Il cibo è come la sessualità: o è parlato oppure è aggressività, consumismo... (da Enzo Bianchi)
da Enzo Bianchi, Il pane di ieri, Einaudi, Torino, 2010, pp. 29-30; 30-31; 36
Per me la tavola è stata sempre, e lo è tuttora, il luogo privilegiato per imparare, per ascoltare, per umanizzarmi. Non è stato forse così fin dall'inizio della vicenda umana? È quanto affermano gli antropologi, ma è anche quello che verifichiamo noi stessi se usiamo l'intelligenza per esercitarci alla consapevolezza di quello che facciamo. L'umanizzazione è passata principalmente attraverso la tavola, dalla nutrizione alla gastronomia (intesa nel senso letterale di «legge del mangiare»), dalla scoperta della coltivazione all'adozione del piatto, all'uso della tavola come luogo di incontro e di festa.
L'uomo ha cessato di essere un divoratore, un consumatore, frapponendo fra sé e il cibo riti di macellazione, tecniche di cottura, maestria di miscelazioni, arte della presentazione dei piatti, del cibo e del vino: insomma, l'uomo ha abbandonato l'atteggiamento dell’animale cacciatore che mangia la sua preda per assumere quello di chi crea un rapporto con il cibo.
L'uomo è un essere che ha fame e il mondo intero è il suo cibo, l'uomo deve mangiare per vivere, deve assumere il mondo e trasformarlo nella propria carne e nel proprio sangue. L'uomo è quel che mangia e il mondo è la sua tavola universale, ma in questa operazione c'è lotta contro ciò che è animalesco e c'è tragitto di cultura, di comunicazione, in vista di una comunione non solo tra gli esseri umani, ma tra l'umanità e il mondo.
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Si, la cucina è il luogo che pone un salutare «frattempo» tra i prodotti e il loro consumo, ma ha soprattutto il pregio di riunire ciò che dalla natura giunge a noi separato e di trasformarlo in modo che la natura sia intersecata dalla cultura.
La cucina è la palestra d'esercizio di tutti i sensi, perché è soprattutto in essa che si impara fin da bambini a distinguere il buono dal cattivo, il duro dal tenero, il dolce dall' amaro: la prima esperienza che noi abbiamo fatto del buono e del cattivo è passata attraverso il cibo, cosi che per tutta la vita usiamo queste due categorie per definire persone o eventi; perfino nel campo della morale il parametro con cui determinare ciò che è bene e ciò che è male si rifà alla distinzione primordiale tra buono e cattivo.
La «semantica» fondamentale l'abbiamo imparata con la bocca: ciò che è commestibile e ciò che non lo è, ciò che possiamo mettere dentro, mangiare, assimilare e ciò che assolutamente deve restare fuori. Né posso dimenticare i comandamenti che venivano insegnati a noi piccoli e che dovevamo imparare a memoria come un decalogo laico, umano, che ci avrebbe assicurato salute e gioia: «Mangiare solo se si ha fame; mangiare quel che piace e che non fa male; mangiare con calma, non come le oche; alzarsi da tavola con un po' di fame; a tavola cercare di stare allegri»... Sapienza straordinaria, che però confesso di non aver assimilato interamente e che quindi mi suscita un certo senso di colpa nel rievocarla.
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Davvero la cucina e la tavola sono l'epifania dei rapporti e della comunione. Del resto, il cibo è come la sessualità: o è parlato oppure è aggressività, consumismo; o è contemplato e ordinato oppure è animalesco; o è esercizio in cui si tiene conto degli altri oppure è cosificato e svilito; o è trasfigurato in modo estatico oppure è condannato alla monotonia e alla banalità. Il cibo cucinato e condiviso - il pasto - è allora luogo di comunione, di incontro e di amicizia: se infatti mangiare significa conservare e incrementare la vita, preparare da mangiare per un altro significa testimoniargli il nostro desiderio che egli viva e condividere la mensa testimonia la volontà di unire la propria vita a quella del commensale.