Chiamata a favore dei non chiamati (da Hans Urs von Balthasar)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 27 /03 /2009 - 00:12 am | Permalink | Homepage
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

(da Hans Urs von Balthasar, Vocazione, Editrice Rogate, Roma, 1981, pp. 15-18;21-22)

Ci sono concetti cristiani fondamentali che, a dire il vero, sono sempre stati presenti alla coscienza della cristianità e che tuttavia, in una determinata epoca della sua storia, emergono alla luce in maniera tale da essere scoperti come per la prima volta. Nella Chiesa dell’epoca moderna si sono succeduti tre momenti a mettere in nuova luce il senso della vocazione cristiana secondo la Rivelazione.

1. Nei secoli successivi a Tommaso si sviluppa un senso elementare della libertà di Dio, dal cui beneplacito dipende ogni essere mondano: l’immagine veterotestamentaria di Dio, il Signore che elegge e rigetta, diviene determinante, in una specie di effetto retroattivo, persino per il rapporto del Dio della creazione con il suo mondo. Questa immagine di Dio comunque appare storicamente ancora troppo legata alla dottrina agostiniana della predestinazione (che continua ad avere effetto soprattutto nella Riforma) per poter dar vita, presa in sé, ad una soddisfacente dottrina della vocazione. Essa rimane a far da sfondo a ciò che segue.

2. Ignazio di Loyola – di fronte alla «parola» (biblica) della Riforma come realtà della rivelazione di Dio – porrà il venire salvifico di Dio nella carne interamente sotto il concetto di «chiamata». Per chiarire la natura del Vangelo nella sua essenza, egli fa precedere tutte le meditazioni sulla vita di Gesù da una parabola di chiamata (chiamata di un re ai suoi sudditi ad andare in guerra con lui contro i non credenti) dalla quale, in crescendo, e con l’uso di termini centrali del Nuovo Testamento, viene spiegata la missione di Cristo: se abbiamo preso in considerazione tale chiamata del re temporale ai suoi sudditi, quanto sarà più degno di essere preso in considerazione il fatto di vedere Gesù Nostro Signore, re eterno, e davanti a lui tutto l’universo che Egli, come fa con ciascuno in particolare, chiama dicendo: «È mia volontà conquistare tutto il mondo e tutti i nemici, ed entrare così nella gloria del Padre mio; pertanto chi vuole venire con me, deve lavorare con me perché, seguendomi nella sofferenza, mi segua anche nella gloria. (Eserc. 95». In questo brano risulta evidente:

che il Vangelo viene inteso come «proclama» per una azione che deve ancora accadere, alla quale sono invitati fin da principio mondo e uomo;

che qui non si parla della Chiesa, ma da una parte di «tutto l’universo» e dall’altra di «ogni singolo» così che la realtà della chiamata e della vocazione viene a trovarsi in qualche luogo anteriore alla chiesa organizzata;

che con ciò colui che ascolta questa chiamata e vi risponde (in grande opposizione all’ascoltare–la–parola in Lutero, per il quale la giustificazione compiuta è solo da ascoltare e da credere) viene invitato all’evento della salvezza stessa.

3. Il terzo momento, - quantunque già formulato in Ignazio, ma non ancora messo in rilievo in maniera riflessa dalla Controriforma -, emerge là dove viene rispecchiato il faccia a faccia fra «tutto l’universo» e il «singolo» e soltanto con ciò viene recuperato il senso fondamentale della vocazione biblica.
La vocazione del «singolo» si verifica, secondo il proclama del re eterno, a favore di tutto il mondo, poiché la volontà del re è «conquistare tutto il mondo e tutti i nemici e così – attraverso croce, discesa agli inferi, resurrezione – entrare nella gloria del Padre mio».

Per liberare il senso di questa affermazione dalla ferrea morsa della teologia dell’elezione o della predestinazione agostiniano-calvinistico-giansenista era necessaria la coscienza universale dell’umanità e del mondo propria dell’epoca moderna la quale però, soltanto così, è approdata ad una comprensione della salvezza come, nel concludere la Bibbia, la sviluppano Paolo e Giovanni e, sulle loro orme, i padri greci.

Con l’ingresso definitivo nel campo visivo del piano universale di Dio tanto per la creazione quanto per la sua redenzione, diventa impossibile interpretare la dottrina dell’elezione dell’Antico e del Nuovo Testamento, con la loro chiara preferenza di un singolo rispetto agli altri, se non come un momento all’interno di questo piano universale. Paolo stesso l’ha così intesa, dal momento che ha visto solo tipicamente la dottrina dell’elezione individuale (Rom 9) in base all’elezione d’Israele tra i popoli, e questa a sua volta, nella dialettica di Romani 11, in maniera funzionale per la totalità dei popoli.

Israele è chiamato a favore dei pagani e questa vocazione di Israele diviene modello per una vocazione (chiamare–fuori–da) della Chiesa, la quale avviene a favore del mondo e con ciò diviene anche modello per ogni vocazione personale all’interno della Chiesa, vocazione che mostra, senza eccezioni, la stessa forma ecclesiale: vocazione a favore di coloro che per il momento non sono ancora chiamati.

Questa comprensione biblico-patristica e di nuovo moderna supera definitivamente ogni teologia della predestinazione individuale (la cui forma più consequenziale era la dottrina della doppia predestinazione), secondo la quale l’eletto è principalmente eletto proprio per se stesso, a tal punto che deve arrestarsi rigidamente e con orrore davanti al mistero della mancata elezione (forse persino del rifiuto) degli altri – e siano pure questi altri molti o pochi.

Si può e si deve formulare molto semplicemente: ogni chiamata in senso biblico è tale per amore dei non-chiamati. Questo è vero in maniera centrale per Gesù Cristo che è predestinato e con ciò chiamato (Rom 1,4) a morire e risorgere, prendendo il loro posto, per tutti i condannati. E in Gesù Cristo è al tempo stesso visibile che il Padre proprio per questo lo ama con un amore di predilezione, poiché egli si è fatto funzione della universale volontà salvifica paterna.