Resurrezione, non semplicemente immortalità: la relazione con Dio che si ristabilisce per grazia (da Romano Guardini)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 06 /09 /2010 - 23:28 pm | Permalink | Homepage
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da Romano Guardini, Le cose ultime, Vita e Pensiero 1997, 26-38.


Secondo la dottrina cristiana, la morte non è per l’uomo un fatto ovvio né una necessità di natura, quanto piuttosto la conseguenza di ciò che non doveva accadere e che si sarebbe potuto evitare, come si evince dai passi della lettera ai Romani e della Genesi [...].

Volendo esprimere questo concetto con la massima precisione, possiamo dire che la morte dell’uomo non è parte integrante del suo essere, ma la conseguenza di un atto. Non ha un carattere “naturale”, ma “storico”.

Questa dottrina presuppone un’idea dell’uomo, il cui essere non si può esprimere solo facendo ricorso al concetto di natura. Per gli animali è possibile. Ogni animale ha “una natura”: essa racchiude tutto ciò che è parte del suo essere, e secondo le sue leggi si susseguono le fasi di crescita, maturazione , decadenza e morte, portando a termine un ciclo in sé compiuto.

La sua esistenza non si realizza nello sviluppo e nel compimento di una “natura” ma nell’attuarsi di una “storia”, in quanto egli incontra ciò che esiste al di fuori di sé, prende posizione, prova agisce e crea. In quest’incontro si definisce di volta in volta il suo essere. La“natura” dell’uomo è sia risultato sia presupposto dell’incontro.

La sua pienezza non è all’inizio, ma alla fine. La forma dell’esistenza umana non scaturisce da se stessa, per ritornare infine in se stessa. La figura che ne rappresenta il carattere non è il cerchio chiuso in se stesso, bensì l’arco proteso verso ciò che gli viene incontro.

Ma non come accade per gli animali, sebbene anch’essi vivano in rapporto d’interdipendenza con le realtà circostanti. Queste sono solo il loro ambiente, la proiezione, la forma allargata di sé, a meno che non si voglia affermare che quella forma, di cui si tratta, è un tutto costituito dal singolo essere e dall’ambiente. In ogni caso il tutto è determinato fin dal principio, è naturale; l’uomo invece ha vera capacità d’iniziativa. È padrone delle sue azioni e orientato verso l’esterno in un modo proprio a lui solo. Egli è l’unico capace di realizzare l’incontro in cui continua a perfezionare se stesso.

Ma l’incontro decisivo è quello con Dio, poiché Dio è il reale per definizione, ciò che ha valore per essenza. Solo in questo incontro, se vissuto correttamente, l’uomo diventa quell’essere che il suo Creatore ha voluto.

Secondo la dottrina della Sacra Scrittura l’uomo fu creato nella perfezione, ma con questa perfezione fu messo alla prova. Il paradiso di cui parla la Scrittura rappresenta l’espressione di quella perfezione; l’albero del paradiso è la forma in cui si manifesta la prova. Se l’uomo avesse osservato il divieto di mangiare dei suoi frutti, sarebbe stato pronto a protendere l’arco della sua esistenza verso Dio, in obbedienza e con ardimento. Se avesse superato la prova, se avesse fondato la propria vita sul comandamento divino nell’obbedienza e con la magnanimità che nasce dalla fede, la morte non sarebbe entrata nella sua esistenza.

[...]

L'uomo non ha superato la prova. Non ha voluto protendere l'arco. Ha voluto «essere come Dio», cioè esistere per se stesso e in se stesso. Così l'arco si è spezzato, e la frattura si è manifestata nella morte.

Anche se l'uomo non avesse peccato, la sua vita sarebbe finita, in quanto apparteneva al tempo; ma questa fine non sarebbe stata la morte che noi conosciamo. Non sappiamo come si sarebbe configurata, poiché non è avvenuta. Possiamo solo dire che quella fine sarebbe stata al contempo un principio, un passaggio, una trasformazione.

Ma poiché il primo uomo ha peccato perdendo la grande opportunità della sua esistenza, il suo atto è stato determinante per tutti. Non c'è alcuna ingiustizia in questo, contrariamente a quanto sostiene l'individualismo. L'uomo moderno ne ha coscienza, poiché comincia ad avere una consapevolezza più profonda dei rapporti del singolo.

Il primo uomo non era solo il numero iniziale della serie degli uomini, ma il capostipite della stirpe; recava in sé il tutto, e la sua scelta ha segnato il destino di questo tutto. Con il suo atto ha avuto inizio la storia dell'uomo. La quale, come dice Paolo, soggiace al peccato e alla morte: «Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché [in quel primo] tutti hanno peccato» (Rm 5, 12).

Questa è la risposta del cristianesimo al problema della morte: ardita, inquietante, provocatoria. Per accettarla occorre veramente una conversione dello spirito; ma se ciò accade, se lo spirito l'accetta, anche l'esistenza naturale è investita della sua luce. La rivelazione viene da Dio e deve essere accolta nella fede; essa illuminerà allora anche ciò che si presenta ai nostri occhi. Esperienze non chiarite, conoscenze che non potevano farsi strada nell'interpretazione che l'uomo fornisce del mondo, ora ottengono giustizia.

Alla dottrina che la morte non deve esistere, la ragione moderna risponde istintivamente con stupore o ironia. Ma questa è solo la prima reazione; se la sua coscienza della verità è vigile, ammetterà di aver già provato sensazioni analoghe.

Nell’uomo, infatti, è vivo il desiderio di contrastare la morte; esso non rappresenta solo quell’istinto di difesa della vita insito anche negli animali, ma la ribellione dello spirito, incapace di comprendere il senso della morte e pertanto di accettarne l'evento.

Tale ribellione non significa nemmeno che l'uomo s'illuda sulle necessità biologiche o di altra natura; significa invece che egli avverte il disordine della realtà, secondo la quale deve sopraggiungere la morte. La ribellione non è indicativa neppure di viltà o indisponibilità a mettere in gioco, se necessario, la propria vita. L'uomo può essere coraggioso o pronto a ogni sacrificio, anche a quello della vita; tuttavia deve conservare quest'impulso di ribellione alla morte in quanto tale.

Accade di sentirsi dire o di leggere in poesia che un uomo avrebbe affrontato la morte con animo tranquillo o in preda all'ebbrezza o con solennità e comunque sempre con intima convinzione. Ma chi veramente sa qualcosa della vita e della morte, si rifiuta di crederlo.

La morte può essere affrontata con calma, con coraggio, con serenità, con entusiasmo, questo sì. Affrontare la morte con dignità è uno dei compiti più alti assegnati all'uomo. Sacrificare la vita per una nobile causa o per una persona amata è segno di somma nobiltà d'animo.

Ma la domanda che ci poniamo è un'altra: se con serenità e maturità di giudizio si possa accettare la morte come evento in sé dotato di senso. Non si può. Il pane, la luce, la verità, l'amore sono in sé dotati di senso - la morte dell'uomo no.

Il cristianesimo sa che la morte in sé e in quanto tale - non la fine - non ha un senso proprio, e giustifica la ribellione ad essa. Ma al contempo ne riconosce la realtà e le conferisce tutta la sua asprezza. Respinge ogni tentativo di attenuare tale asprezza mediante una visione dionisiaca della vita o la nobiltà dei valori, per i quali la vita può essere sacrificata. La morte non è «l'intima rovina della terra» di Rilke, né il culmine della vita intravisto da Holderlin, ma l'aspra fine. Non nasce da una necessità intrinseca all'esistenza umana, ma dal peccato - il peccato di tutti, che è anche il peccato di ognuno -, e morire bene significa prenderne coscienza e pagare il proprio debito.

Questa è la prima cosa. Ma il cristianesimo non si ferma qui.

[...]

Con la morte di Cristo, la morte ha subito una trasformazione radicale. La morte di Gesù è stata reale e aspra come nessun’altra, poiché la morte è tanto più morte, quanto più alta è la vita a cui essa pone fine. Cristo è morto come nessun altro, poiché la sua vita è stata vitale e luminosa come nessun'altra.

Questo è vero; ma è anche vero che, ogni qual volta Gesù parla della sua morte, aggiunge che risorgerà; così dice durante l'ultimo viaggio a Gerusalemme: «Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e resuscitare il terzo giorno» (Mt 16,21).

La morte che dovrebbe succedere al peccato, se ci si fermasse a questa connessione, la morte pura e semplice non esiste nella concezione che Gesù ha della vita. La sua morte è stata il passo che la vita ha compiuto per lasciare la dimensione temporale e accedere all'eternità. E non solo l'anima, ma l'essere umano nella sua interezza. Perché dopo la morte egli è risorto a nuova vita.

Alla sensibilità moderna la parola della resurrezione risulta estranea quanto il fatto che la morte non sia necessaria. È presente nella nostra lingua come erede di una credenza antica, ma ha assunto un significato diverso. Nel linguaggio corrente il termine «resurrezione» indica il ritorno primaverile della vita dopo i rigori dell'inverno, o il nuovo impulso che l'uomo avverte dopo una pausa interiore. La «resurrezione» è un momento della vita, l'ascesa da una precedente depressione.

La dottrina cristiana della resurrezione di Cristo e dell’uomo redento per suo tramite non ha nulla a che vedere con tutto questo. Ha un significato diverso, più preciso e straordinario. Insegna che dopo la morte Cristo si è innalzato a nuova vita, umana nella potenza del Dio vivente; non solo la sua anima era immortale e nell'eternità ha ricevuto uno splendore divino; non solo la sua figura e il suo annuncio sono diventati forza generatrice di vita nei cuori di coloro che credevano in lui: dopo la morte il suo corpo è tornato a nuova vita, a un livello superiore; per virtù dello Spirito Santo la sua anima ha compenetrato e trasformato il corpo; egli è entrato nello splendore eterno nella pienezza del suo essere teandrico.

[...]

Che cos'è dunque la morte dal punto di vista cristiano? Chi muore subisce l'estrema conseguenza del peccato; si assume la piena responsabilità dell’agire umano, si fa carico della verità e del giudizio. E tuttavia non indifeso e disperato, ma accolto nella redenzione, opera dell'amore divino. Ora la morte non è più solo l'evento oscuro e terribile che porta il peccato alle estreme conseguenze: essa consente all'uomo di partecipare alla trasformazione con la quale la magnanimità di Dio ha convertito la fine in un nuovo inizio, in passaggio alla vita nuova.

Ritorna l'arco di cui abbiamo parlato. In Cristo è ripristinata la natura umana che tende a Dio e viene da Dio. Ed è ripristinata in una forma nuova, straordinaria, nella forma dell'incarnazione del figlio di Dio. Anche noi dobbiamo nella fede partecipare di questa forma; non per diritto, bensì per grazia. Ma veramente; poiché, come ripete Paolo, l'esistenza cristiana è un vivere di Cristo nell'uomo e dell'uomo in Cristo. In Cristo l'arco si protende di nuovo per ciascuno di noi; ma la morte è l'oscurità che l'arco attraversa.

La nuova vita che deve venire dopo la morte non è la semplice sopravvivenza dell'anima, che è spirituale e per questo indistruttibile. La morte sarebbe in tal caso ciò che pensava Platone: la liberazione dai confini e dai gravami del corpo verso la libertà di un'esistenza puramente spirituale. Il significato di ciò che Cristo ha raggiunto e annunciato è diverso, di grandezza divina e nello stesso tempo familiare al nostro intimo: la salvezza non solo dell'anima, ma dell'uomo; il rinnovamento dell'uomo in virtù della potenza creatrice di Dio.

Ma la morte garantisce la serietà della salvezza e del rinnovamento, perché senza di essa il contenuto dell'annuncio sarebbe fantasia. Con la sua morte Cristo ha posto le basi del rinnovamento nella realtà; la nostra morte è il modo in cui noi ne diventiamo partecipi con sincerità.

La nuova vita che deve venire dopo la morte non è il prolungamento della vita terrena nell'aldilà; non è la semplice realizzazione della volontà di vivere originaria.

In tal caso la morte non sarebbe che il passaggio da una forma di vita all'altra, una trasformazione in virtù delle leggi intrinseche che la determinano - così come il fenomeno per cui la farfalla esce dalla crisalide che si disgrega. Ciò che Cristo ha realizzato e annunciato non è necessità di natura, ma grazia. La nuova esistenza procede come dono dalla libera azione creatrice di Dio, ma appunto per questo anche come realizzazione dell'uomo, il cui mistero consiste proprio nel fatto di esistere, in fondo, non in virtù della legge, ma dell'incontro con Dio e con il suo amore libero e gratuito.

[...]

La vita eterna è possibile perché egli ci ama e ci accoglie nel suo amore. Quella vita è elargita e conservata perché egli ci dona la comunione dell'amore. Per amore, con la redenzione si è fatto carico del nostro destino. Per lo stesso amore ci rende partecipi del suo. Nel mistero della fede e della rinascita noi diventiamo partecipi del compimento della vita, della morte e della resurrezione di Cristo.

La morte è così l’ultima impresa rischiosa che l’uomo affronta, guidato da Cristo verso la grande promessa. La morte di Cristo è insita in tutta la pena e la devastazione, in tutto l’abbandono e il tormento che la morte può significare – ma questo è il rovescio visibile di quel tutto, il cui diritto si chiama risurrezione.