Oralità e scrittura: un complesso rapporto (da Bruno Forte)
dal saluto iniziale di mons. Bruno Forte, 15 giugno 2009, al Convegno Nazionale dei direttori degli Uffici catechistici diocesani, Reggio Calabria, 2009, dal titolo “La nostra lettera siete voi... (2 Cor 3,2). Ascoltare le domande, comunicare il Vangelo, condividere l’incontro con Cristo”
A favorire l’oblio è il dramma della scrittura. Lo aveva compreso già Platone nella memorabile critica della scrittura, contenuta nella parte finale del Fedro, lì dove insiste sul fatto che la scrittura non è un “farmaco della memoria” e non ne sostituisce le funzioni. La scrittura è, semmai, un mezzo per richiamare alla memoria conoscenze che si sono già apprese per altra via e perciò essa parla veramente “a chi già sa” le cose su cui verte. Il vero ed autentico mezzo di comunicazione non è la scrittura, bensì l’insegnamento, il quale costituisce una prerogativa dell’oralità. Gli scritti non sono in grado di rispondere a nessuna domanda che venga posta loro; essi vanno nelle mani di tutti e non sono in grado di scegliere coloro ai quali si deve parlare e coloro per i quali bisogna invece tacere.
Il libro, insiste Platone, “ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, perché non è capace di difendersi e di aiutarsi da solo” (Platone, Fedro, 275 D – E). La scrittura è come un “gioco” rispetto all’impegno di serietà che l’oralità implica. Ed è ancora Platone a dire che è filosofo colui che è in grado di venire in soccorso ai suoi scritti mostrandone la debolezza, “sulla base di quelle cose di maggior valore che non ha messo per iscritto”, quelle che sono veramente importanti (Ib., 278 C – E). Proprio perciò, quando viene scritta, la parola - resistenza all’oblio, nata dall’oralità e custodita dalla musicalità del parlato - abita nel suo altro e lo stimola. Da parte sua, la scrittura, ospitando la comunicazione orale e ripresa in essa, può riscattarsi dal suo limite originario e divenire anch’essa una forma di resistenza all’oblio delle differenze.
A favorire l’oblio è il dramma della scrittura. Lo aveva compreso già Platone nella memorabile critica della scrittura, contenuta nella parte finale del Fedro, lì dove insiste sul fatto che la scrittura non è un “farmaco della memoria” e non ne sostituisce le funzioni. La scrittura è, semmai, un mezzo per richiamare alla memoria conoscenze che si sono già apprese per altra via e perciò essa parla veramente “a chi già sa” le cose su cui verte. Il vero ed autentico mezzo di comunicazione non è la scrittura, bensì l’insegnamento, il quale costituisce una prerogativa dell’oralità. Gli scritti non sono in grado di rispondere a nessuna domanda che venga posta loro; essi vanno nelle mani di tutti e non sono in grado di scegliere coloro ai quali si deve parlare e coloro per i quali bisogna invece tacere.
Il libro, insiste Platone, “ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, perché non è capace di difendersi e di aiutarsi da solo” (Platone, Fedro, 275 D – E). La scrittura è come un “gioco” rispetto all’impegno di serietà che l’oralità implica. Ed è ancora Platone a dire che è filosofo colui che è in grado di venire in soccorso ai suoi scritti mostrandone la debolezza, “sulla base di quelle cose di maggior valore che non ha messo per iscritto”, quelle che sono veramente importanti (Ib., 278 C – E). Proprio perciò, quando viene scritta, la parola - resistenza all’oblio, nata dall’oralità e custodita dalla musicalità del parlato - abita nel suo altro e lo stimola. Da parte sua, la scrittura, ospitando la comunicazione orale e ripresa in essa, può riscattarsi dal suo limite originario e divenire anch’essa una forma di resistenza all’oblio delle differenze.