Ascoltare e vedere, nell’Antico Testamento (da Rino Fisichella)
(da R. Fisichella, Introduzione alla teologia fondamentale, Piemme, Casale Monferrato, 1992, pp. 67-69)
L’Antico Testamento, legge l’evento della rivelazione alla luce di un intervento libero, sovrano e potente di Dio. L’espressione privilegiata per esprimerlo è «parola di Jahvè».
Per l’uomo biblico, infatti, nonostante si dia il «vedere» e «guardare» Jahvè, si fa tuttavia maggior affidamento all’«ascoltare» la sua voce. Anche un semplice sguardo all’uso terminologico mostra con evidente chiarezza questa posizione privilegiata: il verbo: akoúo nei LXX è usato circa 1080 volte contro le 520 circa di oráo.
È peculiare di Israele l’entrare in rapporto con Jahvè attraverso la categoria della parola; a differenza del mondo greco dove, invece, domina la componente visiva. Se i Greci, quindi, sono stati il popolo dell’occhio per la loro insistenza alla contemplazione, gli Ebrei sono stati, invece, il popolo dell’ascolto; «vedere Jahvè» avrà sempre per loro una componente metaforica.
Una concezione visiva di Dio è per il popolo ebraico una realtà tanto inusuale quanto inaudita. In quei rarissimi casi in cui se ne parla, viene comunque mantenuto il riserbo totale. Anche nel caso di Mosé, in cui vi era tutto l’interesse apologetico per evidenziare il suo rapporto confidenziale con Jahvè, a tal punto da giungere ad affermare che questi parlava con Jahvè «faccia a faccia», come un amico parla con un amico; l’autore sacro, tuttavia, sente il dovere di correggere questa impostazione avvertendo che Jahvè gli passò davanti mostrando solo le sue spalle, «perché non si può vedere Dio e restare in vita» (Es 33,20; Is 6,5).
Tanto è eccezionale il vedere Dio, quanto è invece comune l’«ascoltare la sua voce». Anche nei casi espliciti di teofanie, quali 1 Sam 3,1-21 e Is 6,1-7, l’accentuazione è data, poi, all’ascolto. La religione veterotestamentaria è la religione della «parola», ma come per ogni linguaggio, la prima reazione al «dire» non è un altro dire, ma il silenzio e l’ascolto.
«Shema Israel» resterà sempre nella storia del popolo come l’emblema costitutivo nel suo rapportarsi al Signore. Questo fa comprendere ugualmente che l’ascolto non è conseguenza di una passività; è, piuttosto, segno di una libera scelta di chi si pone nella dimensione coerente con la rivelazione del mistero.
La «parola» rivelata ispira, dirige e determina la storia di un popolo attraverso le vicende tipiche del suo formarsi come popolo e dell’organizzarsi come tale. Dai Patriarchi ai Giudici, dalla monarchia al profetismo, l’azione rivelativa di Dio è onnipresente e onnicomprensiva: nulla nella storia di questo popolo può essere posto fuori dall’orizzonte di questa azione, pena l’incomprensibilità della storia stessa e l’inesistenza del popolo come tale. La Torah stessa, è pensata e interpretata come «parole» che vengono dall’Alleanza; anzi tutta la legge sarà denominata con «la parola» (cfr. Dt 28,69; 30,14; 32,47).
Attraverso la «parola di Jahvè», Israele conosce chi è Dio perché per il mondo semitico la parola quasi in nulla si distingue da colui che la pronuncia. Il valore noetico che essa possiede permette così di conoscere la realtà stessa; i pensieri e gli affetti, le intenzioni e i propositi… tutto ciò che costituisce la persona è facilmente confluibile nella sua parola. Essa, nel momento in cui viene posta in atto, attualizza ciò che pronuncia (Gn 1,3); il Dio veritiero è il Dio che parla in modo fedele e che tiene fede alla parola promessa.
L’Antico Testamento, legge l’evento della rivelazione alla luce di un intervento libero, sovrano e potente di Dio. L’espressione privilegiata per esprimerlo è «parola di Jahvè».
Per l’uomo biblico, infatti, nonostante si dia il «vedere» e «guardare» Jahvè, si fa tuttavia maggior affidamento all’«ascoltare» la sua voce. Anche un semplice sguardo all’uso terminologico mostra con evidente chiarezza questa posizione privilegiata: il verbo: akoúo nei LXX è usato circa 1080 volte contro le 520 circa di oráo.
È peculiare di Israele l’entrare in rapporto con Jahvè attraverso la categoria della parola; a differenza del mondo greco dove, invece, domina la componente visiva. Se i Greci, quindi, sono stati il popolo dell’occhio per la loro insistenza alla contemplazione, gli Ebrei sono stati, invece, il popolo dell’ascolto; «vedere Jahvè» avrà sempre per loro una componente metaforica.
Una concezione visiva di Dio è per il popolo ebraico una realtà tanto inusuale quanto inaudita. In quei rarissimi casi in cui se ne parla, viene comunque mantenuto il riserbo totale. Anche nel caso di Mosé, in cui vi era tutto l’interesse apologetico per evidenziare il suo rapporto confidenziale con Jahvè, a tal punto da giungere ad affermare che questi parlava con Jahvè «faccia a faccia», come un amico parla con un amico; l’autore sacro, tuttavia, sente il dovere di correggere questa impostazione avvertendo che Jahvè gli passò davanti mostrando solo le sue spalle, «perché non si può vedere Dio e restare in vita» (Es 33,20; Is 6,5).
Tanto è eccezionale il vedere Dio, quanto è invece comune l’«ascoltare la sua voce». Anche nei casi espliciti di teofanie, quali 1 Sam 3,1-21 e Is 6,1-7, l’accentuazione è data, poi, all’ascolto. La religione veterotestamentaria è la religione della «parola», ma come per ogni linguaggio, la prima reazione al «dire» non è un altro dire, ma il silenzio e l’ascolto.
«Shema Israel» resterà sempre nella storia del popolo come l’emblema costitutivo nel suo rapportarsi al Signore. Questo fa comprendere ugualmente che l’ascolto non è conseguenza di una passività; è, piuttosto, segno di una libera scelta di chi si pone nella dimensione coerente con la rivelazione del mistero.
La «parola» rivelata ispira, dirige e determina la storia di un popolo attraverso le vicende tipiche del suo formarsi come popolo e dell’organizzarsi come tale. Dai Patriarchi ai Giudici, dalla monarchia al profetismo, l’azione rivelativa di Dio è onnipresente e onnicomprensiva: nulla nella storia di questo popolo può essere posto fuori dall’orizzonte di questa azione, pena l’incomprensibilità della storia stessa e l’inesistenza del popolo come tale. La Torah stessa, è pensata e interpretata come «parole» che vengono dall’Alleanza; anzi tutta la legge sarà denominata con «la parola» (cfr. Dt 28,69; 30,14; 32,47).
Attraverso la «parola di Jahvè», Israele conosce chi è Dio perché per il mondo semitico la parola quasi in nulla si distingue da colui che la pronuncia. Il valore noetico che essa possiede permette così di conoscere la realtà stessa; i pensieri e gli affetti, le intenzioni e i propositi… tutto ciò che costituisce la persona è facilmente confluibile nella sua parola. Essa, nel momento in cui viene posta in atto, attualizza ciò che pronuncia (Gn 1,3); il Dio veritiero è il Dio che parla in modo fedele e che tiene fede alla parola promessa.