Unità della Scrittura: le parole di Dio e la Parola di Dio nella tradizione ebraica e nella fede cristiana (da Daniel Attinger)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 09 /07 /2009 - 22:17 pm | Permalink | Homepage
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da Daniel Attinger, Abbiamo visto la sua gloria. Riconoscere il Signore nella fragilità dei segni, AVE, Roma, 2008, pp. 15-22

Es 19,16 «Avvenne il terzo giorno, al mattino: vi furono voci, lampi, una densa nube sul monte e una voce di shofar molto forte: tremò tutto il popolo che era nell’accampamento». [...]

Vi è un gioco di parole che mi sembra molto significativo tra “voci” (al plurale) e “voce” (al singolare); ora esso scompare abitualmente nelle nostre traduzioni che parlano di “tuoni” e di “suono”. Cosa lascia intravedere questo testo? [...]

Dio parla... Ma a questo punto divide, per così dire, la sua parola: la sua voce (al singolare) si suddivide in dieci “parole”: quello che chiamiamo i dieci comandamenti [...].

Ciò significa che la voce di Dio è così potente da non poter essere sopportata dagli uomini; Dio “attenua”, quindi, la sua voce, che diventa dieci parole più udibili. Eppure queste parole sono ancora troppo dense e troppo pesanti. [...].

Così la voce di Dio diventata dieci parole, si suddivide ancora una volta nelle numerose prescrizioni che il popolo ascolterà ormai dalla bocca di Mosè e che la tradizione ebraica codificherà nei 613 precetti della Legge. E la tradizione d’Israele concluderà: “Dio parla nel linguaggio degli uomini”.

Cosa implica una tale concezione del linguaggio di Dio? Se la voce di Dio si è suddivisa prima in dieci parole, poi in una moltitudine di precetti che codificano la vita ordinaria del popolo di Dio, ciò significa che, in un certo modo, dentro le parole umane contenute nella Scrittura è nascosta la Parola di Dio. Vale a dire: se riusciamo a rimettere insieme queste parole, a ricostruire come una specie di grande puzzle, ritroveremo la Parola di Dio nella sua densità e nella sua forza. È, tra l’altro, uno dei compiti che si dà la lettura ebraica della Bibbia chiamata midrash, che consiste appunto nell’illuminare un versetto della Scrittura con altri versetti per scoprirne il senso profondo.

Si racconta, a questo proposito, che due rabbini erano stati invitati a un matrimonio. Dopo la cerimonia e il pasto, gli invitati si diedero ai festeggiamenti, chiacchierando e ballando. I due rabbini non erano molto esperti in questo genere di divertimenti. Si dedicarono quindi a ciò che meglio conoscevano: la ricerca del significato delle parola della Scrittura. Si misero ad accostare un versetto della Torà ad uno dei Profeti e a un terzo degli Scritti. Ad un certo momento, dalla stanza in cui discutevano, uscì una fiamma di fuoco che per poco non incendiò la casa. Il padrone, precipitatosi in quella stanza, chiese ai rabbini cosa avessero fatto per provocare quell’inizio d’incendio. Essi, stupiti come se non si fossero accorti di nulla, risposero: “Stavamo facendo una collana di parole della Scrittura (accostando cioè un versetto all’altro)... Si vede che le parola stesse se ne sono rallegrate e hanno pensato di essersi ritrovate al tempo e al luogo dove furono date da Dio. Sta scritto, infatti, che queste parole furono date sul Sinai in mezzo al fuoco!”.

Così è, o piuttosto così dovrebbe essere anche per noi. La Bibbia non è la Parola di Dio, ma ne può diventare il luogo. Dobbiamo ricomporre insieme tutte le parole che troviamo, frazionate, nell’Antico e nel Nuovo Testamento, perché ridiventino le Dieci Parole e, al di là di esse, la voce di Dio. Scopriamo allora che, rimesse insieme, queste parole non formano altro che Gesù Cristo, giacché è lui il Verbo, o la Parola di Dio, come dice il quarto Evangelo nel suo prologo: “In principio era il Verbo”.