La Vera educazione deve essere una educazione alla critica: il rischio educativo (da Luigi Giussani)
La vera educazione deve essere una educazione alla critica: il rischio educativo,
da L.Giussani, Il rischio educativo, SEI, Torino 1995, pp. XIII-XXIV e 5-7
L'idea fondamentale di una educazione rivolta ai giovani è il fatto che attraverso di essi si ricostruisce una società; perciò il grande problema della società è innanzitutto educare i giovani (il contrario di quel che avviene adesso).
Il tema principale, per noi, in tutti i nostri discorsi, è l'educazione: come educarci, in che cosa consiste e come si svolge l'educazione, un'educazione che sia vera, cioè corrispondente all'umano. Educazione, dunque, dell'umano, dell'originale che è in noi, che in ognuno si flette in modo diverso, anche se, sostanzialmente e fondamentalmente, il cuore è sempre lo stesso. Infatti, nella varietà delle espressioni, delle culture e delle espressioni, delle culture e delle consuetudini, il cuore dell'uomo è uno: il cuore mio è il cuore tuo, ed è il medesimo cuore di chi vive lontano da noi, in altri Paesi o continenti.
La prima preoccupazione di un'educazione vera e adeguata è quella di educare il cuore dell'uomo come Dio l'ha fatto. La morale non è nient'altro che continuare l'atteggiamento in cui Dio crea l'uomo di fronte a tutte le cose e nel rapporto con esse, originalmente.
Di tutto quello che si deve dire sull'educazione, a noi importano soprattutto questi punti.
1. Per educare occorre proporre adeguatamente il passato. Senza questa proposta del passato, della tradizione, il giovane cresce cervellotico o scettico. Se niente propone di privilegiare un'ipotesi di lavoro, il giovane se la inventa, in modo cervellotico, oppure diviene scettico, molto più comodamente, perché non fa neanche la fatica di essere coerente all'ipotesi che si è presa.
In Realtà e giovinezza. La sfida ho scritto: «È la tradizione consapevolmente abbracciata che offre una totalità di sguardo sulla realtà, offre una ipotesi di significato, un'immagine del destino». Uno entra nel mondo con un'immagine del destino, con un'ipotesi di significato, che non è ancora svolta in libri: è il cuore, come dicevamo prima. «La tradizione, infatti - prosegue il testo -, è come un'ipotesi di lavoro con cui la natura butta l'uomo nel paragone con tutte le cose».
2. Seconda urgenza: il passato può essere proposto ai giovani solo se è presentato dentro un vissuto presente che ne sottolinei la corrispondenza con le esigenze ultime del cuore. Vale a dire: dentro un vissuto presente che dia le ragioni di sé. Solo questo vissuto può proporre ed ha il diritto e il dovere di proporre la tradizione, il passato. Ma se il passato non appare, se non è proposto dentro un vissuto presente che cerchi di dare le proprie ragioni, non si può neanche ottenere la terza cosa necessaria all'educazione: la critica.
3. La vera educazione deve essere un'educazione alla critica. Fino a dieci anni (adesso forse anche prima), il bambino può ripetere ancora: «L'ha detto la signora maestra, l'ha detto la mamma». Perché? Perché, per natura, chi ama il bambino mette nel suo sacco, sulle spalle, quello che di meglio ha vissuto nella vita, quello che di meglio ha scelto nella vita. Ma, ad un certo punto, la natura dà al bambino, a chi era bambino, l'istinto di prendere il sacco e di metterselo davanti agli occhi (in greco si dice pro-bállo, da cui deriva l'italiano «problema»). Deve dunque diventare problema quello che ci hanno detto! Se non diventa problema, non diventerà mai maturo e lo si abbandonerà irrazionalmente o lo si terrà irrazionalmente.
Portato il sacco davanti agli occhi, ci si rovista dentro. Sempre in greco, questo «rovistarci dentro» si dice krinein, krísis, da cui deriva «critica». La critica, perciò, consiste nel rendersi ragione delle cose, non ha un senso necessariamente negativo.
Dunque, il giovane rovista dentro il sacco e con questa critica paragona quel che vede dentro, cioè quel che gli ha messo sulle spalle la tradizione, con i desideri del suo cuore: il criterio ultimo del giudizio, infatti, è in noi, altrimenti siamo alienati. Ed il criterio ultimo, che è in ciascuno di noi, è identico: è esigenza di vero, di bello, di buono. Al di qua o attraverso tutte le differenze possibili e immaginabili con cui la fantasia può giocare su queste esigenze, queste fondamentalmente rimangono identiche nelle mosse, anche diverse per i connotati vari delle circostanze dell'esperienza.
La nostra insistenza è sull'educazione critica: il ragazzo riceve dal passato attraverso un vissuto presente in cui si imbatte, che gli propone quel passato e gliene dà le ragioni; ma egli deve prendere questo passato e queste ragioni, mettersele davanti agli occhi, paragonarle con il proprio cuore e dire: «è vero», «non è vero», «dubito». E così, con l'aiuto di una compagnia (senza questa compagnia l'uomo è troppo alla mercé delle tempeste del suo cuore, nel senso non buono e istintivo del termine), può dire: «Sì» oppure «No». Così facendo, prende la sua fisionomia d'uomo.
Abbiamo avuto troppa paura di questa critica, veramente. Oppure, chi non ne ha avuto paura, l'ha applicata senza sapere che cosa fosse, non l'ha applicata bene. La critica è stata ridotta a negatività, per ciò stesso che uno fa problema di una cosa che gli è stata detta. Io ti dico una cosa: porre un interrogativo su questa cosa, domandarsi: «è vero?», è diventato uguale a dubitarne. L'identità tra problema e dubbio è il disastro della coscienza della gioventù.
Il dubbio è il termine di un'indagine (provvisorio o no, non so), ma il problema è l'invito a capire ciò che ho davanti, a scoprire un bene nuovo, una verità nuova, cioè ad averne una soddisfazione più carica e più matura.
Senza uno di questi fattori: tradizione, vissuto presente che propone e dà le ragioni, critica - come ringrazio mio padre di avermi abituato a chiedere le ragioni di ogni cosa, quando, tutte le sere prima di addormentarsi, mi ripeteva: «Ti devi chiedere il perché. Chiediti il perché» (lui lo diceva per ben altri motivi!) -, il giovane è foglia fragile lungi dal proprio ramo («Dove vai tu?», diceva Leopardi), vittima del vento dominante, della sua mutevolezza, vittima di un'opinione pubblica generale creata dal potere reale.
Noi vogliamo - e questo è il nostro scopo - liberare i giovani: liberare i giovani dalla schiavitù mentale, dalla omologazione che rende schiavi mentalmente degli altri.
Fin dalla prima ora di scuola ho sempre detto: «Non sono qui perché voi riteniate come vostre le idee che vi do io, ma per insegnarvi un metodo vero per giudicare le cose che io vi dirò. E le cose che io vi dirò sono un'esperienza che è l'esito di un lungo passato: duemila anni».
Il rispetto di questo metodo ha caratterizzato fin dall'inizio il nostro impegno educativo, indicandone con chiarezza lo scopo: mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita. Per la mia formazione in famiglia e in seminario prima, per la mia meditazione dopo, mi ero profondamente persuaso che una fede che non potesse essere reperita e trovata nell'esperienza presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe stata una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, diceva e dice l'opposto; tanto è vero che perfino la teologia, per parecchio tempo, è stata vittima di questo cedimento.
Mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita e, quindi - questo «quindi» è importante per me -, dimostrare la razionalità della fede, implica un concetto preciso di razionalità. Dire che la fede esalta la razionalità, vuol dire che la fede corrisponde alle esigenze fondamentali e originali del cuore di ogni uomo. La Bibbia, infatti, invece della parola «razionalità», usa la parola «cuore». La fede, dunque, risponde alle esigenze originali del cuore dell'uomo, uguale in tutti: esigenza di vero, di bello, di bene, di giusto (del giusto!), di amore, di soddisfazione totale di sé che - come spesso sottolineo ai ragazzi - identifica lo stesso contenuto indicato dalla parola «perfezione» («satisfacere» o «satisfieri», in latino è analogo al termine «perficere», perfezione: perfezione e soddisfazione sono la stessa cosa, come lo sono felicità ed eternità).
Quindi, intendiamo per razionalità il fatto di corrispondere alle esigenze fondamentali del cuore umano, quelle esigenze fondamentali con cui un uomo - volente o nolente, lo sappia o non lo sappia - giudica tutto, ultimamente giudica tutto, in modo imperfetto o in
modo perfetto.
Per questo dare ragione della fede significa descrivere sempre di più, sempre più ampiamente, sempre più densamente, gli effetti della presenza di Cristo nella vita della Chiesa nella sua autenticità, quella la cui «sentinella» è il Papa di Roma. È il cambiamento della vita che, dunque, la fede propone.
Il delitto sta nel concepire, proporre e vivere la fede come una premessa che non viene mantenuta, come una premessa che non c'entra con la vita. Con la vita: la vita è oggi, perché ieri non c'è più, domani non c'è ancora. La vita è oggi. Io oso dire ai ragazzi che ciò che non c'entra in nessun modo con la mia esperienza di oggi, con la mia esperienza presente, non c'è; semplicemente non c'è. Perciò un Dio che non c'entra con quello che ora, oggi, io sperimento, non c'entra in nessun modo: non c'è, è un Dio che non c'è, è un Cristo che non c'è, è un corpo di Cristo che non c'è; sarà in testa ai teologi, ma non in me, non può essere in me.
La separazione del cielo dalla terra è il delitto che ha reso il senso religioso o, meglio, il sentimento religioso, vago, astratto, come una nube che corre nel cielo e presto si svaga, si fiacca e scompare, mentre la terra resta dominata - volenti o nolenti - ultimamente, come lo fu con Adamo ed Eva, dall'orgoglio, dalla imposizione di sé, dalla violenza.
Il rabbino di Roma, Elio Toaff, ha scritto in un libro recente, Essere ebreo: «L'epoca messianica è proprio il contrario di quello che vuole il Cristianesimo: noi ebrei vogliamo riportare Dio in terra e non l'uomo in cielo. Noi non diamo il regno dei cieli agli uomini, ma vogliamo che Dio torni a regnare in terra». Quando l'ho letto sono saltato sulla sedia! Questa è esattamente la caratteristica del carisma con cui abbiamo percepito e sentito il Cristianesimo, perché il Cristianesimo è «Dio in terra» e la nostra opera, tutta la nostra vita, ha come scopo la gloria di Cristo, la gloria dell'uomo Cristo, dell'uomo-Dio Cristo. La gloria di Cristo è una cosa temporale, del tempo, dello spazio, della storia, nella storia, al di qua dell'ultimo limite, perché al di là ci pensa solo Lui a farsi gloria: coincide con l'eterno di là, ma di qua, se io non lo servo, la Sua gloria è minore. [...]
Dice il secondo capitolo della lettera di San Paolo ai Galati: «Pur vivendo nella carne [carne è ciò che è definito nel tempo e nello spazio; si definisce nel contingente] io vivo nella fede del Figlio di Dio, il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Si può concepire una fede al di fuori di questa emozione che nasce da un'esperienza presente (domani sarà esperienza presente nel domani!)? Ecco, la persuasione da cui siamo nati è questa: diversamente non si può concepire la fede, sarebbe assurda e sarebbe assurdi aderirvi! Non c'è amico che mi segua che non senta questo. Può sbagliare, essere incoerente mille volte, essere peccatore come me; ma la strada è questa...
Con ciò voglio sottolineare che se la fede non c'entrasse con la razionalità, la fede non potrebbe c'entrare con la vita, perché la razionalità è il modo di vivere tipico dell'uomo.
Quanto ho detto ha centrato tutto l'assetto teorico del Movimento che Dio mi ha dato la grazia di vedere, e che ha preso origine dal gusto della razionalità, dal gusto della chiarezza di concepire la razionalità, dal gusto di viverla continuamente nell'atto che si pone. Tra l'altro, in questo essendo abbastanza soli nel mondo culturale di allora e di oggi: è come se tra una ragione debole e il nichilismo di oggi, la forza e la corposità rivelatrice del segno fosse affermata.
Non ci sono appena la ragione debole e il nichilismo: c'è questo misterioso, ma reale, sperimentabile fenomeno di una realtà che è segno di un'altra realtà. La fede è l'esaltazione del segno, del valore del segno. Così la razionalità tra di noi diventò la ricerca di un modo autentico di cogliere la realtà giudicando gli avvenimenti, cogliendone la corrispondenza alle esigenze costitutive del nostro animo o del nostro cuore, come dice la Bibbia.
Pretendevamo, così tradurre l'antico adagio scolastico: la verità è una «adequatio rei et intellectus», una corrispondenza dell'oggetto alla autocoscienza, alla coscienza di se stessi, cioè alla coscienza di quelle esigenze che costituiscono il cuore, che costituiscono la persona, senza delle quali essa sarebbe niente!
La fede, perciò, viene proposta come la suprema razionalità. La fede così espressa può essere criticabile, ma occorre intendere quel che si vuole dire. La fede viene proposta come appoggiata al supremo vertice della razionalità: quando giunge al suo vertice nell'esame di una cosa, la nostra natura umana sente che c'è qualcosa d'altro.
Questo definisce l'idea di segno: la nostra natura sente che quello che vive, che quello che ha tra mano, rimanda ad altro. L'abbiamo chiamato «punto di fuga»: è il punto di fuga che c'è in ogni esperienza umana, cioè un punto che non chiude, ma rimanda. Questo è un altro concetto fondamentale del nostro insegnamento.
La fede, perciò, viene proposta come la suprema razionalità in quanto l'incontro con l'avvenimento che la veicola genera una esperienza e una corrispondenza all'umano impensabile.
Giovanni e Andrea, quando sono andati a casa di Gesù, quel pomeriggio, e sono stati là a vederlo parlare, sono tornati a casa loro dicendo: «Abbiamo trovato il Messia». E il testo non dice cosa abbia detto; chissà cosa avevano capito di quello che aveva detto! Ma era chiaro che come quell'uomo non c'era nessuno, perché era qualcosa di oltre. Ed è la domanda che gli rivolsero dopo un po' di tempo, quando nel mare in tempesta lui fece il miracolo di far bonaccia immediata. E i suoi discepoli (che sapevano chi era suo padre, sua madre, i suoi fratelli, dove abitava; sapevano tutto di lui perché erano già alcuni mesi che erano affiatatissimi), spaventati, si chiedevano: «Ma chi è costui?». Era così sproporzionato, quello che l'uomo era, a ciò che loro potevano pensare, immaginare, aspettare, che non potevano darsi ragione: era oltre la ragione. Questo è il processo per cui la fede avviene in me, in te, in chiunque, con la grazia di Dio, naturalmente! [...]
Questo è stato il momento più decisivo della mia vita culturale. Dico «culturale» tanto la fede c'entra con la ragione. Ho intuito che la fede risponde alle esigenze del cuore più di qualsiasi altra ipotesi; per questo è più razionale di qualsiasi altra ipotesi razionale.
La fede viene proposta come la suprema razionalità, in quanto l'incontro con l'avvenimento che la veicola genera una esperienza e una corrispondenza all'umano impensata, impensabile. [...]
«Esiste un punto d'arrivo - diceva Kafka -, ma nessuna via». Ed è questo un altro passaggio importante. La fede è proprio la via a ciò che la ragione cerca sopra ogni cosa. Ultimamente, la ragione che cosa cerca, se non il senso della vita, il senso dell'esistenza, il senso di tutto? E tutta la filosofia contemporanea è rassegnata a dire: ci sarà un senso?...
Duemila anni fa il senso stesso è venuto tra noi a dirci: «Io sono la via, la resurrezione, la vita» (cfr. Gv 14,6). L'unico uomo che abbia detto così nella storia del mondo!
Mi permetto di aggiungere un'ultima sola cosa. L'evento di cui tratta la fede è un avvenimento che bisogna vivere, non leggere o discutere: un avvenimento si vive, altrimenti non è adeguato il nostro porci di fronte ad esso. [...] L'evento in questione è che Dio si è fatto carne, uomo, ed è presente: «Sarò con voi tutti i giorni» (cfr. Mt 28,20). È presente, è presente tutti i giorni! Occorre abbandonarsi a questo messaggio e accostare l'esperienza secondo le connotazioni di questo messaggio. Egli disse che sarebbe stato presente ogni giorno nella comunità dei credenti, che li raccoglie e che li fa essere il suo corpo misterioso. Bisogna che noi ci abbandoniamo a questa presenza e viviamo la nostra vita all'interno di questa presenza, sotto l'influsso di questa presenza, giudicata da questa presenza, illuminata da questa presenza, sostenuta da questa presenza.
Il Cristianesimo è un evento: bisogna sottoporgli la vita, la vita intera nell'istante. Come «nell'esperienza di un grande amore - ricordava Guardini - tutto diventa un avvenimento nel suo ambito», così all'evento cristiano bisogna sottoporre l'intera storia della nostra vita. [...]
Nell'Italia fine anni '50: il sorgere di un'intuizione
In una situazione apparentemente ottimale per la trasmissione di un contenuto cattolico teorico ed etico - parrocchie efficienti con offerta di corsi di catechismo «per tutte le stagioni»; lezione di religione obbligatoria in ogni ordine di scuola fino alla media superiore; tradizione almeno formalmente ben salvaguardata nei criteri familiarmente trasmessi; un certo non ancora sconfessato pudore di fronte ad indiscriminata critica o informazione irreligiosa; una buona percentuale di prassi di Messa festiva - un primo contatto con i giovani studenti delle medie superiori forniva un triplice fattore di rilievo che colpiva l'osservatore interessato.
Innanzitutto una immotivazione ultima della fede. Suggestiva è a questo proposito un'immagine che si trova nei Sermoni di sant'Agostino che nel simbolo della lettura evoca in positivo la certezza di una fede motivata: «Colui che in un libro guarda dei caratteri, ma non sa ciò che questi caratteri vogliono dire, ciò a cui essi rimandano, loda con gli occhi, ma non comprende con lo spirito. Un altro, al contrario, loda l'opera d'arte e ne comprende il senso, colui cioè che non soltanto è in grado di vedere, così come ognuno ne è capace, ma che sa anche leggere. E ciò lo può soltanto colui che lo ha appreso...».
In secondo luogo, una scontata inincidenza della fede sul comportamento sociale in generale, e scolastico in particolare.
Infine, un clima decisamente generativo di scetticità che lasciava libero campo all'attacco alla religione da parte di determinati professori. Tale atteggiamento, quando si verificava, otteneva facilmente una certa attenta stima e custodiva un disinteresse di fondo il cui primo riverbero pratico si identificava in una perdita di eticità.
In una simile situazione sembrava porsi come inevitabile un aut-aut: o si doveva considerare il Cristianesimo come qualcosa che aveva ormai perso ogni forza persuasiva e determinante la vita di un giovane studente, oppure si doveva concludere che il fatto cristiano non veniva presentato, offerto, in modo a lui adeguato.
Accettare la prima ipotesi sarebbe stato evidentemente dare per scontato il giudizio storico gramsciano, ma la chiarezza e l'impeto di una fede cristiana vissuta altrettanto evidentemente non poteva cedere al suggerimento di tale punto di vista culturale.
Una comunicazione, e uno sviluppo, del contenuto tradizionale era quindi legata soprattutto ad un problema di metodo.
Due sono stati i cardini di questa intuizione.
Il primo di natura teoretica: i contenuti della fede hanno bisogno di essere abbracciati ragionevolmente, debbono cioè essere esposti nella loro capacità di miglioramento, illuminazione ed esaltazione degli autentici valori umani.
Il secondo cardine si può esprimere dicendo che quella presentazione deve essere verificata nell'azione, cioè l'evidenza razionale può illuminarsi fino alla convinzione solo nell'esperienza di un bisogno umano affrontato dall'interno di una partecipazione al fatto cristiano: e tale partecipazione è un coinvolgimento nella realtà cristiana come fatto essenzialmente sociale o comunionale.
La prova del rischio
In tale metodo ovviamente si gioca un rischio nell'insistere sulla razionalità del progetto di fede: non può pretendere di essere una dimostrazione matematica o comunque apodittica.
E si entra in un rischio quando si dice che è dall'esperienza che una convinzione può scaturire: non si tratta infatti di un «feeling» da evocare, di un'emozione pietistica da suscitare, ma di un impegno che non può barare; si è quindi alla mercé delle sabbie mobili di una libertà.
Ricordo una significativa affermazione di Hans Urs von Balthasar: «egli comprende che, per comprendere, deve realizzare la verità in maniera vitale. In questo modo egli diventerà "discepolo". Egli si impegna, si affida al "cammino"».
D'altra parte, senza affrontare la prova del rischio, educatore ed educando partirebbero entrambi da una finzione: un mistero supposto riducibile ad evidenza oculare e una libertà immaginata come meccanicamente reattiva in corrispondenza ad ogni stimolo dato.
da L.Giussani, Il rischio educativo, SEI, Torino 1995, pp. XIII-XXIV e 5-7
L'idea fondamentale di una educazione rivolta ai giovani è il fatto che attraverso di essi si ricostruisce una società; perciò il grande problema della società è innanzitutto educare i giovani (il contrario di quel che avviene adesso).
Il tema principale, per noi, in tutti i nostri discorsi, è l'educazione: come educarci, in che cosa consiste e come si svolge l'educazione, un'educazione che sia vera, cioè corrispondente all'umano. Educazione, dunque, dell'umano, dell'originale che è in noi, che in ognuno si flette in modo diverso, anche se, sostanzialmente e fondamentalmente, il cuore è sempre lo stesso. Infatti, nella varietà delle espressioni, delle culture e delle espressioni, delle culture e delle consuetudini, il cuore dell'uomo è uno: il cuore mio è il cuore tuo, ed è il medesimo cuore di chi vive lontano da noi, in altri Paesi o continenti.
La prima preoccupazione di un'educazione vera e adeguata è quella di educare il cuore dell'uomo come Dio l'ha fatto. La morale non è nient'altro che continuare l'atteggiamento in cui Dio crea l'uomo di fronte a tutte le cose e nel rapporto con esse, originalmente.
Di tutto quello che si deve dire sull'educazione, a noi importano soprattutto questi punti.
1. Per educare occorre proporre adeguatamente il passato. Senza questa proposta del passato, della tradizione, il giovane cresce cervellotico o scettico. Se niente propone di privilegiare un'ipotesi di lavoro, il giovane se la inventa, in modo cervellotico, oppure diviene scettico, molto più comodamente, perché non fa neanche la fatica di essere coerente all'ipotesi che si è presa.
In Realtà e giovinezza. La sfida ho scritto: «È la tradizione consapevolmente abbracciata che offre una totalità di sguardo sulla realtà, offre una ipotesi di significato, un'immagine del destino». Uno entra nel mondo con un'immagine del destino, con un'ipotesi di significato, che non è ancora svolta in libri: è il cuore, come dicevamo prima. «La tradizione, infatti - prosegue il testo -, è come un'ipotesi di lavoro con cui la natura butta l'uomo nel paragone con tutte le cose».
2. Seconda urgenza: il passato può essere proposto ai giovani solo se è presentato dentro un vissuto presente che ne sottolinei la corrispondenza con le esigenze ultime del cuore. Vale a dire: dentro un vissuto presente che dia le ragioni di sé. Solo questo vissuto può proporre ed ha il diritto e il dovere di proporre la tradizione, il passato. Ma se il passato non appare, se non è proposto dentro un vissuto presente che cerchi di dare le proprie ragioni, non si può neanche ottenere la terza cosa necessaria all'educazione: la critica.
3. La vera educazione deve essere un'educazione alla critica. Fino a dieci anni (adesso forse anche prima), il bambino può ripetere ancora: «L'ha detto la signora maestra, l'ha detto la mamma». Perché? Perché, per natura, chi ama il bambino mette nel suo sacco, sulle spalle, quello che di meglio ha vissuto nella vita, quello che di meglio ha scelto nella vita. Ma, ad un certo punto, la natura dà al bambino, a chi era bambino, l'istinto di prendere il sacco e di metterselo davanti agli occhi (in greco si dice pro-bállo, da cui deriva l'italiano «problema»). Deve dunque diventare problema quello che ci hanno detto! Se non diventa problema, non diventerà mai maturo e lo si abbandonerà irrazionalmente o lo si terrà irrazionalmente.
Portato il sacco davanti agli occhi, ci si rovista dentro. Sempre in greco, questo «rovistarci dentro» si dice krinein, krísis, da cui deriva «critica». La critica, perciò, consiste nel rendersi ragione delle cose, non ha un senso necessariamente negativo.
Dunque, il giovane rovista dentro il sacco e con questa critica paragona quel che vede dentro, cioè quel che gli ha messo sulle spalle la tradizione, con i desideri del suo cuore: il criterio ultimo del giudizio, infatti, è in noi, altrimenti siamo alienati. Ed il criterio ultimo, che è in ciascuno di noi, è identico: è esigenza di vero, di bello, di buono. Al di qua o attraverso tutte le differenze possibili e immaginabili con cui la fantasia può giocare su queste esigenze, queste fondamentalmente rimangono identiche nelle mosse, anche diverse per i connotati vari delle circostanze dell'esperienza.
La nostra insistenza è sull'educazione critica: il ragazzo riceve dal passato attraverso un vissuto presente in cui si imbatte, che gli propone quel passato e gliene dà le ragioni; ma egli deve prendere questo passato e queste ragioni, mettersele davanti agli occhi, paragonarle con il proprio cuore e dire: «è vero», «non è vero», «dubito». E così, con l'aiuto di una compagnia (senza questa compagnia l'uomo è troppo alla mercé delle tempeste del suo cuore, nel senso non buono e istintivo del termine), può dire: «Sì» oppure «No». Così facendo, prende la sua fisionomia d'uomo.
Abbiamo avuto troppa paura di questa critica, veramente. Oppure, chi non ne ha avuto paura, l'ha applicata senza sapere che cosa fosse, non l'ha applicata bene. La critica è stata ridotta a negatività, per ciò stesso che uno fa problema di una cosa che gli è stata detta. Io ti dico una cosa: porre un interrogativo su questa cosa, domandarsi: «è vero?», è diventato uguale a dubitarne. L'identità tra problema e dubbio è il disastro della coscienza della gioventù.
Il dubbio è il termine di un'indagine (provvisorio o no, non so), ma il problema è l'invito a capire ciò che ho davanti, a scoprire un bene nuovo, una verità nuova, cioè ad averne una soddisfazione più carica e più matura.
Senza uno di questi fattori: tradizione, vissuto presente che propone e dà le ragioni, critica - come ringrazio mio padre di avermi abituato a chiedere le ragioni di ogni cosa, quando, tutte le sere prima di addormentarsi, mi ripeteva: «Ti devi chiedere il perché. Chiediti il perché» (lui lo diceva per ben altri motivi!) -, il giovane è foglia fragile lungi dal proprio ramo («Dove vai tu?», diceva Leopardi), vittima del vento dominante, della sua mutevolezza, vittima di un'opinione pubblica generale creata dal potere reale.
Noi vogliamo - e questo è il nostro scopo - liberare i giovani: liberare i giovani dalla schiavitù mentale, dalla omologazione che rende schiavi mentalmente degli altri.
Fin dalla prima ora di scuola ho sempre detto: «Non sono qui perché voi riteniate come vostre le idee che vi do io, ma per insegnarvi un metodo vero per giudicare le cose che io vi dirò. E le cose che io vi dirò sono un'esperienza che è l'esito di un lungo passato: duemila anni».
Il rispetto di questo metodo ha caratterizzato fin dall'inizio il nostro impegno educativo, indicandone con chiarezza lo scopo: mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita. Per la mia formazione in famiglia e in seminario prima, per la mia meditazione dopo, mi ero profondamente persuaso che una fede che non potesse essere reperita e trovata nell'esperienza presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe stata una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, diceva e dice l'opposto; tanto è vero che perfino la teologia, per parecchio tempo, è stata vittima di questo cedimento.
Mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita e, quindi - questo «quindi» è importante per me -, dimostrare la razionalità della fede, implica un concetto preciso di razionalità. Dire che la fede esalta la razionalità, vuol dire che la fede corrisponde alle esigenze fondamentali e originali del cuore di ogni uomo. La Bibbia, infatti, invece della parola «razionalità», usa la parola «cuore». La fede, dunque, risponde alle esigenze originali del cuore dell'uomo, uguale in tutti: esigenza di vero, di bello, di bene, di giusto (del giusto!), di amore, di soddisfazione totale di sé che - come spesso sottolineo ai ragazzi - identifica lo stesso contenuto indicato dalla parola «perfezione» («satisfacere» o «satisfieri», in latino è analogo al termine «perficere», perfezione: perfezione e soddisfazione sono la stessa cosa, come lo sono felicità ed eternità).
Quindi, intendiamo per razionalità il fatto di corrispondere alle esigenze fondamentali del cuore umano, quelle esigenze fondamentali con cui un uomo - volente o nolente, lo sappia o non lo sappia - giudica tutto, ultimamente giudica tutto, in modo imperfetto o in
modo perfetto.
Per questo dare ragione della fede significa descrivere sempre di più, sempre più ampiamente, sempre più densamente, gli effetti della presenza di Cristo nella vita della Chiesa nella sua autenticità, quella la cui «sentinella» è il Papa di Roma. È il cambiamento della vita che, dunque, la fede propone.
Il delitto sta nel concepire, proporre e vivere la fede come una premessa che non viene mantenuta, come una premessa che non c'entra con la vita. Con la vita: la vita è oggi, perché ieri non c'è più, domani non c'è ancora. La vita è oggi. Io oso dire ai ragazzi che ciò che non c'entra in nessun modo con la mia esperienza di oggi, con la mia esperienza presente, non c'è; semplicemente non c'è. Perciò un Dio che non c'entra con quello che ora, oggi, io sperimento, non c'entra in nessun modo: non c'è, è un Dio che non c'è, è un Cristo che non c'è, è un corpo di Cristo che non c'è; sarà in testa ai teologi, ma non in me, non può essere in me.
La separazione del cielo dalla terra è il delitto che ha reso il senso religioso o, meglio, il sentimento religioso, vago, astratto, come una nube che corre nel cielo e presto si svaga, si fiacca e scompare, mentre la terra resta dominata - volenti o nolenti - ultimamente, come lo fu con Adamo ed Eva, dall'orgoglio, dalla imposizione di sé, dalla violenza.
Il rabbino di Roma, Elio Toaff, ha scritto in un libro recente, Essere ebreo: «L'epoca messianica è proprio il contrario di quello che vuole il Cristianesimo: noi ebrei vogliamo riportare Dio in terra e non l'uomo in cielo. Noi non diamo il regno dei cieli agli uomini, ma vogliamo che Dio torni a regnare in terra». Quando l'ho letto sono saltato sulla sedia! Questa è esattamente la caratteristica del carisma con cui abbiamo percepito e sentito il Cristianesimo, perché il Cristianesimo è «Dio in terra» e la nostra opera, tutta la nostra vita, ha come scopo la gloria di Cristo, la gloria dell'uomo Cristo, dell'uomo-Dio Cristo. La gloria di Cristo è una cosa temporale, del tempo, dello spazio, della storia, nella storia, al di qua dell'ultimo limite, perché al di là ci pensa solo Lui a farsi gloria: coincide con l'eterno di là, ma di qua, se io non lo servo, la Sua gloria è minore. [...]
Dice il secondo capitolo della lettera di San Paolo ai Galati: «Pur vivendo nella carne [carne è ciò che è definito nel tempo e nello spazio; si definisce nel contingente] io vivo nella fede del Figlio di Dio, il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Si può concepire una fede al di fuori di questa emozione che nasce da un'esperienza presente (domani sarà esperienza presente nel domani!)? Ecco, la persuasione da cui siamo nati è questa: diversamente non si può concepire la fede, sarebbe assurda e sarebbe assurdi aderirvi! Non c'è amico che mi segua che non senta questo. Può sbagliare, essere incoerente mille volte, essere peccatore come me; ma la strada è questa...
Con ciò voglio sottolineare che se la fede non c'entrasse con la razionalità, la fede non potrebbe c'entrare con la vita, perché la razionalità è il modo di vivere tipico dell'uomo.
Quanto ho detto ha centrato tutto l'assetto teorico del Movimento che Dio mi ha dato la grazia di vedere, e che ha preso origine dal gusto della razionalità, dal gusto della chiarezza di concepire la razionalità, dal gusto di viverla continuamente nell'atto che si pone. Tra l'altro, in questo essendo abbastanza soli nel mondo culturale di allora e di oggi: è come se tra una ragione debole e il nichilismo di oggi, la forza e la corposità rivelatrice del segno fosse affermata.
Non ci sono appena la ragione debole e il nichilismo: c'è questo misterioso, ma reale, sperimentabile fenomeno di una realtà che è segno di un'altra realtà. La fede è l'esaltazione del segno, del valore del segno. Così la razionalità tra di noi diventò la ricerca di un modo autentico di cogliere la realtà giudicando gli avvenimenti, cogliendone la corrispondenza alle esigenze costitutive del nostro animo o del nostro cuore, come dice la Bibbia.
Pretendevamo, così tradurre l'antico adagio scolastico: la verità è una «adequatio rei et intellectus», una corrispondenza dell'oggetto alla autocoscienza, alla coscienza di se stessi, cioè alla coscienza di quelle esigenze che costituiscono il cuore, che costituiscono la persona, senza delle quali essa sarebbe niente!
La fede, perciò, viene proposta come la suprema razionalità. La fede così espressa può essere criticabile, ma occorre intendere quel che si vuole dire. La fede viene proposta come appoggiata al supremo vertice della razionalità: quando giunge al suo vertice nell'esame di una cosa, la nostra natura umana sente che c'è qualcosa d'altro.
Questo definisce l'idea di segno: la nostra natura sente che quello che vive, che quello che ha tra mano, rimanda ad altro. L'abbiamo chiamato «punto di fuga»: è il punto di fuga che c'è in ogni esperienza umana, cioè un punto che non chiude, ma rimanda. Questo è un altro concetto fondamentale del nostro insegnamento.
La fede, perciò, viene proposta come la suprema razionalità in quanto l'incontro con l'avvenimento che la veicola genera una esperienza e una corrispondenza all'umano impensabile.
Giovanni e Andrea, quando sono andati a casa di Gesù, quel pomeriggio, e sono stati là a vederlo parlare, sono tornati a casa loro dicendo: «Abbiamo trovato il Messia». E il testo non dice cosa abbia detto; chissà cosa avevano capito di quello che aveva detto! Ma era chiaro che come quell'uomo non c'era nessuno, perché era qualcosa di oltre. Ed è la domanda che gli rivolsero dopo un po' di tempo, quando nel mare in tempesta lui fece il miracolo di far bonaccia immediata. E i suoi discepoli (che sapevano chi era suo padre, sua madre, i suoi fratelli, dove abitava; sapevano tutto di lui perché erano già alcuni mesi che erano affiatatissimi), spaventati, si chiedevano: «Ma chi è costui?». Era così sproporzionato, quello che l'uomo era, a ciò che loro potevano pensare, immaginare, aspettare, che non potevano darsi ragione: era oltre la ragione. Questo è il processo per cui la fede avviene in me, in te, in chiunque, con la grazia di Dio, naturalmente! [...]
Questo è stato il momento più decisivo della mia vita culturale. Dico «culturale» tanto la fede c'entra con la ragione. Ho intuito che la fede risponde alle esigenze del cuore più di qualsiasi altra ipotesi; per questo è più razionale di qualsiasi altra ipotesi razionale.
La fede viene proposta come la suprema razionalità, in quanto l'incontro con l'avvenimento che la veicola genera una esperienza e una corrispondenza all'umano impensata, impensabile. [...]
«Esiste un punto d'arrivo - diceva Kafka -, ma nessuna via». Ed è questo un altro passaggio importante. La fede è proprio la via a ciò che la ragione cerca sopra ogni cosa. Ultimamente, la ragione che cosa cerca, se non il senso della vita, il senso dell'esistenza, il senso di tutto? E tutta la filosofia contemporanea è rassegnata a dire: ci sarà un senso?...
Duemila anni fa il senso stesso è venuto tra noi a dirci: «Io sono la via, la resurrezione, la vita» (cfr. Gv 14,6). L'unico uomo che abbia detto così nella storia del mondo!
Mi permetto di aggiungere un'ultima sola cosa. L'evento di cui tratta la fede è un avvenimento che bisogna vivere, non leggere o discutere: un avvenimento si vive, altrimenti non è adeguato il nostro porci di fronte ad esso. [...] L'evento in questione è che Dio si è fatto carne, uomo, ed è presente: «Sarò con voi tutti i giorni» (cfr. Mt 28,20). È presente, è presente tutti i giorni! Occorre abbandonarsi a questo messaggio e accostare l'esperienza secondo le connotazioni di questo messaggio. Egli disse che sarebbe stato presente ogni giorno nella comunità dei credenti, che li raccoglie e che li fa essere il suo corpo misterioso. Bisogna che noi ci abbandoniamo a questa presenza e viviamo la nostra vita all'interno di questa presenza, sotto l'influsso di questa presenza, giudicata da questa presenza, illuminata da questa presenza, sostenuta da questa presenza.
Il Cristianesimo è un evento: bisogna sottoporgli la vita, la vita intera nell'istante. Come «nell'esperienza di un grande amore - ricordava Guardini - tutto diventa un avvenimento nel suo ambito», così all'evento cristiano bisogna sottoporre l'intera storia della nostra vita. [...]
Nell'Italia fine anni '50: il sorgere di un'intuizione
In una situazione apparentemente ottimale per la trasmissione di un contenuto cattolico teorico ed etico - parrocchie efficienti con offerta di corsi di catechismo «per tutte le stagioni»; lezione di religione obbligatoria in ogni ordine di scuola fino alla media superiore; tradizione almeno formalmente ben salvaguardata nei criteri familiarmente trasmessi; un certo non ancora sconfessato pudore di fronte ad indiscriminata critica o informazione irreligiosa; una buona percentuale di prassi di Messa festiva - un primo contatto con i giovani studenti delle medie superiori forniva un triplice fattore di rilievo che colpiva l'osservatore interessato.
Innanzitutto una immotivazione ultima della fede. Suggestiva è a questo proposito un'immagine che si trova nei Sermoni di sant'Agostino che nel simbolo della lettura evoca in positivo la certezza di una fede motivata: «Colui che in un libro guarda dei caratteri, ma non sa ciò che questi caratteri vogliono dire, ciò a cui essi rimandano, loda con gli occhi, ma non comprende con lo spirito. Un altro, al contrario, loda l'opera d'arte e ne comprende il senso, colui cioè che non soltanto è in grado di vedere, così come ognuno ne è capace, ma che sa anche leggere. E ciò lo può soltanto colui che lo ha appreso...».
In secondo luogo, una scontata inincidenza della fede sul comportamento sociale in generale, e scolastico in particolare.
Infine, un clima decisamente generativo di scetticità che lasciava libero campo all'attacco alla religione da parte di determinati professori. Tale atteggiamento, quando si verificava, otteneva facilmente una certa attenta stima e custodiva un disinteresse di fondo il cui primo riverbero pratico si identificava in una perdita di eticità.
In una simile situazione sembrava porsi come inevitabile un aut-aut: o si doveva considerare il Cristianesimo come qualcosa che aveva ormai perso ogni forza persuasiva e determinante la vita di un giovane studente, oppure si doveva concludere che il fatto cristiano non veniva presentato, offerto, in modo a lui adeguato.
Accettare la prima ipotesi sarebbe stato evidentemente dare per scontato il giudizio storico gramsciano, ma la chiarezza e l'impeto di una fede cristiana vissuta altrettanto evidentemente non poteva cedere al suggerimento di tale punto di vista culturale.
Una comunicazione, e uno sviluppo, del contenuto tradizionale era quindi legata soprattutto ad un problema di metodo.
Due sono stati i cardini di questa intuizione.
Il primo di natura teoretica: i contenuti della fede hanno bisogno di essere abbracciati ragionevolmente, debbono cioè essere esposti nella loro capacità di miglioramento, illuminazione ed esaltazione degli autentici valori umani.
Il secondo cardine si può esprimere dicendo che quella presentazione deve essere verificata nell'azione, cioè l'evidenza razionale può illuminarsi fino alla convinzione solo nell'esperienza di un bisogno umano affrontato dall'interno di una partecipazione al fatto cristiano: e tale partecipazione è un coinvolgimento nella realtà cristiana come fatto essenzialmente sociale o comunionale.
La prova del rischio
In tale metodo ovviamente si gioca un rischio nell'insistere sulla razionalità del progetto di fede: non può pretendere di essere una dimostrazione matematica o comunque apodittica.
E si entra in un rischio quando si dice che è dall'esperienza che una convinzione può scaturire: non si tratta infatti di un «feeling» da evocare, di un'emozione pietistica da suscitare, ma di un impegno che non può barare; si è quindi alla mercé delle sabbie mobili di una libertà.
Ricordo una significativa affermazione di Hans Urs von Balthasar: «egli comprende che, per comprendere, deve realizzare la verità in maniera vitale. In questo modo egli diventerà "discepolo". Egli si impegna, si affida al "cammino"».
D'altra parte, senza affrontare la prova del rischio, educatore ed educando partirebbero entrambi da una finzione: un mistero supposto riducibile ad evidenza oculare e una libertà immaginata come meccanicamente reattiva in corrispondenza ad ogni stimolo dato.