Un padre la chiave dell’educazione (da Franco Nembrini)
da F. Nembrini, Di padre in figlio. Conversazioni sul rischio di educare, Ares, Milano, 2011, pp. 16-18
Come dice il grande Woody Allen: «Dio è morto, Marx è morto, e anch'io mi sento poco bene». In tre passaggi sintetizza come la cultura del nostro tempo ha distrutto in modo sistematico l'idea di paternità. Siamo tutti diventati grandi, i nostri figli in particolare, leggendo Topolino, cioè un fumetto pieno di zii e di zie, generalmente scapoli, ma nel quale non trovi un padre: è tutta una cultura che ha favorito che l'idea di paternità sparisse. Bisogna ripartir da qui, dall'educazione. Ha detto recentemente don Giussani: «Se ci fosse un'educazione del popolo tutti starebbero meglio». Ecco, bisogna ripartire da qui. Allora, bisogna che qualche adulto si tiri su le maniche e dica: «Io voglio reinventarla, io voglio provare a educare». Bisogna che ognuno ci provi, tenendo l'occhio fisso a quelle due o tre persone, a quei due o tre episodi, a quei due o tre momenti in cui gli è parso di vedere l'educazione in atto, di vederla presente.
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Ebbene, il ricordo più vivo che ho di [mio padre] era che quando entrava s'inginocchiava in mezzo alla stanza e cominciava: «Padre nostro che sei cieli ... ». A me questo ha sempre colpito tantissimo, perché mio padre era uno che non faceva tante prediche, parlava pochissimo (se tentava di parlare italiano faceva veramente ridere perché noi siamo cresciuti a Bergamo e l'italiano è per noi una lingua straniera, non tutti l'hanno studiata e non tutti la conoscono bene. Mio papà la conosceva molto poco e durante certi dialoghi con don Giussani, quest'ultimo moriva dalle risate a sentirlo parlare in italiano!); che mio padre si mettesse lì a dire il Padre nostro, senza prediche, senza parlare, era una cosa per noi figli di una naturalezza incredibile. Mio padre ci ha tirati grandi semplicemente invitandoci, in modo sempre implicito, a guardare quello che guardava lui. Era come se dicesse: «Io e voi, cari figli, siamo sulla stessa barca, e l'unico problema che avete è andare nella giusta direzione. Io ci sto provando: così si vive bene! Così si vive bene, venitemi dietro che probabilmente diventate grandi anche voi».
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A me sembrava che [mio padre] fosse il padrone dell’universo. Lo guardavo e, rispetto a tutti gli altri, mio papà era il re dell’universo; io lo guardavo e capivo che in lui la vita era una saggezza. Aveva uno sguardo sulle cose che tutti i miei professori di università che hanno cercato d'insegnarmi che cosa fosse l'educazione non se lo sognavano neanche. Lui guardava le cose e le conosceva: lo capivi da come si muoveva, da come stava, da come cantava, da come giocava a carte, da come serviva a tavola noi figli e tutti gli amici che sono venuti dopo. Era uno che potevi scommetterci che sapeva le cose, le conosceva, che avrebbe potuto spiegarti che cos'è il bene e che cos'è il male, che cos'è la gioia, che cos'è il dolore, perché si muore, perché si fa fatica, perché bisogna vivere e che cosa ci aspetta alla fine. Ed esemplificava con la vita che cosa vuol dire muoversi in pace con se stessi e col mondo, senza dire «no» a nessuna delle responsabilità, delle provocazioni che vengono dalla realtà. Era uno che a guardarlo, a me da bambino veniva da dire: «Io da grande voglio essere così». Guardavo mio padre e dicevo: «Signore, vorrei essere così: non so se sarò povero o ricco, se insegnante o non insegnante, non so che cosa farò da grande, so che voglio essere un uomo così, signore vero delle cose perché capace di inginocchiarsi a riconoscere il Signore». Era per questo un uomo che possedeva veramente le cose.