiva che cerco di difendermi pensando a quanti la condividono. Il risultato è soltanto che la ingigantisco di scala e che una assurdità collettiva getta la sua ombra (o la sua luce?) anche su di me.
Lui mi guarda e intuisce di quali percorsi tortuosi è frutto la mia richiesta. Mi risponde con una frase che forse ha sentito in chiesa o all’oratorio (nel giudicare obiettivamente i figli oscilliamo tra la megalomania compensatoria e la sottovalutazione apprensiva). Ha comunque il merito di farla sua al momento giusto, che è un modo in cui si manifesta l’originalità:
“Guarda che la preghiera non è magia”.

Il segreto di Pontiggia
di Gianfranco Ravasi

U na lettera dal Paradiso , s'intitolava così il racconto di Giuseppe Pontiggia che la San Paolo ha pubblicato postumo lo scorso Natale. Quel titolo m'era sembrato quasi un saluto che Peppo - come gli amici lo chiamavano - aveva inviato alla moglie Lucia, al figlio Andrea, il testimone efficace dell'ultimo romanzo Nati due volte , e a tutti noi che in forme diverse siamo stati legati a questo forte e delicato personaggio della cultura italiana. Di lui si è scritto tanto e la sua presenza aleggia ancora...
Ma in particolare l'attenzione in questo anno ancora incompiuto che ci separa dalla sua morte, avvenuta nella notte tra il 26 e il 27 giugno 2003, si è puntata su un aspetto meno appariscente eppur decisivo della sua figura e della sua opera, quello della spiritualità: basti solo scorrere le pagine che il gesuita Ferdinando Castelli gli ha dedicato sulla «Civiltà cattolica» del 20 marzo scorso sotto il titolo emblematico Giuseppe Pontiggia alle prese col mistero . Ne vorrei parlare anch'io ora in modo molto libero ed essenziale secondo le due vie che mi si aprono dinanzi e che per me s'incrociano tra loro: quella del dialogo personale e intimo che ho avuto per anni con lui, dialogo sobrio eppur intenso, e quella dei suoi scritti.
Già il suo linguaggio scritto e parlato apparteneva all'ascesi, all'icasticità evangelica, alla purezza incisiva dei loghia , gli aforismi spesso usati da Cristo. Era una «castità di linguaggio» (secondo la bella definizione di Lorenzo Mondo) capace di centrare il bersaglio, sapendo essere sferzante senza essere aggressivo. Anzi, una paziente bontà velava sempre i suoi giudizi, anche perché a lui evangelicamente interessavano di più le Vite di uomini non illustri , come diceva il titolo di una sua raccolta di storie modeste eppur esemplari, vera e propria poetica dell'anonimato e degli ultimi della terra.
Egli si sentiva come i due protagonisti di una pagina lucana da lui prediletta, quella dei discepoli di Emmaus, l'uno con un nome irrilevante, Cleopa, e l'altro anonimo. Eppure in cammino, in ricerca. E così fortunati da sentire quella voce e riconoscere quel volto, a prima vista irriconoscibile. Pochi mesi prima della morte, al Centro culturale milanese, partendo da un teologo-filosofo outsider che gli avevo suggerito proprio io, aveva confessato: «Mi ha molto colpito leggere dei libri di Taubes, un rabbino molto attratto dal cattolicesimo e dalla teologia protestante, che diceva: Ma lasciamo perdere Hegel! E' ben più importante san Paolo, è importante la Lettera ai Romani!». Il fremito della ricerca aveva condotto anche Peppo, sulla scia dell'amatissimo Agostino, alle soglie del mistero.
Ecco, era questa - mistero - una parola che spesso si metteva di traverso nei nostri dialoghi, come in altri incontri di Pontiggia. Lo testimonia un altro amico comune, lo scrittore Ferruccio Parazzoli, che ci riferisce questa limpida attestazione raccolta durante un'intervista: «La ragione arriva fino a un certo punto e di là si apre lo spazio per la fede. Uno spazio che, se vuoi, puoi riempire. Per me questo spazio è il mistero... L'unica certezza da acquisire è quella del mistero. Le altre sono false certezze». Ora, la frontiera che più di tutte s'affaccia sul mistero è quella della morte. È per questo che spesso nei romanzi di Pontiggia la morte s'insinua nella molteplicità delle sue tipologie. Pensiamo solo al titolo del suo primo romanzo, La morte in banca , e alle parole che vi si leggevano su quella che era «una delle infinite morti nella vita», per cui l'esistenza stessa diventava quasi una catena di morti successive. Purtroppo di solito esse non approdano al mistero: gli intellettuali del Raggio d'ombra sono spettri deambulanti senza capacità di guardare oltre le loro siepi di rovi entro cui si proteggono, come la scomparsa del protagonista della Grande sera è una morte che è solo assenza, anche perché spesso uomini e donne «si scarnificano finché morte non tanto li separi, come dice la formula, ma finalmente li unisca».
Eppure c'è la possibilità di entrare in quello spazio infinito che sta oltre il confine del morire, la regione del mistero. È la via della preghiera. Quando celebrai i funerali di Pontiggia, nella chiesa milanese stracolma di amici e lettori, credenti e agnostici, volli concludere la mia omelia lasciando che «dal Paradiso» più che una «lettera» Peppo rivolgesse a tutti alcune sue parole sbocciate con freschezza - pur nel tradizionale cesello del suo linguaggio sempre terso e sorvegliato - nell'ultimo e personalissimo romanzo Nati due volte , «testo tanto scomodo sul piano concettuale, quanto vivificante sul piano spirituale», come aveva scritto un altro amico, il poeta e critico Marco Beck. Ero stato tentato di rivelare allora un segreto che non avevo voluto dire neppure a lui. Pochi mesi prima dal Vaticano mi era stato chiesto di suggerire un nome di scrittore per comporre i testi della Via Crucis futura del Venerdì santo. Io avevo proposto proprio Pontiggia, motivando anche la scelta, e se mai la cosa si fosse compiuta, avremmo forse scoperto un altro sorprendente viaggio nel suo mondo del mistero.
Ci rimangono, comunque, le sue parole sulla preghiera che quel mattino rovente di giugno risuonarono nel silenzio assoluto e commosso di quella chiesa: «Perfino nel momento in cui si è soli, la preghiera spezza la solitudine del morente. Ancora oggi mi mette in contatto con una voce che risponde. Non so quale sia. Ma è più durevole e fonda della voce di chi la nega. Tante volte l'ho negata anch'io, per riscoprirla nei momenti più difficili. E non era un'eco».


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