Vedere Dio in se stessi (da san Gregorio di Nissa)
dalle "Omelie" di san Gregorio di Nissa, vescovo (Om. 6, sulle beatitudini; PG 44, 1266-1267; 1270-1271)
Vedere, nell'uso della Scrittura, ha lo stesso significato che possedere, come quel detto: "Possa tu vedere la prosperità di Gerusalemme" (Salmo 127, 5), dove il verbo significa la stessa cosa, che "possa tu avere". E così pure: Sia tolto di mezzo l'empio perché non vedrà la gloria del Signore (cfr. Is 26, 10), dove il Profeta per "non vedere" intende "non essere partecipe".
Quindi colui che vede Dio, per il fatto stesso che lo vede, ha ottenuto tutti i beni, una vita senza fine, l'incorruttibilità eterna, la beatitudine immortale, un regno senza fine, una gioia perenne, la vera luce, una voce spirituale e dolce, una gloria inaccessibile, una perpetua esultanza, insomma ogni bene. In verità, quello che vien proposto alla speranza nella promessa della felicità ha queste immense proporzioni.
Ma siccome è già stato prima dimostrato che il modo di vedere Dio si attua alla condizione di avere il cuore puro, in questo nuovamente la mia intelligenza è preda delle vertigini. La purità del cuore infatti non è forse fra quelle virtù che non si possono conseguire, perché superano e oltrepassano la nostra natura? Se Dio si può vedere solo attraverso questa lente di purità e se d'altro canto Mosé e Paolo non lo hanno veduto perché affermano che Dio non può essere visto né da loro né da alcun altro, ciò che il Verbo propone alla beatitudine sembra cosa né mai effettuata né effettuabile.
E quale vantaggio possiamo avere noi dal fatto di conoscere a quale condizione si possa vedere Dio, se poi mancano le forze per raggiungere quanto si è scoperto? Sarebbe infatti come se si dicesse che è cosa meravigliosa soggiornare in cielo perché la si vedono cose che qui sulla terra non si possono vedere. Se con le parole si potesse dimostrare un qualche modo di attuare un viaggio in cielo, allora sarebbe utile agli ascoltatori apprendere che è felicità grande abitare in cielo. Ma sino a quando non potrà essere attuata questa ascesa al cielo, quale vantaggio può dare la conoscenza della felicità celeste?
Non costituisce piuttosto un tormento e una delusione, perché ci rende consapevoli di quali beni siamo stati privati, per il fatto che ci è impedito di salire al cielo? E perché allora il Signore ci esorta ad una cosa che supera la nostra natura e ci dà un precetto che va oltre le forze umane?
Ma le cose non stanno così, perché egli non comanda di diventare uccelli a coloro ai quali non ha fornito le ali, né di vivere sott'acqua a coloro per i quali ha stabilito una vita terrestre. Se dunque la legge in tutti gli altri esseri è adatta alle forze di coloro che la ricevono e non costringe a nessuna impresa che superi la natura, comprenderemo senz'altro anche questo dal fatto che è compatibile con le nostre risorse e che non si deve disperare di raggiungere la felicità promessa.
Capiremo ancora che né Giovanni, né Paolo, né Mosé, né altri sono stati privati di questa sublime felicità, che proviene dalla visione di Dio. Non colui che disse: "Mi resta solo la lo corona di giustizia, che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà" (2 Tm 4, 8). Neppure colui che posò il capo sul cuore di Gesù, o colui che udì dalla voce divina: "Ti ho conosciuto per nome" (Es 33, 17). Se perciò coloro che hanno affermato che la visione di Dio è sopra le nostre forze, sono anch'essi beati, e se la beatitudine viene dalla visione di Dio, e se chi ha il cuore puro può vedere Dio, certo la purezza, per mezzo della quale si può raggiungere la beatitudine, non è una virtù impossibile.
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Nella vita dell'uomo la salute del corpo rappresenta un bene, ma la felicità non consiste nel conoscere la ragione della salute, bensì nel vivere in salute. Se uno dopo aver celebrato le lodi della salute, prende cibi che gli causano malattie, che cosa gli possono giovare le lodi della salute?
Allo stesso modo dobbiamo intendere il presente discorso, quando il Signore dice che la felicità non consiste nel conoscere qualche verità su Dio, ma nell'avere Dio in se stessi: "Beati", infatti, "i puri di cuore, perché vedranno Dio" (Mt 5, 8). Mi pare proprio che Dio voglia mostrarsi a faccia a faccia a colui che ha l'occhio dell'anima ben purificato, ma secondo quanto dice Cristo: il regno di Dio è dentro di voi (cfr. Lc 17, 21).
Chi ha purificato il suo cuore può contemplare l'immagine della divina natura nella bellezza della sua stessa anima. Se dunque laverai le brutture che hanno coperto il tuo cuore, risplenderà in te la divina bellezza. Come il ferro, liberato dalla ruggine, splende al sole, così anche l'uomo interiore, quando avrà rimosso da sé la ruggine del male, ricupererà la somiglianza con la forma originale e primitiva e sarà buono.
Quindi chi vede se stesso, contempla ciò che desidera in se stesso. In tal modo diviene beato chi ha il cuore puro, perché mentre guarda la sua purità, scorge, attraverso questa immagine, la sua prima e principale forma. Coloro che vedono il sole in uno specchio, benché non fissino i loro occhi in cielo, vedono il sole non meno bene di quelli che guardano direttamente l'astro luminoso. Così anche voi, benché le vostre forze non siano sufficienti per scorgere e contemplare la luce inaccessibile, se ritornerete alla grazia originaria troverete in voi ciò che cercate.
La divinità infatti è purezza, è assenza di vizi e di passioni, è lontananza da ogni male. Se dunque queste realtà sono in te, Dio è senz'altro in te. Quando pertanto la tua anima sarà pura da ogni sorta di vizi, libera da passioni e difetti e lontana da ogni inquinamento, allora sei felice per l'acutezza e la limpidezza della vista, perché ciò che sfuggirà allo sguardo di coloro che non si sono purificati, tu invece, purificato, lo scorgerai. Tolta dagli occhi spirituali l'oscurità materiale, avrai la beata visione nella pura serenità del cuore. E questo sublime spettacolo in che cosa consiste? Nella santità, nella purezza, nella semplicità, e in tutti i luminosi splendori della natura divina per mezzo dei quali si vede Dio.