La meditazione è stata trascritta dalla viva voce dell’autore e conserva pertanto lo stile di testo parlato. Così l’omelia della messa domenicale, su Gv4, l’incontro di Gesù con la donna samaritana al pozzo di Giacobbe. I due testi non sono stati rivisti dall’autore.
L’Areopago
In questo anno dell’Eucaristia - e d’altronde in questo anno di
missione alle famiglie - credo possa aiutarci fermarci a riflettere che queste due
realtà, l’eucaristia e la famiglia, non sono poi così lontane tra loro come
a prima vista potrebbe sembrare.
Noi ormai siamo diventati un popolo che vive una religione superficiale ad orari. Prima ero in
fondo alla chiesa, molti entravano, vedevano che la messa oggi è spostata alle ore 12.00
e se ne andavano. Cambiato l’orario, perso l’interesse. Cosa significa questo
(senza giudicare nessuno che magari ha dei problemi)? Noi siamo diventati un popolo di
consumatori di religione. Consumiamo religione come consumiamo altre proposte che ci vengono
dai centri commerciali. Nella nostra vita ci sono piccoli tasselli e in alcuni di essi trova
spazio anche l’aspetto religioso. Dio c’è - in fondo lo crediamo, in fondo
il nostro cuore ce lo dice. I più intelligenti hanno capito che negare questo è
l’ultimo modo per dare interesse a questo. Però abbiamo dimenticato che Dio
è dentro la profondità della vita, e non è un tassello che di tanto in
tanto, ad intervalli di pochi giorni e di poche ore, torna a farsi interessante, per
tranquillizzare la nostra psicologia. Sembra che sia la cosa più importante oggi: basta
essere tranquilli. “Non ho problemi”. Non aver problemi non vuol dire essere
felici. Questo leggio di marmo non ha problemi, ma non è felice. Solo lo spirito umano,
proprio perché può essere travagliato, è felice. Questa introduzione
è per dire che noi viviamo tante cose in modo estraneo. Viviamo il nostro partecipare
all’eucaristia come se fosse una parentesi isolata dentro la nostra vita, dentro le
nostre giornate. Poi torniamo a casa e litighiamo tranquillamente.
Prendiamo la messa. Cosa succede quando veniamo a Messa? Partiamo da tanti
luoghi diversi. Siete tutte persone diverse, siamo cammini diversi, percorsi spirituali
diversi, eppure ci raduniamo perché una voce, che è quella della fede, ci chiama
all’unità. Perché Dio ci ha creati con dentro profondamente inscritto, un
disegno di unità. Noi con-veniamo. Noi non veniamo a messa seguendo una nostra
iniziativa, ma rispondendo a Dio che chiama. Siamo con-vocati, chiamati insieme.
Cos’è il fidanzamento se non questa con-vocazione? Essere con-vocati in una
chiamata che ci unisce. Cos’è la vita familiare se non essere radunati per un
progetto di comunione e di amore che tutti noi portiamo dentro? Vedete già quale radice
comune si esprime nel primo atto della Messa? Ed il fatto di essere tutti insieme radunati qui
non elimina nessuna delle differenze che ognuno porta in sé!
Ognuno resta pienamente se stesso, ma siamo convocati per un progetto unitario che supera
tutte le nostre particolarità. Questo medesimo movimento lo viviamo nella famiglia, dove
siamo radunati in molti, diversi, non per essere soffocati nelle nostre diversità: il
marito che vuole che la moglie sia simile a lui, le madri che vogliono che i figli pensino come
loro, ecc. Non si tratta di massificarci, ma di rimanere dentro un unico progetto di unione in
un amore rispettoso della verità dell’altro. Se io ti amo voglio che tu sia te
stesso. Come Dio ci convoca non per massificarci, ma perché la nostra unicità sia
esaltata, glorificata nella comunione. Questa è la natura dell’uomo. Nasciamo
maschi e femmine, non neutri, già inscritti in un progetto di comunione. Altrimenti cosa
significa che nasciamo maschi e femmine? E’ solo un fatto riproduttivo? Come per gli
animali? Noi nasciamo uomini e donne, con una originalità, perché siamo fatti per
un progetto di comunione. Sia nella famiglia, sia nella vita della Chiesa, sia nella vita
eucaristica c’è un movimento che unisce, nell’unità di Cristo,
ciò che sembra essere disperso e separato. Vi faccio qualche domanda: siamo convinti che
la diversità dell’altro sia una ricchezza? Sono convinto che la diversità
di mia moglie sia per me una ricchezza?
Sono convinta che il carattere di mio marito celi i suoi pregi sotto le sue
spigolosità? Che il carattere di mia moglie celi la sua bellezza sotto i suoi
difetti?
Sono convinto di dovere amare questa diversità, questa specificità unica che fa
sì che l’altro sia se stesso?
Una volta mi è stato risposto “Lei, padre, chiede troppo. Io posso sopportare
questo, ma non accettarlo”. Ho risposto “Non solo lo devi accettare, lo devi
volere. Se tu fossi Dio dovresti voler creare tua moglie così com’è. Con
quei pregi, con quel carattere lì, non con uno diverso. Dovremmo arrivare ad amare
l’altro per come è e per come si esprime nella sua unicità. Altrimenti non
amiamo, massifichiamo, vogliamo assorbire a noi, ma non amiamo fino in fondo.
Una volta che siamo radunati per la messa, la prima cosa che facciamo,
è quella di metterci davanti alla verità che siamo peccatori, chiedere perdono a
Dio e chiederci perdono gli uni gli altri. Il primo passo dell’eucarestia è
convenire, accoglierci, perdonarci. Perché? Perché il cristianesimo è una
religione figlia dei sensi di colpa? O perché siamo realisti? E sappiamo che la nostra
povertà è profonda e radicale. Noi la chiamiamo peccato originale. Sta
all’origine di noi stessi, minaccia la credibilità di ogni nostro atto, parola, di
ogni nostra intelligenza di amore e di ogni nostra sensibilità di affetti. Non voglio
fare la predica sul peccato, quindi mi fermo qui. Ma la disponibilità al perdono, questa
sì che mi interessa. Perdonare cosa significa? Sopportare l’altro? Giustificarlo?
Considerarlo, come fa qualcuno - anche nei conventi, non solo nelle famiglie - inguaribile?
“Non ci posso fare niente, ci rinuncio”. Questo non è perdonare, è
considerare l’altro talmente deficiente da non poter mai cambiare. Io non
l’accetto, non è perdonare. Perdono vuol dire che se anche tu fino ad oggi sei
stato la persona più debole della terra, la forza della tua libertà, immersa in
Dio, può produrre qualcosa di nuovo. Perdonare vuol dire credere che se anche tu fino ad
oggi se stato incapace di sorridere e tendere la mano, la forza di Dio e la forza dello Spirito
in te possono produrre ancora oggi una creatura capace di sorridere e tendere la mano.
Perdonare è credere che, se anche le ferite che ti porti dentro ti hanno reso
così, Dio può intervenire e donarti un’energia nuova che fa di te un uomo o
una donna nuova. Non si diventa nuovi se nessuno crede che tu puoi essere nuovo. Perché
Gesù guardava e risanava le persone che incontrava? Perché il suo sguardo era uno
sguardo di totale fiducia e di totale amore, anche se ti leggeva fino in fondo nel peccato.
Meno male che Dio ci nasconde i peccati. Non perché siano in sé qualcosa di
terribile, ma perché noi riduciamo la persona ai peccati che fa. Quello è
separato, quello è divorziato, quello è omosessuale, quello è un
farabutto. O no? Ma quello è un figlio di Dio! Tu sei capace di aprire il tuo cuore e
dargli fiducia? Perdonare vuol dire rendere l’altro nuovo con la fiducia che io gli do:
Vuol dire assumere l’altro, non senza i suoi peccati, ma con essi, dentro di essi, dentro
i suoi limiti. Vuol dire che io, cara moglie, non ti porto senza i tuoi peccati, ma con essi.
Li porto con te, perché in virtù del sacramento, diventano anche miei. E
viceversa. Vuol dire assumere l’altro, come ha fatto Cristo, fino a per-donare,
moltiplicare il dono all’infinito. Quando Cristo ha preso la nostra carne ha fatto
questo, questo noi siamo chiamati a fare. Il luogo originario dove si fa questo è la
famiglia. Non si impara a perdonare in confessionale, quando si diventa preti. Si impara a
perdonare in famiglia, quando non ci si scusa o ci si nasconde o si coprono i peccati.
“Non lo dirò a tuo padre!” In questo modo nascondi la verità del
figlio al padre. Ma una famiglia autentica, una famiglia viva, direi anche sana, umana prima
che cristiana, è quella dove uno può essere se stesso. Dove uno può
arrivare a essere presente anche con il proprio limite ed il proprio peccato, perché gli
sarà perdonato. Perché c’è un amore più grande, che è
la comunione d’amore della famiglia, che assorbe questo. Dove non devo nascondere il
peccato o non dirlo, cosa che crea un ambiente di menzogna, ma dove posso essere me stesso
perché sarò perdonato. Senza dover dire che il peccato è un bene,
perché rimane un male, ma dove io posso perdonare.
Siamo tutti peccatori, è c’è la difficoltà anche di ricevere il
perdono, non solo di darlo. E’ più difficile ricevere il perdono che darlo, capire
che io ho bisogno veramente di essere perdonato, di essere ri-creato da te. E che siccome io ho
i miei limiti, se tu ogni giorno non mi dai il tuo vero perdono, non mi dai la capacità
di vivere, di crescere, l’espansione del cuore. Quindi saper crescere nella verità
dell’umiltà, accettando il perdono. Senza pensare che io in casa sono il santo che
perdona e tu la peccatrice che riceve il perdono. Sapere che questo perdono è reciproco,
è un dono di accoglienza che ci facciamo gli uni gli altri. Questo apre le porte della
sapienza e rende concreta la fede. Perché né la comunione, né
l’amore della diversità, né l’amore dell’unicità che tu
sei, né il perdono reciproco si vivono dentro le mura di mattoni della chiesa. Ma la
chiesa è invece dove si vive questo nel concreto quotidiano della vita. Qui è la
sorgente, ma è la sorgente di un fiume che deve estendersi fino ai confini della terra.
Ecco cosa vuol dire missione alle famiglie. Non bussare e portare un libretto: questo
può essere l’occasione!
Cosa facciamo poi nell’Eucarestia? Ascoltiamo la parola di Dio.
L’uomo, come Dio, si rivela nella parola. Se io non dico quello che ho dentro il cuore...
Intendiamo “parola” in senso ampio. Posso dire che sono arrabbiato anche con un
gesto. Non occorre che io dica: “Sono arrabbiato!”. Ma noi ci esprimiamo con gesti
e segni e anche Dio ha parlato. La Parola di Dio narra la storia dei gesti d’amore di
Dio. Noi siamo capaci di comunicarci veramente? Quanta parte della vita passiamo a nasconderci
invece che a rivelarci? Cosa cerca la parola? Lo scopo della parola è incontrarsi.
Perché noi comunichiamo con gli altri? Perché siamo fatti per la comunione, per
l’incontro. Se uno parla da solo è matto. La parola è fatta per la
risposta, io parlo per avere risposta. Lo scambio degli affetti passa in buona parte per la
parola. Due persone sul punto di separarsi si sono parlate: “Ma io ti ho sempre
amato”, “Ma non me l’hai mai detto”. Interessante: puoi passare
trent’anni con una persona e non dirle mai una cosa. Un’altra coppia dallo
psicoterapeuta si confronta: “Ma tu non mi hai mai detto questa cosa” –
“Sì che te l’ho detta”. Vent’anni insieme senza sapere se si
sono detti alcune cose. Perché tante cose noi crediamo di dirle, ma non le diciamo.
Siccome siamo convinti di agire bene, pensiamo che l’altro se ne accorga. Siccome abbiamo
- in fondo, ma molto in fondo - il desiderio di comunicare, pensiamo di averlo fatto. Ma non
è automaticamente detto. Bisogna essere attenti a come comunichiamo e a cosa
comunichiamo. L’amore passa per la comunicazione. La comunicazione significa il tempo che
do a te, il tempo che passo a dialogare con te. Perché ci facciamo rubare il tempo della
parola, della comunicazione? Perché questo tempo sacro della comunicazione
intrafamiliare ce lo facciamo portare via da tutto e da tutti? Televisione, cinema, sport,
scuole di danza, mille impegni e poi non abbiamo mai comunicato. Io credo che se non abbiamo un
tempo - sarò esagerato ma credo che occorrano un paio d’ore al giorno - in cui sia
possibile far questo, difficilmente si vive bene e felici. Altrimenti ci alziamo, andiamo a
lavorare, torniamo, più che mangiare ci ingozziamo, buttiamo tutto in lavastoviglie,
torniamo al lavoro, torniamo a casa stanchi, tesi, ogni piccolo problema è un mezzo
litigio, ceniamo in qualche modo, con tutto sullo stomaco andiamo a letto, un po’ di tv e
ricominciamo il giorno dopo nello stesso modo. Sto un po’ calcando la mano per spiegarmi.
Il tempo della parola significa darsi il tempo per vivere qualcosa che è nostro. La
parola crea. Qual è l’ultima volta che abbiamo creato un vero dialogo in famiglia?
Che non vuol dire parlare dei problemi del figlio adolescente. Questo è lo stress in
famiglia, non il dialogo. Intendo dire qual è l’ultima volta che ci siamo seduti
sul terrazzo a gustare il ponentino solo per il gusto di farlo. Quello è il dialogo che
edifica. Il tempo per guardarci negli occhi. Quando ci siamo concessi il tempo di vivere, di
scegliere, di orientarci? Facciamo tutto come un dovere frettoloso, anche il volontariato e
l’affido familiare. Tutto è diventato un dovere tecnico e frettoloso. La vita
perde parola e perde poesia. Quale è l’ultima volta in cui ho saputo trovare un
modo nuovo per dirti che ti voglio bene? La parola è un atto divino dentro la famiglia,
non un atto umano. Noi confondiamo la parola con l’accusarci e il giustificarci a
vicenda. Dialogare, comunicare è un atto divino. Vuol dire che mi rifiuto di tenermi
dentro me stesso e mi apro per donarmi a te, per narrarmi a te. Quante parole non abbiamo
detto? O quante cose abbiamo fatto che sono rimaste dentro di noi, impronunciabili agli altri?
Questa è la rovina dell’uomo.
La religione si consuma in buona parte in queste cose: nell’accogliersi, perdonarsi,
dialogare in casa. In chiesa abbiamo l’aspetto più divino di questo, Cristo
dialoga con noi, Dio dialoga con noi, ma questo dialogo dovrebbe essere lo stesso dialogo che
continua fuori dalla chiesa. E’ lo stesso.
Se noi ci accogliamo, ci perdoniamo e dialoghiamo è per donarci
l’un l’altro. E siamo all’offertorio. Pensiamo a cosa succede durante
l’offertorio.
“Benedetto sei tu Signore, Dio dell’universo, dalla tua bontà abbiamo
ricevuto questo pane, frutto della terra e del lavoro dell’uomo”.
La terra non fa il pane, non esiste l’albero dei panini, e neanche l’albero delle
bottiglie. Esistono la vite ed il grano, il pane ed il vino sono frutto della terra e del
lavoro dell’uomo. Ciò che la natura ci ha dato, e che noi abbiamo lavorato. Noi
possiamo veramente offrire, non solo ciò che la natura ci ha dato. Non basta che
portiamo il grano all’Eucaristia, dobbiamo portare il pane. Il grano impastato da noi.
Non basta dire: “Io sono qui, mi dono a te”. Io devo anche lavorarmi per offrirmi a
te. Offro a te il grano della mia natura che sono, ma con tutto il processo di fatica, di
laboriosità, di costruzione del carattere, di ascesi, di sforzo, di impegno, che io ci
metto perché questo grano diventi mangiabile. Perché questo è divino,
perché se voglio essere simile a Dio devo essere mangiabile, perché Dio si
dà da mangiare, è la cosa più mangiabile che c’è. E’
l’albero della vita che sta al centro del giardino, è il frutto che si dà a
mangiare - c’è anche nell’Apocalisse. Quell’albero mi sembra sempre
più un’immagine di Dio. L’albero non ha senso senza frutti, un albero
sterile si taglia. Dio è un albero che dà frutti dodici mesi all’anno e le
cui foglie guariscono le nazioni. E se noi vogliamo essere simili a Dio dobbiamo diventare
mangiabili e questo non può accadere senza sforzo. Quando noi portiamo all’altare
il pane ed il vino noi portiamo quello che Dio ci ha dato e quello che noi abbiamo lavorato su
di esso. Il frutto della nostra fatica e del nostro impegno. Anche nel dono familiare,
perché la vita familiare è dono e offerta, cosa portiamo? Quello che Dio ci ha
dato e quello che noi investiamo per diventare gradevoli, capaci di sopportare, di dialogare,
di perdonare, di accogliere, di un sorriso, di non chiudere la porta della camera e non farsi
più sentire per giorni. Il dono di sé è la cosa più costosa che
c’è sulla terra. Se tu vuoi donarti devi dare te stesso, non soldi. Se ti doni
vuol dire che una parte di te non ti appartiene più. Quando ti sei donato hai detto:
“Io non voglio più vivere solo per me stesso, ma per l’altro, per
l’altra”. Hai detto all’altro io sono il campo e tu sei il seme, se tu cadi
su questo campo tu puoi usare il terreno, i sali minerali ecc. per sviluppare te stesso. Questo
vuol dire essersi donati nell’amore coniugale: essere il campo che offre all’altro
la possibilità di crescere.
Se io sono luce, tu sei il fiore, la mia luce ti illumina e fa risaltare la tua bellezza, il
mio calore fa circolare in te la vita, fa circolare in te l’ossigeno, la linfa,
perché tu viva. Amare significa far vivere qualcun altro, esattamente l’opposto
dell’essere una pompa aspirante che tira a sé l’amore degli altri e non lo
sa mai ridonare. E l’amore in famiglia è reciproco, io faccio questo per te, tu
fai quest’altro per me. Educare significa insegnare ai bambini, ai ragazzi, a fare
questo, man mano che crescono. Non cresceranno più felici se darete loro più
cose, ma se voi, avendo vissuto questo, sarete capaci di trasmettere questo. Altrimenti, anche
se diventeranno presidenti degli Stati Uniti saranno dei poveri infelici, perché solo
questo fa la felicità del cuore dell’uomo. Lo sappiamo, ma ci fa più comodo
pensare che i soldi rendono felici, perché i soldi non mi costano. Non sono me, il dono
di me stesso. Allora il fatto di offrirsi, di donarsi è importante. Cristo si è
donato, Dio si è donato fino alla morte di croce. Non ha tenuto niente per sé.
Tutto quello che noi teniamo per noi, nell’amore, è peccato, perché non
viene dalla fede.
Se noi veramente offriamo il nostro amore agli altri e a Dio, allora Dio lo accoglie, lo fa suo. Qui è il bello, Dio consacra il nostro dono. Cosa succede a messa? Dio accoglie questo pane e questo vino che noi abbiamo lavorato con un po’ d’acqua e qualche strumento, con la fatica delle nostre mani, lo accoglie e con il dono del suo Spirito fa in modo che quel pane e quel vino non siano più solo il frutto della vite e del nostro lavoro, ma presenza sua. Se noi ci doniamo autenticamente agli altri, Dio accoglie questo nostro sforzo e fa sì che il nostro amore non sia solo il nostro amore ma la sua presenza. E’ questo che manca sulla terra, la nostra disponibilità a dire a Dio: “Brilla in me, sii presente in me”. Il sacramento del matrimonio è quella cosa per cui il tuo amore non è più il tuo amore, ma la presenza di Dio sulla terra. Per cui gli altri vedendoti dovrebbero dire: “Guarda come si amano”. In altre parole: “Si vede che hanno una marcia in più”, “Si vede che hanno qualcosa in più, una capacità in più, che c’è della linfa”. E cosa è questa linfa? Il fatto che Dio li ha consacrati, per cui quell’amore non parla più solo di te e di lei e di quanto siete bravi o cattivi, delle vostre lune. Ma parla dell’amore di Dio, di un amore divino che ha creato l’uomo capace di vivere divinamente, cioè nell’amore. E’ la forma più semplice di evangelizzazione. Visto che questa mattina sono ottimista, dico questo: anche se arrivassero gli integralisti musulmani, anche se distruggessero tutte le chiese, anche se uccidessero tutti i preti, anche se bruciassero tutte le Bibbie e non restasse più niente, fino a che ci sarà sulla terra una coppia in grado di amarsi divinamente, Dio sarebbe presente sulla terra! I nemici terreni della Chiesa, che sono stupidi, cercano di uccidere i preti e di chiudere la bocca ai teologi, ma non serve a niente. Il diavolo, che è furbo, non va a colpire i teologi, va a colpire le famiglie. Perché chiuso il rubinetto dell’amore familiare, è chiuso il flusso dell’amore di Dio nel mondo, persa l’immagine di Dio nell’uomo e nella donna, perso l’amore nella natura, il senso del mondo. E lui diventerebbe davvero il principe di questo mondo, è questo il suo disegno; smascheriamolo e facciamo vedere che non è così. Che ogni famiglia è un luogo di unità e di amore. Che saremo sì poveri e difettosi, ma capaci di portare Dio. Che saremo un brutto candelabro o povera cera, ma Dio può brillare su questa cera, perché questa è la sua gloria. Che avremo pure un amore sofferto, faticoso, dannato, prostituito, crocifiggente e scarnificante, ma divino nella sua natura perché Dio lo consacra nel giorno del matrimonio con il sigillo dello Spirito Santo. Non lo dico io, lo dice la Chiesa, lo grida il Papa da 25 anni. Questo è l’amore di cui ha bisogno il mondo e questo è l’amore di cui abbiamo bisogno noi.
Questo è l’amore che porta la vera comunione, che fa di due una cosa sola. Questo è l’amore eucaristico, che celebriamo quando andiamo a mangiare il corpo di Cristo. E non compiamo un atto magico, ma creiamo un’unità d’amore tra noi e Dio fatto carne, nel suo corpo donato per noi, risorto per noi, glorioso. Questo è il vangelo di cui ha bisogno il mondo, di cui ha sempre avuto bisogno. Per questo ha creato il mistero dell’Eucarestia, perché il segno di questa comunione di amore che accoglie, perdona, lava, dona, consacra, diventa una comunione totale, fa di due uno. Quando i coniugi si uniscono non sono più due, ma una sola carne, dice la Scrittura. Fisicamente, psicologicamente, affettivamente e spiritualmente. Dio cerca questa comunità d’amore con l’uomo. La moglie rimane moglie ed il marito rimane marito, ma più sono uniti, più sono uno. Dio rimane Dio, noi rimaniamo noi, povere creature, ma più siamo uniti, più siamo uno, e più Dio brilla in noi. Siamo come il roveto ardente di Mosè, su cui il fuoco di Dio si compiace di bruciare. La gloria di Dio è ardere sopra la nostra povertà ed illuminare il mondo. Purché noi glielo concediamo.
Ecco da dove scaturisce la missione, alla fine della messa: andate e portate
a tutti l’annuncio del Signore risorto. Cosa vuol dire: “Andate”? Vuol dire
che quando noi abbiamo comunicato a quel corpo e a quel sangue di Cristo, io sono diventato, in
virtù dell’amore, quell’amore di Cristo. Le mie mani sono quelle di Cristo,
i miei piedi quelli di Cristo, il mio cuore, i miei pensieri. Vuol dire che Cristo, che
è nei cieli, ha il suo corpo, la sua pienezza, qui sulla terra, e siamo noi. Quindi la
missione che ci è affidata è di vita, di portare, testimoniare, annunciare,
vivere, dire, incarnare l’amore di Dio nella nostra vita. Vuol dire che
l’Eucarestia non finisce con la fine della messa, ma non finisce mai. Ogni Eucarestia
tende alle nozze eterne con Dio, così come ogni famiglia. Un amore reciproco, fedele,
che fa di due o di molti una sola cosa, senza uccidere nessuno. Un amore che esalta la
diversità, che perdona e che sa trasformare il povero grano che noi siamo, in presenza
del corpo di Dio sulla terra.
Vi rendete conto allora che in famiglia non si vive qualcosa di diverso da una messa, che
è una messa estesa a tutta la vita. E che i criteri per vivere la nostra vita coniugale
sono criteri eucaristici, dall’accoglienza, al perdono, alla parola, alle offerte, alla
consacrazione, alla comunione, alla missione. Vi rendete conto che non è difficile. E se
volete ripensare a queste cose basta che vi sediate e pensiate a come si svolge la messa. In
ogni messa che celebriamo la Chiesa vi ha tracciato un cammino che può accompagnarvi per
tutta la vostra vita, fino alle nozze eterne. Sia lodato Gesù Cristo.
Solo chi ama non è mai stanco di amare. Anzi l’amore è un movimento che mette questo dinamismo sempre in carica. L’amore ha sempre davanti a sé un pezzo di strada da fare. Gesù al pozzo di Giacobbe non è andata a fare il venditore di bevande, di Coca-cola, ma è andato ad annunciare che questa sete d’amore, che è nel cuore dell’uomo può essere appagata solo se si incontra veramente il mistero della sua persona. Cosa accadeva ai pozzi? Sapete cosa erano i pozzi una volta? Non solo posti dove si andava a prendere l’acqua, il pozzo era un luogo di incontro Quando uno cercava una fidanzata andava al pozzo. Perché, in particolare in quelle regioni, le ragazze stavano in casa. Quando uscivano erano molto velate e non si potevano vedere. Mica come oggi che ti mandano la foto su internet! Per di più fa caldo per cui durante il giorno non si esce. La sera, al tramonto, le ragazze uscivano con le brocche per attingere acqua al pozzo. Allora i giovani pastori sapevano che a quest’ora avrebbero trovato le ragazze al pozzo e andavano a cercarle lì. Giacobbe, il patriarca, aveva trovato la propria moglie al pozzo, e così tutti i patriarchi. Gesù vuole far vedere che c’è una nuova storia d’amore da mettere in piedi. Lui va al pozzo di Giacobbe, dei patriarchi, della fede di Israele, va a cercare la propria sposa. E chi è la sua sposa? E’ un’umanità che ha sete. Non di acqua, ma di amore. Anche Gesù ha sete d’amore, perché Dio ha più sete d’amore di quanta ne abbia l’uomo. Dio desidera il nostro amore e viene a cercare di appagare il suo desiderio fino al pozzo. E lì trova una umanità, della quale questa donna è simbolo, che non è proprio perfetta. Trova un’umanità peccatrice: “Vai a chiamare tuo marito”. “Non ce l’ho”. “Sfido che non ce l’hai, ne hai già avuti 5”. Ma facciamo un po’ di conti. Questa donna ha già avuto cinque mariti, questo che ha ora è il sesto. Gesù diventa quindi il settimo marito. Sette è per gli antichi il numero della perfezione. Se tu vuoi trovare la pienezza dell’amore, come la creazione che è stata fatta in sette giorni, ma nei primi giorni sono stati creati gli oggetti, gli animali. Il momento più bello della creazione è il settimo giorno. Così nella storia dell’amore dell’uomo ci sono tanti giorni, tanti amori. La nostra vita è uno sforzo per costruire un amore vero, che appaghi il cuore, lo edifichi e lo costruisca per sempre. Questo settimo giorno dell’amore, questa pienezza dell’amore, è incontrare non un amore qualunque, ma capire veramente l’amore di Dio. Attenzione però, non un amore a buon mercato, che quando lo abbiamo incontrato, tutto finalmente fila liscio. Ma un amore che impegna. Perché ogni vero amore richiede una risposta. Questa risposta è l’acqua, il dono di sé che la donna samaritana fa a Gesù. Anche noi oggi, in questa domenica, siamo invitati a scoprire che Gesù è la pienezza dell’incontro con Dio, che ci dona l’acqua viva dello Spirito Santo. Ma l’acqua viva dello Spirito Santo desidera riempirci e mescolarsi, scambiarsi, con l’acqua della nostra vita e del nostro amore, del nostro impegno che noi possiamo donare a Gesù. Questo allora ci renderà veramente testimoni e cambierà la natura profonda della nostra vita. Così che non cercheremo più appagamento alla nostra sete dove non c’è. Ma andremo davvero alla sorgente del mistero. L’unica che renda il cuore dell’uomo veramente felice. Ringraziamo il Signore per i suoi doni.
La famiglia nella missione della Chiesa