Ascensione (da Joseph Ratzinger)
Da Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia, 1996, pp.254-256
«Salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente»
Il discorso che ci parla dell'ascensione al cielo, unitamente a quello vertente sulla discesa agli inferi, riporta dinnanzi agli occhi della nostra generazione, disincantata criticamente dal Bultmann, l'espressione di quella triplice stratificazione del mondo che noi chiamiamo mitica, e consideriamo ormai definitivamente superata.
Il mondo è, tanto ‘sopra’ quanto ‘sotto’, sempre e dappertutto soltanto mondo, retto dovunque dalle stesse identiche leggi fisiche, dovunque già per principio esplorabile allo stesso modo. Esso non è fatto a ripiani come una casa; per cui, i concetti di ‘sopra’ e ‘sotto’ sono meramente relativi, dipendenti solo dalla collocazione dell'osservatore. Anzi, siccome in pratica non esiste alcun punto assoluto di riferimento (e la terra ovviamente non lo rappresenta di sicuro), in sostanza non si può ormai più parlare di ‘sopra’ e ‘sotto’, e nemmeno di ‘sinistra’ e ‘destra’; il cosmo non presenta più direzioni fisse.
Nessuno oggi vuol più sognarsi di contestare tali nozioni ormai assodate. Una disposizione del mondo localmente pianificata su tre scaglioni non esiste davvero più. Ma era poi realmente data per sottintesa negli asserti di fede concernenti la discesa agli inferi e l'ascensione al cielo del Signore? È senz'altro certo che tale concezione ha offerto il materiale ideologico per formularli; ma è anche altrettanto certo che non ha costituito il fattore sostanziale e decisivo. I due articoli esprimono invece, assieme alla professione di fede nel Gesù storico, l'intera dimensione dell'esistenza umana, che non abbraccia affatto tre piani cosmici, ma sottende invece tre dimensioni metafisiche. È quindi logico, facendo l'argomentazione inversa, che la posizione attualmente spacciantesi per moderna non mette fuori gioco soltanto l'ascensione al cielo e la discesa agli inferi, ma anche lo stesso Gesù storico; ciò che ne rimane, può essere unicamente un fantasma variamente drappeggiato, sul quale non a caso nessuno intende seriamente costruire qualcosa.
Che cosa dicono invece in realtà le nostre tre dimensioni? Avevamo già spiegato in precedenza come la discesa agli inferi non si riferisca affatto ad una profondità esteriore del cosmo; questa non c'entra affatto: nel testo fondamentale che ce ne parla, ossia nella preghiera rivolta dal crocefisso a Dio che l'ha abbandonato, manca del tutto ogni allusione cosmica. L'affermazione di fede polarizza invece il nostro sguardo sulla profondità dell'esistenza umana, che si spinge sin nell'abisso della morte, nella zona dell'irraggiungibile solitudine e dell'amore rifiutato, abbracciando quindi anche la dimensione dell'inferno, anzi portandola in sé come potenzialità intrinseca. L'inferno, l'esistere nel rifiuto dell' ‘essere per gli altri’, non è una determinazione cosmografica, bensì una dimensione della natura umana, un abisso in cui essa può scadere. Oggi noi sappiamo, meglio di quanto non abbiamo mai saputo, come questa profondità tocchi direttamente l'esistenza d'ogni singolo individuo; siccome l'umanità è in ultima analisi ‘un uomo’, questa profondità non interessa ovviamente soltanto il singolo, ma coinvolge direttamente anche l'unico corpo del genere umano in quanto complesso, che deve sopportarsi in santa pace tale vuoto abissale.
Partendo da questi dati, si arriva nuovamente a comprendere come Cristo - il ‘nuovo Adamo’ - abbia affrontato la fatica di sopportare questa profondità, e non abbia proprio voluto restarsene esente, rimanendosene chiuso in una intangibile superiorità; ma reciprocamente, appena ora il totale rifiuto si è fatto possibile in tutta la sua insondabile abissalità.
L'ascensione di Cristo al cielo ci rimanda invece all'altro capo dell'esistenza umana, che si estende infinitamente verso l'alto e verso il basso. Come polo contrapposto al radicale isolamento, all'inaccostabilità dell'amore respinto, questa nostra esistenza porta in sé la possibilità di accostamento a tutti gli altri uomini utilizzando il contatto con l'amor divino, sicché l'umanità è messa in grado di trovare quasi il suo luogo geometrico in centro alla vita stessa di Dio.
Queste due facoltà dell'uomo, che si delineano al nostro sguardo nelle parole cielo e inferno, sono ovviamente delle possibilità di tipo radicalmente diverso, a lui accordate come realizzabili in maniera tutta differente. Il baratro che noi chiamiamo inferno, può infliggerselo soltanto l'uomo di sua stessa iniziativa. Siamo costretti anzi ad usare un'espressione ancor più energica: l'abisso consiste formalmente nel fatto che l'uomo non vuol ricever nulla, e si ostina invece a voler essere assolutamente autarchico. È pertanto l'espressione della chiusura in se stessi. L'essenza del suo sprofondamento sta quindi proprio nel fatto che l'uomo non vuol ricevere né accogliere alcunché, ma brama invece reggersi integralmente da sé, mostrarsi autosufficiente. Ora, quando questo atteggiamento ha raggiunto la sua ultima radicalità, egli è ormai divenuto l'inaccostabile, l'isolato, il respinto. L'inferno è il voler-essere-solo-se-stessi; cosa che avviene puntualmente allorché l'uomo si barrica nel suo 'io'.
Viceversa, l'essenza di quel ‘sopra’ da noi denominato cielo ha la caratteristica di poter solo esser ricevuto, così come l'inferno si può infliggerselo soltanto da sé. Il ‘cielo’ è per sua stessa natura un elemento non fatto né fattibile da parte nostra; nel linguaggio scolastico si era giustamente detto che esso, in quanto grazia, è un 'donum indebitum et superadditum naturae’. Il cielo in quanto amore perfetto può sempre e soltanto venir accordato all'uomo; il suo inferno invece è la solitudine in cui si precipita chi non vuol ricevere, chi ricusa la condizione di mendicante richiudendosi in se stesso. Partendo da questi dati, risulta ora facilmente dimostrabile che cosa significhi il termine ‘cielo’ per la mentalità cristiana. Esso non va inteso come un luogo eterno, ultramondano; ma nemmeno come una mera regione metafisica eterna.
Dobbiamo anzi ribadire che le realtà ‘cielo’ e ‘ascensione di Cristo al cielo’ sono inscindibilmente connesse; infatti, solo dando per scontata tale connessione, risulta comprensibile il senso cristologico, personale, solidamente ancorato alla storia, rivestito dal messaggio cristiano che ci parla del cielo. Impostiamo ora la questione da un altro lato: il cielo non è un luogo che prima dell'ascensione di Cristo sia stato sbarrato da un positivistico decreto punitivo di Dio, per venir poi un giorno altrettanto positivisticamente riaperto. La realtà del cielo nasce invece in primo luogo dall'intimo incontro fra Dio e l'uomo. Il cielo va definito come la presa di contatto fra la natura dell'uomo e la natura di Dio; ora, tale stretta fusione fra Dio e l'uomo si è definitivamente attuata in Cristo, col superamento dello stadio biologico da lui operato passando attraverso la morte per giungere alla nuova vita. Il cielo è quindi quel futuro dell'uomo e dell'umanità che quest'ultima non può darsi da sé, e che perciò le rimane precluso sin tanto che essa bada solo a se stessa; per fortuna sua però, esso le è stato per la prima volta e decisamente aperto nell'uomo avente il suo centro esistenziale in Dio, nell'uomo tramite il quale Dio si è inserito nella natura umana.
«Salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente»
Il discorso che ci parla dell'ascensione al cielo, unitamente a quello vertente sulla discesa agli inferi, riporta dinnanzi agli occhi della nostra generazione, disincantata criticamente dal Bultmann, l'espressione di quella triplice stratificazione del mondo che noi chiamiamo mitica, e consideriamo ormai definitivamente superata.
Il mondo è, tanto ‘sopra’ quanto ‘sotto’, sempre e dappertutto soltanto mondo, retto dovunque dalle stesse identiche leggi fisiche, dovunque già per principio esplorabile allo stesso modo. Esso non è fatto a ripiani come una casa; per cui, i concetti di ‘sopra’ e ‘sotto’ sono meramente relativi, dipendenti solo dalla collocazione dell'osservatore. Anzi, siccome in pratica non esiste alcun punto assoluto di riferimento (e la terra ovviamente non lo rappresenta di sicuro), in sostanza non si può ormai più parlare di ‘sopra’ e ‘sotto’, e nemmeno di ‘sinistra’ e ‘destra’; il cosmo non presenta più direzioni fisse.
Nessuno oggi vuol più sognarsi di contestare tali nozioni ormai assodate. Una disposizione del mondo localmente pianificata su tre scaglioni non esiste davvero più. Ma era poi realmente data per sottintesa negli asserti di fede concernenti la discesa agli inferi e l'ascensione al cielo del Signore? È senz'altro certo che tale concezione ha offerto il materiale ideologico per formularli; ma è anche altrettanto certo che non ha costituito il fattore sostanziale e decisivo. I due articoli esprimono invece, assieme alla professione di fede nel Gesù storico, l'intera dimensione dell'esistenza umana, che non abbraccia affatto tre piani cosmici, ma sottende invece tre dimensioni metafisiche. È quindi logico, facendo l'argomentazione inversa, che la posizione attualmente spacciantesi per moderna non mette fuori gioco soltanto l'ascensione al cielo e la discesa agli inferi, ma anche lo stesso Gesù storico; ciò che ne rimane, può essere unicamente un fantasma variamente drappeggiato, sul quale non a caso nessuno intende seriamente costruire qualcosa.
Che cosa dicono invece in realtà le nostre tre dimensioni? Avevamo già spiegato in precedenza come la discesa agli inferi non si riferisca affatto ad una profondità esteriore del cosmo; questa non c'entra affatto: nel testo fondamentale che ce ne parla, ossia nella preghiera rivolta dal crocefisso a Dio che l'ha abbandonato, manca del tutto ogni allusione cosmica. L'affermazione di fede polarizza invece il nostro sguardo sulla profondità dell'esistenza umana, che si spinge sin nell'abisso della morte, nella zona dell'irraggiungibile solitudine e dell'amore rifiutato, abbracciando quindi anche la dimensione dell'inferno, anzi portandola in sé come potenzialità intrinseca. L'inferno, l'esistere nel rifiuto dell' ‘essere per gli altri’, non è una determinazione cosmografica, bensì una dimensione della natura umana, un abisso in cui essa può scadere. Oggi noi sappiamo, meglio di quanto non abbiamo mai saputo, come questa profondità tocchi direttamente l'esistenza d'ogni singolo individuo; siccome l'umanità è in ultima analisi ‘un uomo’, questa profondità non interessa ovviamente soltanto il singolo, ma coinvolge direttamente anche l'unico corpo del genere umano in quanto complesso, che deve sopportarsi in santa pace tale vuoto abissale.
Partendo da questi dati, si arriva nuovamente a comprendere come Cristo - il ‘nuovo Adamo’ - abbia affrontato la fatica di sopportare questa profondità, e non abbia proprio voluto restarsene esente, rimanendosene chiuso in una intangibile superiorità; ma reciprocamente, appena ora il totale rifiuto si è fatto possibile in tutta la sua insondabile abissalità.
L'ascensione di Cristo al cielo ci rimanda invece all'altro capo dell'esistenza umana, che si estende infinitamente verso l'alto e verso il basso. Come polo contrapposto al radicale isolamento, all'inaccostabilità dell'amore respinto, questa nostra esistenza porta in sé la possibilità di accostamento a tutti gli altri uomini utilizzando il contatto con l'amor divino, sicché l'umanità è messa in grado di trovare quasi il suo luogo geometrico in centro alla vita stessa di Dio.
Queste due facoltà dell'uomo, che si delineano al nostro sguardo nelle parole cielo e inferno, sono ovviamente delle possibilità di tipo radicalmente diverso, a lui accordate come realizzabili in maniera tutta differente. Il baratro che noi chiamiamo inferno, può infliggerselo soltanto l'uomo di sua stessa iniziativa. Siamo costretti anzi ad usare un'espressione ancor più energica: l'abisso consiste formalmente nel fatto che l'uomo non vuol ricever nulla, e si ostina invece a voler essere assolutamente autarchico. È pertanto l'espressione della chiusura in se stessi. L'essenza del suo sprofondamento sta quindi proprio nel fatto che l'uomo non vuol ricevere né accogliere alcunché, ma brama invece reggersi integralmente da sé, mostrarsi autosufficiente. Ora, quando questo atteggiamento ha raggiunto la sua ultima radicalità, egli è ormai divenuto l'inaccostabile, l'isolato, il respinto. L'inferno è il voler-essere-solo-se-stessi; cosa che avviene puntualmente allorché l'uomo si barrica nel suo 'io'.
Viceversa, l'essenza di quel ‘sopra’ da noi denominato cielo ha la caratteristica di poter solo esser ricevuto, così come l'inferno si può infliggerselo soltanto da sé. Il ‘cielo’ è per sua stessa natura un elemento non fatto né fattibile da parte nostra; nel linguaggio scolastico si era giustamente detto che esso, in quanto grazia, è un 'donum indebitum et superadditum naturae’. Il cielo in quanto amore perfetto può sempre e soltanto venir accordato all'uomo; il suo inferno invece è la solitudine in cui si precipita chi non vuol ricevere, chi ricusa la condizione di mendicante richiudendosi in se stesso. Partendo da questi dati, risulta ora facilmente dimostrabile che cosa significhi il termine ‘cielo’ per la mentalità cristiana. Esso non va inteso come un luogo eterno, ultramondano; ma nemmeno come una mera regione metafisica eterna.
Dobbiamo anzi ribadire che le realtà ‘cielo’ e ‘ascensione di Cristo al cielo’ sono inscindibilmente connesse; infatti, solo dando per scontata tale connessione, risulta comprensibile il senso cristologico, personale, solidamente ancorato alla storia, rivestito dal messaggio cristiano che ci parla del cielo. Impostiamo ora la questione da un altro lato: il cielo non è un luogo che prima dell'ascensione di Cristo sia stato sbarrato da un positivistico decreto punitivo di Dio, per venir poi un giorno altrettanto positivisticamente riaperto. La realtà del cielo nasce invece in primo luogo dall'intimo incontro fra Dio e l'uomo. Il cielo va definito come la presa di contatto fra la natura dell'uomo e la natura di Dio; ora, tale stretta fusione fra Dio e l'uomo si è definitivamente attuata in Cristo, col superamento dello stadio biologico da lui operato passando attraverso la morte per giungere alla nuova vita. Il cielo è quindi quel futuro dell'uomo e dell'umanità che quest'ultima non può darsi da sé, e che perciò le rimane precluso sin tanto che essa bada solo a se stessa; per fortuna sua però, esso le è stato per la prima volta e decisamente aperto nell'uomo avente il suo centro esistenziale in Dio, nell'uomo tramite il quale Dio si è inserito nella natura umana.