Figlio di Dio: che cosa vuol dire che Gesù è “figlio di Dio”? (da J. Ratzinger)
da J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, p. 368 e p. 405
L’espressione Figlio di Dio collegava Gesù con l’essere stesso di Dio. Il genere di questo legame ontologico, tuttavia, divenne oggetto di faticose discussioni da quel momento in cui la fede volle dimostrare anche la propria ragionevolezza e riconoscerla in modo chiaro. Egli è Figlio in senso traslato – nel senso di una vicinanza particolare a Dio – oppure questa espressione indica che in Dio stesso vi è un Padre e un Figlio? Che Egli è davvero «uguale a Dio», Dio vero da Dio vero? Il primo Concilio di Nicea (325) ha riassunto il risultato di questa ricerca faticosa nella parola homooúsios («della stessa sostanza») – l’unico termine filosofico entrato nel Credo. Questo termine filosofico serve tuttavia a proteggere l’affidabilità della parola biblica; vuole dirci: se i testimoni di Gesù ci mostrano che Egli è «il Figlio», non lo intendono in senso mitologico o politico – le due interpretazioni che si impongono a partire dal contesto dell’epoca. Questa affermazione va intesa letteralmente: sì, in Dio stesso vi è dall’eternità il dialogo tra Padre e Figlio che, nello Spirito Santo, sono davvero il medesimo e unico Dio.
È stato necessario chiarire compiutamente questo nuovo significato [dell’espressione “figlio”] mediante processi molteplici e difficili di differenziazione e di ricerca faticosa, per proteggerlo dalle interpretazioni mitico-politeistiche e politiche. Questo fu il motivo per il quale il Primo Concilio di Nicea (325 d.C.) impiegò l’aggettivo homooúsios (della stessa sostanza). Questo termine non ha ellenizzato la fede, non l’ha gravata di una filosofia estranea, bensì ha fissato proprio l’elemento incomparabilmente nuovo e diverso che era apparso nel parlare di Gesù con il Padre. Nel Credo di Nicea la Chiesa dice insieme con Pietro sempre di nuovo a Gesù: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16).
L’espressione Figlio di Dio collegava Gesù con l’essere stesso di Dio. Il genere di questo legame ontologico, tuttavia, divenne oggetto di faticose discussioni da quel momento in cui la fede volle dimostrare anche la propria ragionevolezza e riconoscerla in modo chiaro. Egli è Figlio in senso traslato – nel senso di una vicinanza particolare a Dio – oppure questa espressione indica che in Dio stesso vi è un Padre e un Figlio? Che Egli è davvero «uguale a Dio», Dio vero da Dio vero? Il primo Concilio di Nicea (325) ha riassunto il risultato di questa ricerca faticosa nella parola homooúsios («della stessa sostanza») – l’unico termine filosofico entrato nel Credo. Questo termine filosofico serve tuttavia a proteggere l’affidabilità della parola biblica; vuole dirci: se i testimoni di Gesù ci mostrano che Egli è «il Figlio», non lo intendono in senso mitologico o politico – le due interpretazioni che si impongono a partire dal contesto dell’epoca. Questa affermazione va intesa letteralmente: sì, in Dio stesso vi è dall’eternità il dialogo tra Padre e Figlio che, nello Spirito Santo, sono davvero il medesimo e unico Dio.
È stato necessario chiarire compiutamente questo nuovo significato [dell’espressione “figlio”] mediante processi molteplici e difficili di differenziazione e di ricerca faticosa, per proteggerlo dalle interpretazioni mitico-politeistiche e politiche. Questo fu il motivo per il quale il Primo Concilio di Nicea (325 d.C.) impiegò l’aggettivo homooúsios (della stessa sostanza). Questo termine non ha ellenizzato la fede, non l’ha gravata di una filosofia estranea, bensì ha fissato proprio l’elemento incomparabilmente nuovo e diverso che era apparso nel parlare di Gesù con il Padre. Nel Credo di Nicea la Chiesa dice insieme con Pietro sempre di nuovo a Gesù: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16).