L’Italia “prima” dell’Italia (da Angelo Bagnasco)
dal Saluto di S.Em.za il cardinale Angelo Bagnasco al X Forum del Progetto culturale, Nei 150 anni dell’Unità d’Italia. Tradizione e progetto, 2 dicembre 2010, I cattolici “soci fondatori” del paese
Cogliere il contributo cristiano rispetto al destino del nostro Paese richiede una lettura della storia scevra da pregiudizi e seriamente documentata, lontana dunque tanto da conformismi quanto da revisionismi. In effetti, ben prima del 1861 la nostra realtà italiana, per quanto frammentata in mille rivoli feudali, poi comunali, quindi statali, aveva conosciuto una profonda sintonia in virtù dell’eredità cristiana. Ne è prova assai significativa la persona di S. Francesco d’Assisi, cui si lega il ripetuto uso del termine Italia, ancora poco corrente nel Medioevo. Proprio in relazione a S. Francesco, all’irradiazione della sua presenza, invece comincia ad avere sostanza quella che pure per lunghi secoli resterà soltanto un’espressione geografica, viva però di una corposissima identità culturale, spirituale e soprattutto religiosa. Accanto a S. Francesco sono innumerevoli le figure - anche femminili, come S. Caterina da Siena - a dare un incisivo contributo alla crescita religiosa e allo sviluppo sociale e perfino economico della nostra Penisola.
Da qui si ricava la constatazione che l’unico sentimento che accomunava gli italiani, a qualsiasi ceto sociale appartenessero e in qualunque degli Stati preunitari vivessero, era quello religioso e cattolico. Affermare questa origine dell’Italia non significa ingenuamente rimarcare diritti di primogenitura, ma solo cogliere la segreta attrazione tra l’identità profonda di un popolo e quella che sarebbe diventata la sua forma storica unitaria, per altro non senza gravi turbamenti di coscienza e, per lungo tempo, irrisolti conflitti istituzionali. È qui sufficiente accennare che al fondo di tali vicende vi era anche la principale preoccupazione della Chiesa di garantire la piena libertà e l’indipendenza del Pontefice, necessarie per l’esercizio del suo supremo ministero apostolico, e più in generale di scongiurare un “assoggettamento” della Chiesa allo Stato.
L’anniversario che ci apprestiamo a celebrare è, dunque, rilevante non tanto “perché l’Italia sia un’invenzione di quel momento, ossia del 1861, ma perché in quel momento, per una serie di combinazioni, veniva a compiersi anche politicamente una nazione che da un punto di vista geografico, linguistico, religioso, culturale e artistico era già da secoli in cammino” (cfr. Prolusione all’Assemblea generale della CEI, 24 maggio 2010). In altre parole, veniva generato un popolo.
È di tutta evidenza che lo Stato in sé ha bisogno di un popolo, ma il popolo non è tale in forza dello Stato, lo precede in quanto non è una somma di individui ma una comunità di persone, e una comunità vera e affidabile è sempre di ordine spirituale ed etica, ha un’anima. Ed è questa la sua spina dorsale. Ma se l’anima si corrompe, allora diventa fragile l’unità del popolo, e lo Stato si indebolisce e si sfigura. Quando ciò può accadere? Quando si oscura la coscienza dei valori comuni, della propria identità culturale.
Parlare di identità culturale non significa ripiegarsi o rinchiudersi, ma si tratta di non sfigurare il proprio volto: senza volto infatti non ci si incontra, non si riesce a conoscersi, a stimarsi, a correggersi, a camminare insieme, a lavorare per gli stessi obiettivi, ad essere “popolo”. Lo Stato non può creare questa unità che è pre-istituzionale e pre-politica, ma nello stesso tempo deve essere attento e preservarla e a non danneggiarla. Sarebbe miope e irresponsabile attentare a ciò che unisce in nome di qualsivoglia prospettiva.