Salmi: Dio insegna all'uomo a sillabare e a capirsi (L. Alonso Schökel)
da L. Alonso Schökel, I salmi, Marietti, pp. 1-2
Avviene come quando un bambino incomincia a pronunciare coscientemente le prime parole; papà, mamma. Le ha pronunciate prima sua madre, sono scese nel suo intimo, fino a incontrarsi con un istinto che le stava aspettando, che quasi le riconosce, e le fa rimbalzare di nuovo fuori. In bocca alla madre erano un abbassarsi per insegnare, in bocca al figlio sono una invocazione, che distingue e unisce.
Si ripete il movimento con parole nuove e con le loro coniugazioni; e con frasi che si smontano e vengono ricomposte. Ora non basta più l'istinto segreto: il bimbo deve rendersi conto della situazione, ascoltare in essa le parole del padre, dei conoscenti; così impara progressivamente la loro lingua.
Quanto è difficile capire il bambino! (infante = senza parola). Di che cosa si lamenta, dove gli fa male, che cosa chiede? Che senso ha il suo sorriso, il suo pianto? Stare bene e stare male sono dati troppo generici e vaghi, anche per la madre. Ma quando il bambino impara il linguaggio materno può farsi capire. Può già chiedere e narrare, può domandare molto e rispondere un po’, può comunicare e comunicarsi. E quando resta solo, impara a parlare con se stesso e la sua fantasia si inoltra nel linguaggio percettibile.
“Come un uomo corregge il figlio, così il Signore Dio corregge te...” (Dt 8, 5). Parte essenziale di questa correzione ed educazione del popolo consiste nell'insegnargli a parlare per capirsi con Dio. Non manca all'uomo un certo istinto che risponde confusamente a Dio; con esso arriva ad emettere lamenti inarticolati da infante. Dio stesso gli insegna il linguaggio perché possa spiegarsi con Dio: perché sappia lamentarsi in modo articolato, dire dove gli fa male e di che cosa ha bisogno, perché sappia dar ragione del suo sorriso e della sua gioia, perché possa unirsi ai suoi fratelli in un canto all'unisono, perché sappia, a tu per tu con Dio, effondere in parole lo sfogo del suo cuore.
Un giorno il figlio maggiore aiuterà gli altri figli ad imparare la lingua.
“Israele è il mio figlio primogenito...” (Es 4,22) Israele come popolo ascoltò la parola di Dio, che parlava per bocca dei profeti, e dovette imparare a rispondere. Fu un apprendistato lento, durato tutta la sua vita: dovette passare attraverso diverse situazioni per imparare in esse, dalla mano di Dio, le parole giuste con le quali lamentarsi, chiedere o ringraziare. Dio insegnò a Israele il suo linguaggio nella concretezza della vita, non in astratto: quando Israele prega, le parole gli escono dall'intimo, non ripete a memoria una lezione. Per questo la sua risposta suona con tanta vitalità. [...]
“Tutte queste cose... sono state scritte per ammonimento nostro, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi” (l Cor 10,11). Benché non lo sapessero, secondo il piano di Dio, essi stavano vivendo e scrivendo per noi. Vivendo per darci un esempio ed una lezione, scrivendo per prepararci un linguaggio. Come se tutta la loro vita e storia fosse stata una sacra rappresentazione: per essi vita, dolore e gioia nella carne viva; per noi rappresentazione, presenza e rivelazione. Come se scrivessero il repertorio di preghiere per la posterità, provandolo in se stessi perché non fosse né suonasse come una cosa falsa.
Avviene come quando un bambino incomincia a pronunciare coscientemente le prime parole; papà, mamma. Le ha pronunciate prima sua madre, sono scese nel suo intimo, fino a incontrarsi con un istinto che le stava aspettando, che quasi le riconosce, e le fa rimbalzare di nuovo fuori. In bocca alla madre erano un abbassarsi per insegnare, in bocca al figlio sono una invocazione, che distingue e unisce.
Si ripete il movimento con parole nuove e con le loro coniugazioni; e con frasi che si smontano e vengono ricomposte. Ora non basta più l'istinto segreto: il bimbo deve rendersi conto della situazione, ascoltare in essa le parole del padre, dei conoscenti; così impara progressivamente la loro lingua.
Quanto è difficile capire il bambino! (infante = senza parola). Di che cosa si lamenta, dove gli fa male, che cosa chiede? Che senso ha il suo sorriso, il suo pianto? Stare bene e stare male sono dati troppo generici e vaghi, anche per la madre. Ma quando il bambino impara il linguaggio materno può farsi capire. Può già chiedere e narrare, può domandare molto e rispondere un po’, può comunicare e comunicarsi. E quando resta solo, impara a parlare con se stesso e la sua fantasia si inoltra nel linguaggio percettibile.
“Come un uomo corregge il figlio, così il Signore Dio corregge te...” (Dt 8, 5). Parte essenziale di questa correzione ed educazione del popolo consiste nell'insegnargli a parlare per capirsi con Dio. Non manca all'uomo un certo istinto che risponde confusamente a Dio; con esso arriva ad emettere lamenti inarticolati da infante. Dio stesso gli insegna il linguaggio perché possa spiegarsi con Dio: perché sappia lamentarsi in modo articolato, dire dove gli fa male e di che cosa ha bisogno, perché sappia dar ragione del suo sorriso e della sua gioia, perché possa unirsi ai suoi fratelli in un canto all'unisono, perché sappia, a tu per tu con Dio, effondere in parole lo sfogo del suo cuore.
Un giorno il figlio maggiore aiuterà gli altri figli ad imparare la lingua.
“Israele è il mio figlio primogenito...” (Es 4,22) Israele come popolo ascoltò la parola di Dio, che parlava per bocca dei profeti, e dovette imparare a rispondere. Fu un apprendistato lento, durato tutta la sua vita: dovette passare attraverso diverse situazioni per imparare in esse, dalla mano di Dio, le parole giuste con le quali lamentarsi, chiedere o ringraziare. Dio insegnò a Israele il suo linguaggio nella concretezza della vita, non in astratto: quando Israele prega, le parole gli escono dall'intimo, non ripete a memoria una lezione. Per questo la sua risposta suona con tanta vitalità. [...]
“Tutte queste cose... sono state scritte per ammonimento nostro, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi” (l Cor 10,11). Benché non lo sapessero, secondo il piano di Dio, essi stavano vivendo e scrivendo per noi. Vivendo per darci un esempio ed una lezione, scrivendo per prepararci un linguaggio. Come se tutta la loro vita e storia fosse stata una sacra rappresentazione: per essi vita, dolore e gioia nella carne viva; per noi rappresentazione, presenza e rivelazione. Come se scrivessero il repertorio di preghiere per la posterità, provandolo in se stessi perché non fosse né suonasse come una cosa falsa.